1 – Dai canti di lavoro al boogie

Alle origini del blues e di tutta la musica nera afroamericana c’è una lunga serie di eventi tragici, il cui principio cronologico potrebbe essere fissato al 1619, anno della fondazione di Jamestown e del primo trasferimento definitivo dei neri in America.
Fin da subito la schiavitù dei neri Africani si rivela fenomeno doppiamente crudele: non solo lo schiavo afroamericano viene privato dei diritti fondamentali (come ogni altro schiavo d’altronde), ma a causa delle sue peculiarità razziali e sociali arriva a perdere la qualifica stessa di essere umano agli occhi dei coloni. Inoltre la concezione sociale, filosofica e religiosa dei nativi Africani risulta antitetica rispetto alla mentalità umanistica dei coloni Americani dell’epoca che consideravano l’uomo come misura di tutte le cose e facevano conseguire a questa visione una mentalità pragmatica e concreta.
Non a caso è negli Stati Uniti, dove la religione puritana è più forte, (e le fattorie sono più piccole, facendo sì che vi sia anche un maggior contatto tra schiavista e schiavo), che i neri Africani vengono sradicati da ogni tradizione religiosa e rituale, mentre nelle regioni a dominazione Francese e Spagnola molta più libera è concessa agli schiavi deportati e si verificano fenomeni di sincretismo, cioè quella fusione di religioni che vede, ad esempio, la coesistenza di Cristianesimo e voodoo, mentre danze e tradizioni musicali vengono mantenute in vita: emblematici i casi di Haiti, Brasile, Cuba, Giamaica, Guyana e New Orleans, luoghi in cui nasceranno musiche meticcie ed esotiche e dove prenderanno vita tradizioni musicali floridissime. Cruciale si rivelerà in particolare New Orleans, dove i neri si ritrovavano a danzare a Congo Square e dove, dal cozzare tra la tradizione Africana e la musica delle bande Francesi trarrà le sue origini il jazz.
La musica Africana era pentatonica, cioè formata da 5 toni e priva di semitoni (da cui la tendenza a glissare sulla terza e la settima, col caratteristico suono della blue note), poliritmica, basata sulla sovrapposizione di ritmiche diverse e sulle variazioni timbriche degli strumenti percussivi (in Africa i tamburi venivano usati per comunicare a distanza formando vere e proprie parole) e tendente all’improvvisazione, poiché la musica Africana era tramandata e non scritta; inoltre essa non era fine a se stessa, prodotto finito destinato alla contemplazione come nel mondo Occidentale, bensì funzionale allo svolgersi di un rituale o all’accompagnamento di un lavoro.
Non a caso, prima ancora del blues e del gospel, compaiono i canti di lavoro: pur derivando da un’usanza tradizionale dell’Africa Occidentale il canto di lavoro è in realtà la prima espressione musicale del nero afroamericano, lo schiavo di seconda generazione che ha ascoltato le nenie cantate dai suoi genitori, ma comincia a plasmarle prendendo come punto di riferimento il nuovo continente; questo in parte perché la musica originaria Africana era nata per accompagnare il lavoro degli agricoltori, non di forzati del lavoro come gli schiavi neri e in parte perché, come si diceva, i padroni bianchi proibivano ogni riferimento agli dei ed alle religioni africane, che ricordavano ai neri l’antica libertà e potevano istigarne gli istinti di fuga.
Una delle caratteristiche più importanti riprese nei canti di lavoro dalla musica africana è lo schema secondo cui una voce canta, e un coro le risponde: è il cosiddetto canto antifonale che sarà responsabile dello schema A-A-B del blues. Ma della musica tradizionale Africana resta anche la tendenza ad improvvisare, contrapponendosi alla tradizione Europea che si fondava sulla regolarità dei suoni: gli sbalzi e le continue variazioni nelle voci di questi canti divengono il modello su cui s’informeranno anche le parti strumentali del blues e del jazz.
Nell’800 accanto ai canti di lavoro tradizionali cominciano ad essere eseguiti anche spirituals, conseguenza di un fenomeno sociale più ampio che aveva visto missionari ed evangelizzatori del sud convertire gli schiavi alla religione Cristiana, facendo presa sul parallelo tra la loro sorte e quella degli ebrei; inizialmente gli spiritual si differenziano dai canti di lavoro solo per il contenuto, ma presto il suono si ammorbidisce e la vena si fa più melodica, mentre lo schema domanda-risposta diventa un dialogo tra predicatore e fedeli: accanto a musiche tradizionali Africane adattate non mancano canti religiosi europei e Americani, di cui vengono preservate parole e melodia, alterandone però le armonie, sincopandone i ritmi, giocando con vibrato ed alterazioni timbriche e adattando, come succederà per il blues, il sistema diatonico occidentale alla scala pentatonica e smorzando le note. I cantanti delle chiese nere saranno un modello per il primo jazz di New Orleans, che ne riprende non solo gli arrangiamenti, ma anche i riffs e i breaks.
Ad un altro avvenimento storico, vale a dire l’abolizione della schiavitù, è legata la comparsa del blues: non ancora formalizzato nelle 12 battute, il blues diviene espressione individualistica del nero americano, in contrapposizione con il carattere collettivo degli antichi canti Africani, dei canti di lavoro e del gospel, mentre diviene possibile possedere strumenti (prima al massimo era possibile l’utilizzo del Banjo, strumento africano) come chitarra ed armonica, vale a dire i due strumenti-chiave del primo blues (il cosiddetto country blues, blues di campagna, così chiamato perché nato nelle campagne del sud degli Stati Uniti, in particolare alla foce del Delta del Mississipi).
Il modo di suonare la chitarra nel blues si discosta da quello classico: i riffs prodotti dalla chitarra devono imitare quelli vocali, oltre che accompagnare la voce stessa (la stessa cosa che avverrà nella musica del primo grande solista jazz, Louis Armstrong).
