Live Dead è il primo album dal vivo della band che più di ogni altra ha costruito la propria immagine sui “live”. Nella loro discografia i dischi dal vivo hanno raggiunto quelli in studio e senza dubbio sono destinati ancora a crescere. Live Dead è un live un po’ speciale non solo perché è stato registrato con una platea di amici e non con un pubblico pagante ma soprattutto perché è un disco di passaggio, “il” disco di passaggio dagli Acid Tests e dalla San Francisco “sixties” verso il mondo nuovo, verso i settanta, anni più complicati e grigi.
Nel ’69 i Dead avevano appena abbandonato il quartier generale di Haight Ashbury e si erano spostati a nord, in campagna, alla ricerca della quiete e delle “buone vibrazioni” che nella città della baia, ormai sconsacrata, non poteva più dare. Con loro, anche la musica aveva cambiato domicilio, spostandosi dallo spazio astrale e psichico ai prati e alle colline di casa, dalle improvvisazioni elettriche alle semplici melodie country folk.
Nella sua magrezza assai poco Dead (settantacinque minuti su due LP, quando un “normale” show durava già allora più di tre ore), il Live rende la ricchezza e l’eccitazione del periodo, il “questo” e “quello” che Garcia e i suoi si stanno impegnando a fare. Ci sono schegge del passato prossimo (Saint Stephen) e folgoranti novità (Dark Star), ruminazioni sonore a oltranza (Feedback) e puntigliose rivisitazioni blues (Death Don’t Have No Mercy), in colorati “fili” sonori grossi e lunghi, brani di otto, dieci, venti minuti. C’è il classico suono Dead, sottile e sfuggente, tanto che non si ha mai capito perché il gruppo si dotasse di amplificazioni enormi e d’avanguardia se poi la musica era così pallida e spettrale: e c’è il gusto del gioco, del dilungamento, della piccola avventura da inventare sul momento, che è un po’ il segreto della storia Dead e la molla che anima tanti loro eredi, a cominciare dai Phish.
Due sono i brani che più hanno contribuito a insediare Live/Dead nella Hall Of Fame del rock. Uno è Turn On Your Love Light, uno swingante Bobby Pland subito tra i preferiti del pubblico. Dal vivo era la passerella di “Pigpen” McKernan, il percussionista che rappresentava l’anima spontaneista e “freak” del gruppo: che non solo cantava, ma la usava come spazio personale per improvvisati rap e storie di vita. L’altro clou è Dark Star, il lungo volo chitarristico di Garcia e Weir dove in gioco è più il sudore e swing di Love Light ma un “sballo” più sottile, un viaggio magico e profondo.
Registrato nel ’69, il 26 gennaio all’Avalon Ballroom e il 27 febbraio al Fillmore West a San Francisco, il disco dai quattro lati (del vinile s’intende) “colorati” come tavolozze, ci offre un flusso sonoro di blues, psichedelia, improvvisazione, sperimentazione o meglio una combinazione di tutti questi elementi, amalgamati come solo loro riescono a fare. Un grande progetto riuscito, e non a caso quella Stella Scura ha continuato a mandare la sua luce nei concerti Dead sino alla fine, ogni sera abbagliante e sempre diversa.
0 commenti