Sin dall’epoca dei Them Van passava ore ed ore, da solo o in compagnia, a cantare, comporre ed improvvisare con la chitarra. Improvvisava non solo le melodie, ma anche le parole sul momento. In questo modo cercava di tirar fuori dall’inconscio la materia prima delle sue composizioni. Le stesse avevano una struttura libera, senza la divisione fra strofa e ritornello. Da questa esperienza venne fuori il suo nuovo stile di cantare, che non spero di riuscire a descrivere. E’ necessario ascoltarlo. Le canzoni si dilatano, e a volte si fermano su una frase o una sola parola ripetuta una decina di volte. Nell’economia dello stream-of-consciousness questa ripetizione corrisponde alla mente che si perde dietro i suoi pensieri. Per molti ascoltatori la cosa assumerà un’altra dimensione: quelle sono parole magiche che, se ripetute, hanno il potere di guarire i dolori dell’anima. Le parole delle canzoni di Van assumono il loro pieno significato solo quando sono cantate da lui. Il come vengono pronunciate ne muta o rovescia il senso; il ripeterle tante volte ne scava a forza tutti i significati nascosti. Alla pratica della ripetizione si sovrappone poi un armamentario di tecniche vocali per aumentare la drammaticità dell’esecuzione.

Nelle prime registrazioni questo modo di cantare e di comporre non era venuto fuori perchè le vecchie case discografiche non glielo avevano permesso. Durante il 1968 Van, sempre disperatamente senza soldi, trova un ingaggio per 75 dollari a serata. Con quella cifra avrebbe dovuto pagare anche la band e le spese di taxi. Giocoforza egli si risolve a farsi accompagnare solo da un flautista ed un bassista. Questa soluzione si rivela l’ideale per mettere in evidenza l’espressività del suo canto e per mettere a punto il prossimo album. Le composizioni erano pronte da mesi se non da anni. Per motivi di budget la registrazione avvenne in due soli giorni. La tecnica preferita di registrazione di Van è quella di registrare contemporaneamente tutti gli strumenti, col minimo di sovraincisioni, come in una jam-session o in un disco dal vivo. D’altronde, se canti su di una base pre-registrata, come fai a ripetere un verso ad-libitum? Questa tradizione inizia da questo disco e non è andata mai smarrita. Gli arrangiamenti di Astral Weeks sono spesso semplicissimi, ma estremamente originali. Hanno affascinato una moltitudine di ascoltatori, ma Van non hai mai rifatto un album con lo stesso organico. Dobbiamo essere grati al produttore Lewis Merenstein, che impose i session-men di sua fiducia. Un critico ha malignato che Merenstein, per risparmiare, chiamava i jazzisti, cioè giente abituata a registrare col minimo di prove e quindi di spese. La caratteristica più saliente nel suono è l’intreccio fra le chitarre acustiche (Van spesso si limita a suonare gli accordi), e il contrabbasso di Richard Davis (il preferito di Stravinsky!). Uno strumento solista fà il controcanto: principalmente il flauto, altrove violino o chitarra, sassofono soprano nella conclusiva “Slim Slow Slider”. Un solo pezzo, “The Way Young Lovers Do”, presenta un riuscito arrangiamento per fiati. In tutto l’album l’accompagnamento è affidato ai violini, sovraincisi. Alla batterista c’è Connie Kay, membro del Modern Jazz Quartet nonchè session-man in una infinità di dischi. Dirà l’autore nel 1997, a proposito di Astral Weeks: “Ciò che mi sorprende è che sia entrato nella storia del rock. Non c’è assolutamente nulla in esso di rock. Ci puoi trovare il folk e la musica classica e un pizzico di blues. Se lo analizzi non ci trovi nulla di rock, e questo era proprio il motivo per cui lo feci. Ne avevo abbastanza. Volevo allontanarmi dalla roba dell’era psichdelica, quando la musica soul stava diventando plastica. Quello che feci fu ritirarmi da qualsiasi cosa che conoscevo e andai all’estremo”.

Le otto canzoni parlano di amore e di ricordi che ritornano in mente sotto forma di immagini scollegate. In questo Van ammette di essersi ispirato al lavoro di Dylan. I critici si sono sbizzarriti nel ricercare il significato di questi testi. In realtà ognuno è libero di trovarci quello che vuole. Si tratta di parole che uscivano da sole dall’ inconscio dell’autore e neanche lui sarebbe in grado di spiegarle. Di sicuro c’è una storia d’amore, a lungo inseguito, infine trovato e poi perso.

via | https://artesuono.blogspot.it

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