Il periodo a cavallo tra i due secoli è, più in generale, una fase importantissima per le radici della musica americana: a New Orleans, dove l’influenza culturale predominante è quella Francese e dove ai neri viene lasciata maggior liberà d’espressione i neri dell’uptown ricreavano le marce in 4/4 delle bande militari e li rivisitavano attraverso la propria sensibilità musicale mentre i Creoli della downtown, meticci nati dall’unione tra bianchi e neri, godendo di una posizione privilegiata e avendo un accesso più diretto alla musica Europea, ripropongono più fedelmente quelle sonorità.
Le brass bands (band di ottoni) nere vengono chiamate jass (sporche) e sono malviste per il suono scalcinato e disordinato dalle compite bande dei creoli, almeno finché, nel 1894, con le leggi che fanno entrare in vigore la segregazione anche a New Orleans colpendo i neri essi non cominciano ad unirsi alle jass band stesse: da quest’incontro nasce il jazz.
Un altro fenomeno importante è quello che vede nascere il blues singer professionista e, più in generale, il nero come uomo di spettacolo: vaudeville e Black Minstrels (un rifacimento dei White Minstrels, spettacoli in cui i bianchi si dipingevano la faccia di nero e tentavano di ricreare, a mo di presa in giro, la musica nera) sono solo alcune delle forme in cui rivive la matrice blues. Fenomeno ancora più importante è la nascita del cosiddetto blues classico: esclusivamente femminile, il classic blues vede l’artista accompagnata da un’orchestra e nasce con Madame Rainey (cantante che girava con la compagnia girovaga dei Rabbit Foot Minstrels), la cui pupilla è la celebre Bessie Smith, con Ida Cox, Sarah Martin e Trixie Smith tra le principali interpreti di questo genere.
Per molti versi il suono del blues classico, non solo per via dell’accompagnamento di un’orchestra, ma anche per le dinamiche del canto, è però lontanissimo dalle asperità e dallo spirito del blues di campagna: non a caso le cantanti blues si trovano ad animare teatri di varietà e circhi prima, veri e propri teatri poi, che si affiancano e poi sostituiscono ai vaudeville. Il country blues, il cantante solitario accompagnato dalla chitarra e dall’armonica, ha invece carattere prevalentemente maschile e rappresenta per molti versi lo spirito musicale più crudo ed autentico del blues: allo stesso tempo il suono più aspro e rudimentale fece sì che le prime registrazioni di bluesman country siano posteriori rispetto a quelle delle interpreti di blues classico.
Al 1917 risalgono le prime incisioni commerciali di jazz, quelle della Original Dixieland Jazz Band, orchestra non a caso formata esclusivamente da musicisti bianchi, nel 1920 viene registrata la prima artista nera (per la Okeh Record Company): è Mamie Smith, con “Crazy Blues”, stile molto vicino al vaudeville e a quello di Sophie Tucker (ancora una bianca); quel disco si rivela fondamentale per la nascita del fenomeno dei Race Records, dischi cantati da neri per il pubblico nero che si rivela segmento di mercato più che fertile e di cui Bessie Smith si rivelerà regina incontrastata del classic blues; primo bluesman country di successo sarà invece Blind Lemon Jefferson che comincerà ad incidere a metà degli anni ’20, divenendo in breve, assieme a Charley Patton, modello da imitare per tutto il country blues a venire.
Segue un periodo relativamente florido per il genere, che non s’interrompe nemmeno con la Grande Depressione del 1929 (che pure fa sparire dal mercato i Race Records), in cui artisti del delta del Mississipi come Skip James, Son House, Lonnie Johnson prima, Robert Johnson poi, contribuiscono a definire e codificare il genere nelle sue 12 battute e nella sua struttura canonica ( A-A-B).
Negli stessi anni cominciano anche ad essere registrati i primi cantanti country: il genere si era sviluppato nell’Appalachia, regione degli Stati Uniti che, a causa dell’isolamento geografico aveva a lungo preservato il bagaglio musicale delle antiche canzoni folcloristiche inglesi e scozzesi, riproposte spesso con l’accompagnamento del violino, finché alla fine dell’800 non aveva cominciato ad utilizzare anche uno strumento spagnolo come la chitarra e l’africano banjo per poi contaminarsi con influenze del blues e del vaudeville. Il risultato è appunto la cosiddetta old time music, sinonimo (e allo stesso tempo evoluzione del folk appalachiano originale), musica country delle radici, per la cui preservazione si rivelerà fondamentale la celebre Carter Family, al contratto con la Victor dal 1928 ma attiva a suonare (con una line-up differente) da oltre dieci anni. È però Jimmie Rodgers, all’inizio degli anni ’30, a codificare definitivamente quel suono e a renderlo popolare, prima di Roy Acuff e di Hank Williams: non solo Rodgers è la prima star del genere, ma unendo lo yodeling degli alpini con la chitarra slide hawaiana, codifica tutti gli elementi che ancora adesso s’identificano tradizionalmente con la musica country stessa.
Un altro, importante punto d’unione tra musica nera e bianca sono poi quelle jug bands che univano folk appalachiano, blues e ragtime (una prima forma pianistica di jazz che però era priva del carattere improvvisato di quest’ultimo e per molti versi risultava più vicina alla sensibilità europea): la jug (brocca) da cui il genere prende il nome è utilizzato soffiandoci dentro per produrre suoni modulati e ad esso si accompagnano strumenti folk e blues come chitarra violino e banjo, ma anche strumenti trovati: assi per lavare, cucchiai, secchi, ossa e strumenti a fiato come armonica e kazoo. Il genere si sviluppa a Louisville, nel Kentucky, diviene popolarissimo a Memphis già negli anni ’10, suonato da artisti bianchi e neri.   Gli anni ’20 sono anche gli anni delle prime incisioni di dischi connessi, più o meno da vicino, con il nascente jazz: con la Fletcher Onderson’s Orchestra in cui militava Louis Armstrong il jazz di New Orleans diveniva swing, anche se il genere sarebbe stato portato al grande successo da un bianco, Benny Goodman nel 1935, (e da una costola dello swing sarebbe uscita, tra i ’30 ed i ‘40 la moda del jive di Cab Calloway e Leo Watson). Nel frattempo a decine vengono registrati i pianisti boogie woogie, prima forma di blues per piano, versione deragliante e libera del rag time caratterizzata dal walking bass della mano sinistra e dagli accordi blues della mano destra, musica delle bettole del Nord America, che è anche uno dei primi frutti dell’incontro tra i neri del Sud, emigrati in cerca di lavoro verso le città del Nord portandosi dietro la propria tradizione musicale country blues ed i neri del Nord, abituati a suonare prevalentemente le musiche di moda, come appunto il rag time: il basso è quello ostinato del rag time, il suono, quello rauco e primitivo del blues (di cui conserva anche il gusto per l’improvvisazione).
Altro fenomeno rilevante è quel massiccio movimento migratorio che vede, fin da inizio secolo, i neri del sud spingersi alla ricerca di lavoro nelle grandi metropoli industriali del nord: Chicago, Detroit e New York in primis.
Dalle regioni del sud provenivano i bluesman di campagna e da Kansas City provenivano i primi shouters, come Big Joe Turner e Jimmy Rushing che, facendosi accompagnare da piccole orchestre di fiati e percussioni, tra ritmi indemoniati e assoli di sassofoni, ricorrendo all’urlo per sovrastarne il suono: sono le origini del jump blues, ponte ideale tra le big band dello swing, il boogie woogie ed il blues, nonché antenato del rhtyhm’n’blues e del rock’n’roll.
Fondamentale per arrivare a quei suoni si rivela anche l’influenza delle città sul blues delle campagne, che porta alla nascita del blues elettrico: i ritmi si fanno più concitati e a Chicago e nelle altre città del blues nei tardi anni ’40 il blues del Delta viene elettrificato, mentre si forma una line up tipo: batteria, piano, basso, sax, chitarra ed armonica; dalla scena blues di Chicago dell’epoca emergono Muddy Waters, Howlin’ Wolf e Willie Dixon, dal TexasT-Bone Walker e Lightnin’ Hopkins, da Detroit John Lee Hooker. Tutti artisti che si riveleranno modelli fondamentali con la nascita del blues-rock degli anni ’60.
Un’altra tappa fondamentale è il 1947, anno in cui il giornalista di Billboard Jerry Wexler conia il termine rhythm’n’blues, per sostituire quello offensivo di race records, finendo poi con l’indicare, a livello musicale, un nuovo suono che del jump blues manteneva il tiro e le sonorità, riducendo però al minimo l’improvvisazione (e restringendone ulteriormente la line up), divenendo in breve tempo la massima espressione popolare della musica nera (in contrapposizione con il jazz che dal bop dei primi ’40 in poi si configura come forma musicale complessa ed intellettuale) e generando, tra i tanti frutti anche quello che nel giro di qualche anno sarebbe stato chiamato rock’n’roll…

2 – Rock & Roll

Spesso il rock’n’roll viene indicato come una fusione tra country e rhythm’n’blues, la sua data di nascita viene fatta coincidere col 1954, anno della prima incisione di Elvis Presley, mentre l’invenzione del termine è assegnata al Dj Alan Freed: tutto ciò è per molti versi una distorsione, emblematica dello spirito predatorio dei bianchi nei confronti della musica nera.
Innanzi tutto, ancor prima che nasca il termine rhythm’n’blues il suono del rock’n’roll emette i suoi primi vagiti nel jump blues del Louis Jordan di “Let The Good Times Roll” e nella versione di “Good Rockin Tonight” del suo seguace Wynonie Harris: il pezzo è di Roy Brown, che nel 1949 esce con un altro pezzo archetipo del rock’n’roll come “Rockin’ At Midnight”. Segue nel 1951 “Rocket 88” di Jackie Brenston, dove tutti gli elementi costitutivi del genere sono già saldamente al loro posto: il sax in bella vista, il ritmo travolgente, i testi che parlano di macchine, donne ed alcool.
Il 1951 è anche l’anno in cui Alan Freed, colui che vanta l’invenzione del termine, (ma in realtà il termine girava da decenni, e titoli tradizionali blues e rhythm’n blues come “My man rock me with one steady roll” di Trixie Smith o pezzi di Wild Bill Moore quali “We’re gonna rock we’re gonna roll” o “I want to rock and roll” stanno lì a testimoniarlo), inaugura lo show radiofonico Moondog Rock’n Roll Party.
Il potenziale commerciale per il nuovo genere c’è, ma manca un interprete bianco a “legittimarlo” per il pubblico W.A.S.P. (bianco, anglosassone e protestante): pionieristica in tal senso si rivela la cover del 1951 di “Rocket 88” di Bill Haley, su insistenza di David Miller, proprietario della piccola label Holiday.
Seguiranno “Rock The Joint” (nel 1952) e “Crazy Man Crazy” (nel 1953) con cui Haley fa il suo ingresso nelle classifiche di Billboard: lo stesso anno in cui il rock’n’roll entrava nelle classifiche dei bianchi, Elvis Presley girava per gli studi Sun di Memphis registrando demo per il proprio piacere personale, facendosi così notare da quel Sam Phillips (produttore e proprietario degli studi Sun Records già dietro alla prima incisone di “Rocket 88”) che aveva già dichiarato che se avesse trovato un bianco in grado di cantare il rock’n’roll come un nero sarebbe diventato ricco.
È una serie di eventi più o meno slegati che raggiungono il culmine nel 1954, non tanto la data di nascita del rock’n’roll, quanto la data della sua scoperta da parte del pubblico bianco (il boom commerciale arriverà però 2 anni dopo).
Le dinamiche di tale fenomeno sono note: “Rock Around the Clock”, cantata da Haley, inaugura il fenomeno e Presley esegue le sue prime incisioni professionali ai Sun Studios, inaugurando la sua collaborazione con Phillips con “That’s All Right Mama” (cover del bluesman nero Arthur “Big Boy” Crudrup).
Bisogna però far notare che, accanto all’elemento meramente commerciale i primi pezzi di Haley e Presley segnano anche un’importante tappa musicale: la nascita del rockabilly (fusione, anche letterale, di rock’n’roll ed hillibilly), che risulta in effetti da una fusione tra country e rhythm’n’blues. Presley eredita le mosse ed il cantato vibrante dei neri, ma è facile sentire le inflessioni del country nella sua musica, che lo aiuterà ad esplodere commercialmente nel 1956 insieme ad altri artisti bianchi come Carl Perkins e Gene Vincent.
Il suono del rockabilly è comunque in gran parte un prodotto di Sam Phillips che utilizza lo stratagemma di sdoppiare e sfasare in studio la registrazione della voce per creare un effetto di riverbero che insieme ad un suono tintinnante della chitarra e al suono del basso acustico suonato percussivamente con la tecnica del cosiddetto slapback diviene segno distintivo del genere.
Dal 1955 il r’n’r comincia a calare i suoi assi, primi fra tutti Chuck Berry (che esordisce su disco nel 1955), Bo Diddley (1955), Little Richard (1955), Screamin’Jay Hawkins (1956); segue il boom commerciale del 1956, legato alla seconda ondata, quella dei rockers bianchi: Jerry Lee Lewis, Johnny Burnette, Carl Perkins, Gene Vincent e lo stesso Presley, che esplode a livello mediatico lanciando la cosiddetta Presley-mania.
Sotto il profilo musicale è comunque Chuck Berry a definire il genere: perfeziona una quadratura metrica che riconduce inevitabilmente ai tre minuti di durata, fa della chitarra lo strumento principale, introduce assoli che diventeranno canoni per chiunque si avvicini al genere in futuro, si scrive i testi da solo e va a toccare tematiche tabù che diventeranno topos del genere, diventando in breve tempo un maestro della canzone a tema adolescenziale.
Little Richard spinge l’oltraggio all’america Maccarthiana e puritana a livelli inediti: testi ammiccanti, performance animalesche, travestimenti e ambiguità che anticipano il glam di almeno 20 anni; sotto il profilo musicale poi accosta per la prima volta sacro e profano fondendo il rhythm’n blues di New Orleans con il gospel. Non è l’unico ad avere quest’intuizione: nel 1955, stesso anno di “Tutti Frutti“, Ray Charles desta scandalo per lo stesso motivo e con “I Got a Woman” inventa il soul (ma questa, come si suol dire, è un’altra storia).
Altrettanto influente si rivela Bo Diddley che inventa un suono chitarristico ruvido ed un ritmo boogie sincopato che si ricollega alle ritmiche africane (ma anche a quelle latine) e che influenzerà innumerevoli artisti, primi fra tutti Rolling Stones, Yardbirds e Animals.
Seminale anche Screamin’ Jay Hawkins che riprende lo spirito istrionico e drammatico di Howlin’  Wolf e con “I Put A Spell On You” crea una formula di Voodoo Rock che ritroveremo molti anni dopo nei dischi di Cramps, Reverend Norton Heat e Tom Waits.
Anche il rockabilly ha comunque i suoi interpreti d’eccezione: non solo Presley, ovviamente, ma anche Carl Perkins, Gene Vincent, Jerry Lee Lewis, e Johnny Burnette prima, Eddie Cochran e Buddy Holly poi.
Per molti versi, comunque, Jerry Lee Lewis fa scuola a se: proveniente dal profondo sud, scritturato dai soliti Sun Studios, Lewis è un suonatore animalesco e selvaggio dal cantato psicotico, probabilmente più vicino nei suoni e nella atmosfere ai cantanti r’n’r neri, con “uno stile pianistico che è feroce quanto la chitarra di Berry”, che traghetta il boogie nelle acque del rock’n’roll più furibondo.
I canoni del genere vengono definitivamente rivisti e rivoluzionati da Eddie Cochran, Link Wray e Buddy Holly: il primo, esploso nel 1957 con “Sittin’ in the Balcony”, si colloca idealmente a metà strada tra Presley e Berry: pur muovendosi infatti nel filone del rockabilly, Cochran adotta lo stile sintetico di Berry e come quest’ultimo si scrive da solo i pezzi; non solo: sperimenta anche nuove tecniche di registrazione e di sovra incisione. Pionieristico anche Link Wray, il più importante autore di rick’n’roll strumentale degli anni ’50, che nel 1958 incide quella “Rumble” che inventa i power chords e si rivelerà influenza fondamentale per il rock chitarristico più abrasivo degli anni ’60, da Townshend a Page, passando per Hendrix.   Ancora più grande è la quieta rivoluzione attuata da Buddy Holly: rivoluzione che da una parte riguarda l’immaginario stesso del rock’n roll, sostituendo allo stereotipo del giovane ribelle il suo esatto opposto, figura occhialuta e docile che si contrappone idealmente alle figure ribelli di Presley e Cochran e dall’altra, soprattutto, tocca la sfera musicale: Holly inventa il celebre cantato a singhiozzo, si affianca a Cochran nella sperimentazione di nuove tecniche d’incisione e inventa progressioni armoniche inedite: così, accanto a pezzi rockabilly più o meno canonici come “Peggy Sue” (che comunque faceva uso di cambi nel volume e nel timbro della chitarra normalmente riservati ai dischi strumentali), si affiancano ballate come “Everyday” o “Worlds of Love” (in cui il raddoppio della traccia vocale costituisce quasi un prototipo del suono che renderà celebri i Beatles) che sono già un’altra cosa rispetto al rock’n roll di pochi anni prima, musica melodica al confine tra country, folk e rock che anticipa (ed ispira) i suoni e le armonie della cosiddetta British Invasion.
Non è un caso che, alla tragica morte di Holly nel 1959, sia associata la fine della stagione d’oro del rock’n roll, quella che segna l’ascesa delle piccole etichette indipendenti che per prime si erano buttate nella “nuova musica” arrivando a strappare alle major metà del mercato. Un piccolo lasso di tempo (tre anni circa, almeno per il pubblico bianco) in cui il concetto stesso di musica leggera viene rivoluzionato: il rock’n’roll segnala al mondo la presenza di un pubblico musicale giovane (esattamente come, quasi quarant’anni prima l’esordio discografico di Mamie Smith aveva fatto scoprire il pubblico musicale nero) ed eredita dall’universo nero non solo la musica (cosa già successa varie volte i passato, basti pensare al Jazz di New Orleans e allo swing), ma, per la prima volta anche lo spirito diretto ed esplicito, anche nella trattazione di tematiche tabù come quelle sessuali. Ma è cosa nota che ad ogni rivoluzione segue un processo di restaurazione: in poco tempo l’ondata destabilizzante del r’n’r viene arginata, gli irriverenti solisti rock’n’roll sostituiti dai rassicuranti teen idols e le istanze di ribellione messe a tacere. Se ne riparlerà tra poco…

3 – Gli anni bui del rock’n’roll 

Non bisogna farsi sviare dal titolo: il periodo che succedette agli anni di fuoco del rock’n roll (1954-1958) non fu in realtà così buio, né privo di stimoli… semplicemente la carica eversiva degli anni precedenti si esaurisce, il fenomeno rock’n roll viene imbrigliato e da una parte troviamo figure che appartengono ancora all’universo del primo rock’n’roll, ma nella cui musica gli elementi tipici del country tendono a predominare fortemente su quelli blues, dall’altra spuntano i cosiddetti teen idols, personaggi pop la cui immagine veniva accuratamente studiata per compiacere quel pubblico giovane che era stato scoperto con Presley.
Alla prima schiera appartengono Johnny Cash, (spesso considerato erede ideale del divo country Hank Williams), gli Everly Brothers (le cui armonie vocali, sintesi di country e doo wop, saranno mandate a memoria da gruppi come Beach Boys, Beatles e Simon&Garfunkel) e Roy Orbison (altra influenza importante per i Beatles con un rock ultra melodico venato di country e folk).   Rientrano a pieno titolo nel pop tradizionalmente inteso i teen idols dell’epoca il cui primo fu il Pat Boone di “Love and Letters in the Sand”, seguito a ruota da Paul Anka, Ricky Nelson e Frankie Avalon. Nel clima di restaurazione di cui si diceva, si torna alla line up tradizionale precedente l’avvento del rock’n’roll: il cantante accompagnato dall’orchestra e una piccola industria di songwriters a lavorare dietro le quinte al Brill Building di New York tra cui Neil Sedaka, Carole King e Neil Diamond. Si crea un sottogenere di pop-rock piuttosto stereotipato la cui fine verrà decretata dai suoi stessi protagonisti: per averne un’idea è sufficiente ascoltare i pezzi del 1963 di Gene Pitney, Dion, e Del Shannon, tra prime comparsate di strumenti elettronici (in “Runaway” di Del Shannon) e una “Runaround Sue” fortemente influenzata dal doo wop.
Il doo wop è una rivisitazione in chiave rhythm’n’blues dei vecchi Barbershop Quartet degli anni ’40: i gruppi doo wop erano gruppi vocali in cui ogni parte è strettamente collegata alle altre, sullo sfondo voci che pronunciano frasi prive di senso con funzioni ritmiche e davanti il lead vocalist. Fenomeno di vita breve che si colloca a cavallo tra i ’50 e i ’60 ma reso popolare da una schiera innumerevole di gruppi, tra cui ricordiamo i Drifters di “Stand By Me”, i Five Royales di “Baby Don’t Go”, i Monotones di “The Book Of Love” e poi Marcels (“Blue Moon”), Orioles (“Crying in the Chapel”) e Penguins (“Earth Angel”).
Altro cavallo di battaglia commerciale accanto ai teen idols e ai gruppi doo wop e destinati ad influenzare molti gruppi pop e rock futuri, specialmente inglesi, sono i girls groups: gruppi come Crystals, Shirelles, Ronettes e Shangri-las. Il suono è a metà strada tra il pop-rock del Brill Building (e da lì provengono molti dei pezzi di maggior successo di questi gruppi), il rhythm & blues e il rock’n’roll di qualche anno prima (la “pulizia” dei testi e degli arrangiamenti fa comunque pendere pesantemente la bilancia a favore della prima componente). Figura chiave risulta il produttore Phil Spector (dietro a Crystals e Ronettes) che nei primi anni ’60 perfeziona il cosiddetto Wall Of Sound, tecnica di produzione che lo rende famoso, che utilizza sovrapposizioni di strumenti, orchestrazioni, sovra incisioni, raddoppio di batteria e di chitarre e un gran numero di coristi, allo scopo di creare quelle che lui definisce “sinfonie per ragazzi”: un suono che lo condurrà nell’olimpo dei produttori di tutti i tempi e che troverà infinite schiere di estimatori (e di imitatori).
C’è poi un altro filone musicale alla fine dei ’50 ad emergere prepotentemente quale trait d’union tra il rock’n’roll del ’54 e la successiva ondata che prende il nome di British Invasion: il surf. Caratterizzato da chitarre riverberate e distorte e frenetici strumentali che servono a creare un sottofondo musicale per le cavalcate dei surfisti sulle onde (un po’ come lo skate punk di fine anni ottanta per skate e snowbarding) e da semplici progressioni di 3 accordi che riprendevano la lezione del primo rock’n’roll il surf fu caratterizzato da 2 ondate. La prima, più underground, viene inaugurata dai singoli di Dick dale (tra cui la “Miserlou” che col successo di Pulp fiction accenderà la miccia del surf revival negli anni ’90) e dai futuristici strumentali di Chantays e Surfaris: sono artisti che per la prima volta cominciano a sperimentare con distorsioni e fuzz che diventeranno di lì a poco pane quotidiano del rock, proseguendo idealmente le sperimentazioni di Link Wray.
La seconda, di maggior portata commerciale, è quella che mette definitivamente la California sulla mappa musicale americana è quella capeggiata dai Beach Boys. Fondendo le sonorità del surf con le armonie vocali del doo wop, i Beach Boys con “Surfin”  del 1961 divengono il fenomeno musicale più importante (almeno dal punto di vista commerciale) della prima metà degli anni ‘60, destinati ad essere scalzati per popolarità solo con l’avvento dei Beatles e della British invasion nel 1965.
Ma già con “Surfer Girl”, del 1963, la componente surf della loro musica sta andando scemando: comincia invece a spiccare il ruolo di Brian Wilson non solo come leader del gruppo, ma anche come produttore. Influenzato dal wall of sound di Phil Spector, Wilson crea, in un disco come “Today!” (1965) vere e proprie suite pop. Ma è dopo aver ascoltato “Rubber Soul” dei Beatles, del 1965, che la passione di Wilson si trasforma in vera a propria ossessione: il risultato di tale ossessione è noto a tutti ed è “Pet Sounds” (1966), capolavoro indiscusso del gruppo: meravigliosa sovrapposizione di voci, tastiere, archi, campanelli di biciclette, clavicembali, flauti, lattine di coca-cola e organi ronzanti che abbandona il percorso commerciale del gruppo ed intraprende la ricerca della melodia perfetta, creando un capolavoro di quel pop barocco di cui si parlerà più tardi…

4 – Il movimento folk del Greenwich Village 

Le origini del movimento folk del Greenwich Village, voce musicale della controcultura che si va a sviluppare a cavallo tra anni ’50 e ’60, devono essere ricercate negli ultimi anni ’40, anni in cui si cominciano ad intravedere le prime avvisaglie di quel revival folk che porta migliaia di giovani americani ad emigrare a New York, nel Greenwich Village, appunto, zona di loft a basso prezzo e di club animati da serate jazz e folk.
In particolare, nel 1948, vanno segnalati due eventi importantissimi per il movimento e la musica folk più in generale: da una parte l’introduzione di classifiche Folk all’interno dell’onnipresente Billboard; dall’altra la nascita dei Weavers di Pete Seeger.
Già negli Almanac Singers Seeger è tra i primi ad associare alla musica folk l’elemento sociale e il valore di musica di protesta. Il primato in tal senso va, però, attribuito a Woody Guthrie, primo grande cantautore della storia che fa partire un sottile filo rosso che da Guthrie ci porta a Seeger, da Seeger al movimento del Village e da qui alle prime opere di Dylan, prima fra tutti “Blowin’ in the Wind”.
A differenziare il folk revival dei primi anni ’60 dal folk tradizionale di Guthrie e Seeger è un seppur leggero ammorbidimento in senso pop della struttura e dell’arrangiamento della canzone. Ammorbidimento relativo, sia ben chiaro: anche in questo caso al centro del pezzo rimane la storia, mai a fine a sé stessa, ma sempre con fini didascalici e come veicolo per il messaggio, (normalmente antagonista), che il pezzo deve veicolare.
Il pezzo che lancia il revival è la tradizionale “Tom Dooley” eseguita dal Kingston Trio, probabilmente il più popolare gruppo folk della storia, importante non solo sotto il profilo artistico, ma anche per l’effetto di sfondamento nell’industria discografica che è in grado di esercitare, rendendo possibile la messa sotto contratto di artisti come Bob Gibson e lo stesso Dylan prima, e poi di tutti coloro che saranno il cuore del movimento del Greenwich: in particolare Joan Baez, Barry McGuire, Buffy Saint-Marie, Judy Collins e Phil Ochs. Se alcuni tra loro, come la Baez e Ochs rimangono tendenzialmente legati agli standard tradizionali del genere, accompagnamento di chitarra acustica e melodie scarne e semplici, altri cominciano presto a spingere il genere aldilà dei suoi limiti tradizionali, primo fra tutti Dylan che nel 1965 provoca l’indignazione del pubblico del Newport Folk Festival presentandosi accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band; l’evento segna simbolicamente la celebre svolta elettrica, che già si intuiva dall’ascolto di “Bringing It All Back Home”, dello stesso anno e che verrà formalizzata definitivamente con “Higway 61 revisited” (1965). È solo la prima di una serie di svolte che lo condurranno a (ri)scoprire tra gli altri country (con “John Wesley Harding” del 1967) e poi gospel (con “Destre” del 1976). Dylan non è l’unico innovatore di quegli anni, tuttavia i cambiamenti e le innovazioni che egli introduce nel folk per tutti gli anni ’60 hanno un effetto catalizzatore che porta la scena musicale ad imitarne quasi pedissequamente gli spostamenti, tanto che alla svolta elettrica e quella country, si accompagnano, più o meno direttamente, la nascita del folk-rock e del country-rock.
Un altro grande innovatore all’interno del Greenwich Village fu Fred Neil, sorta di punto d’incontro ideale tra Tim Buckley e Tim Hardin (due artisti che vedremo tra poco), col suo folk venato di blues ed un’unicità stilistica che gli impedirà di avere dei veri e propri eredi (anche se non mancheranno cantautori che ne riprenderanno in parte la lezione musicale, primo fra tutti Badly Drawn Boy): la sua notorietà rimarrà in gran parte legata alla sua “Everybody’s Talkin”.
Sempre al Village operano Simon&Garfunkel esordendo nel 1964 con l’album “Wednesday Morning 3 A.M”: nonostante l’accostamento con la scena folk sia facilitato da tempo e luogo, qui il genere rivive in una sfera più intima, lontano dalle tematiche sociali del folk dell’epoca, cui si associa nella scrittura un’insopprimibile ed irresistibile vena pop.
Per il resto, gli altri grandi innovatori della scena folk sono spostati rispetto all’epicentro della scena, chi più chi meno. Così sulla costa Est troviamo le sperimentazioni di Sandy Bull, che anticipò di anni artisti poliedrici come Ry Cooder e Richard Thompson nella sua camaleontica abilità di passare da un genere all’altro fondendo il folk col jazz, il raga indiano e musiche di ispirazione mediorientale; gli fa eco la mirabile fusione di folk, jazz e bluesattuata da Tim Hardin nei primi tre dischi, in particolare “Tim Hardin 2” (1967). Sulla costa Ovest il movimento folk si sviluppa più tardi, in piena era psichedelica: una sorta di controparte Californiana (e lisergica) di Dylan è Country Joe Mc Donald, che si fa largo con la sua vena di songwriter politico nella scena freak di San Francisco, creando una forma di folk lisergico. Di venature psichedeliche è illuminato anche il folk di Tim Buckley, arricchito però da mille altri spunti sonori: il folk di Buckley parte dalle divagazioni lisergiche e dalle suggestioni medievali di “Goodbye and Hello” (1967) per andare ben presto ad abbracciare il jazz in opere sempre più rarefatte e dilatate che trovano il proprio apice in “Starsailor” (1970).
Altrettanto ardite le sperimentazioni compiute, sempre nell’ambito della costa Ovest, da John Fahey che associa le tecniche tradizionali di finger-picking, tipiche del country e del blues, ad un folk contaminato con raga indiani, musica classica e dissonanze, sperimentazioni strumentali che verranno riprese decenni più tardi da capofila del postrock come Rodan e Slint.
Anche nella terra d’Albione non mancano entusiasti esponenti della scena folk: dai più tradizionalisti, come lo scozzese Donovan, nei cui dischi la tradizione folk rivive attraverso la fisiologica fascinazione scozzese per il pop, autore di un suono che, nonostante alcune suggestioni Dylaniane qua e là più evidenti, vive in una dimensione bucolica e soffice, rivelandosi influenza imprescindibile per gran parte del folk-pop degli anni ’90. Conterraneo di Donovan ma musicalmente agli antipodi era Davy Graham, autore di un folk strumentale e meticcio, contaminato di blues e jazz fin dal debutto “The Guitar Player… Plus” (1963).
Se le sperimentazioni di gente come Graham, Fahey e Bull si riveleranno importantissime non solo per il folk ma per la storia del rock tout court, con la loro capacità di contaminarsi e aprire ad altri linguaggi musicali estranei al folklore tradizionale ed artisti come Donovan Simon & Garfunkel saranno fondamentali per la nascita del folk più intimista e melodico, nell’immaginario collettivo il folk degli anni ’60 si riallaccerà sempre alla figura del cantautore del Greenwich Village, primo pilastro nella creazione di una visione e di uno stile di vita alternativi rispetto a quelli proposti/imposti dai mass media americani.
Una visione antagonista che ha messo le sue radici con la scena beatnik ma che qui trova un’espressione e un’adesione di massa: il pezzo folk dell’epoca nasce e attecchisce subito come inno, cantato durante marche e sit-in a cui prendono parte migliaia di studenti, “divenendo un veicolo per i giovani per esprime la propria frustrazione”. È stato fatto notare come questa natura antagonista presenti molte affinità con lo spirito del primo rock’n roll e di come nel passaggio del testimone sia stato sostituito l’elemento personale con quello sociale: nel folk l’ascolto del pezzo diviene maggiormente consapevole e spesso si accompagna ad un disprezzo del tipico processo di ascolto della musica pop, che ti porta a “canticchiare le melodie suonate dalle radio e osannare le star imposte dalla radio”.
Con le dovute differenze è innegabile che qui si ritrovano i primi segni di quella mentalità che cerca delle alternative ai valori imposti dalla società e dai mass media (musica compresa): una visione che determinerà e accompagnerà, non a caso, gran parte delle svolte più importanti nell’evoluzione della musica rock.

5 – La british Invasion 

Quando si parla di british invasion si intende un fenomeno musicale (e commerciale) che vede tra il 1964 e il 1966 i gruppi inglesi dominare le classifiche U.S.A. fino ad allora territorio esclusivo di artisti  americani.
Le cronache musicali parlano in realtà di due ondate: la prima vede lo sbarco nelle classifiche americane di un’orda sterminata di gruppi che arrivano sull’onda del successo commerciale dei Beatles, esploso dopo l’apparizione alla celebre apparizione all’Ed Sullivan Show nel Febbraio del 1964; immediatamente le classifiche americane vengono monopolizzate da dischi e singoli dei Fab Four, lanciando nel nuovo continenti altri gruppi-cardine nel rock Inglese come Rolling Stones, Kinks e Animals ma anche comparse marginali ma comunque memorabili come Hollies, Searchrs, Troggs.
Nascono di lì a poco anche gruppi come Herman’s Hermits (in Inghilterra) e Monkees (in America), studiati a tavolino per prendere il posto dei vecchi teen idols alla Paul Anka nell’era del beat.
La seconda ondata segna la comparsa di gruppi che risentono delle innovazioni musicali di fine anni ’60, ognuno a modo suo, differenziandosi per questo ancor più tra loro di quanto non abbiano fatti i, pur diversissimi, predecessori, tanto che se nel caso del primo flusso si può andare a ricercare una certa unità di suoni dovuta a rielaborazioni in chiave pop, blues o vaudeville dei suoni provenienti dal Nuovo Continente oltreoceano, per questi gruppi l’unico elemento condiviso è la comune provenienza albionica: Who, Cream, Procol Harum, Yardbirds e Zombies ne sono i principali protagonisti. Ma per capire come sia possibile che la piccola Albione riesca, così di punto in bianco, ad espugnare la roccaforte delle classifiche U.S.A., è necessario fare un passo indietro…
Prima di tutto bisogna considerare come gli stessi principi contro cui aveva reagito la rivoluzionaria stagione del rock’n’roll in America, sono gli stessi che stanno dietro al successivo movimento di restaurazione e del rimpiazzo dei suoi protagonisti con controfigure dolciastre e rassicuranti come i teen idols: il forte spirito religioso, il senso delle tradizioni ed il malcelato razzismo dell’America segregazionista.
Fattori che operano in modo ben più blando nel Regno Unito, non a caso meta tra la fine dei ’50 e i primi ’60 di bluesman stagionati che vi trovano un clima adorante ed una folta schiera di adepti interessati al blues essenzialmente sotto il profilo musicale, non avendo ovviamente nessun legame con la tradizione musicale americana, bianca o afroamericana: questo concetto è fondamentale per capire la maggior libertà espressiva e creativa con cui i gruppi inglesi si avvicinano, innovandola, alla musica americana.
Fondamentale per capire lo sviluppo del rock inglese degli anni ’60 si rivela la Blues Incorporated di Alexis Corner, gruppo blues dalla line up mutante. Fulminato sulla via di Damasco del blues dall’ascolto di un disco di Jimmy Yancey negli anni dell’adolescenza, Corner è attivo fin dai primi anni ’50 e alla sua “scuola” si formano, tra gli altri, i futuri Stones Jagger,  Jones e Richard Burdon degli animals, Bruce e Baker dei Cream e John McLaughlin, alfieri di quella che sarà l’ala più legata al blues dell’invasione Britannica.
Da Londra provengono coloro che vengono giustamente considerati i padri del rhythm’n’blues inglese: Rolling Stones, Animals e Yardbirds. Rivoluzionari i primi, capaci di spingere a nuove vette il livello di provocazione e oltraggio già associati al r’n’r nella sua fase d’oro, autoincoronatisi a ragione la più grande rock&roll band del mondo, in grado di eclissare i rivali non solo per la straordinaria capacità di scrivere anthem di presa immediata come “Satisfaction”, ma anche per la poliedricità dimostrata da “Aftermath” (1966) in poi, capacità di cambiare con nonchalance registro passando dal mantra incalzante di “Paint it Black” alle atmosfere sofisticate e barocche di “Lady Jane”, passando per il pop quasi Beatlesiano di “Ruby Tuesday”, continuando a vantare tale titolo a lungo, specie dopo il ritorno alle origini blues di “Beggars Banquet” (1968) e “Sticky Fingers” (1971).
Adombrati dal colosso musicale Stones quasi rischiano di passare inosservati gli Animals (che per inciso traggono il proprio nome dalla selvaggia condotta del leader Eric Burdon sul palco), gruppo fondamentale nella sua capacità di scrivere pezzi blues in grado di diventare inni generazionali, tra una cover commovente ma al vetriolo della tradizionale “The House of The Rising Sun”, cui vanno affiancati capolavori autografi come “We Gotta Get Out of This Place” e “It’s My Life”.
Ultimo gruppo della triade rhythm and blues Londinese, gli Yardbirds sono ricordati più che altri più che altro per il fatto di avere ospitato tra le proprie fila tre dei più importanti chitarristi di questi anni: Eric Clapton, Jeff Beck, e Jimmy Page; in realtà essi saranno tra i primi bianchi a dare dignità nell’ambito del pezzo rock all’assolo di chitarra oltre a proseguire, sulle orme di Link Wray e dei gruppi strumentali surf, nell’uso del feedback e del fuzz.
Assimilabili sotto il profilo musicale a questi gruppi sono i Them, gruppo che rimarrà principalmente famoso per una b-side, “Gloria”, pezzo a cavallo tra rhythm and blues  e garage rock e soprattutto per aver lanciato la carriera di Van Morrison, fenomenale interprete rhythm’n’blues e jazz che emergerà nel giro di qualche anno con capolavori come “Astral Weeks” (1968) e “Moondance” (1970)
Nell’ambito della british invasion però accanto alla folta schiera di band legate al rhythm’n’blues esiste un calderone altrettanto ricco di gruppi che associano ai suoni importati del rock la tipica sensibilità melodica e la naturale inclinazione per il pop Inglese, suscitando per primi l’entusiasmo delle masse americane.
Scontato a questo punto il nome dei Beatles, testa di ponte dell’intero fenomeno nel momento in cui, con il singolo “I Want to Old Your Hand”, volano in cima alle classifiche U.S.A. (aprile 1964) contagiando anche il Nuovo Mondo con quel fenomeno che in Inghilterra era cominciato già nel 1963 e che va sotto il nome di Beatlesmania.
Nella Liverpool dei Fab Four fino a qualche anno prima era lo skiffle di Lonnie Donegan a dominare la scena musicale, sorta di versione inglese delle jug bands americane; nei primi anni ’60 lo skiffle va però a fondersi con i suoni del rock’n’roll: il risultato di quella fusione è il Merseybeat, il genere con cui i Beatles sfondano accanto ad altri gruppi più o meno noti come Hollies, Gerry & The Peacemakers e Searchers.
Presto però cominciano, fin da “Help!” (1965), a staccarsi da quei suoni dimostrando, aldilà della straordinaria vena melodica frutto di un perfetto bilanciamento tra due talenti come Lennon e McCartney (più acida e sghemba la vena compositiva dell’uno, più classico e rotondo il suono del secondo), un’incredibile capacità di assimilare gli innumerevoli stimoli offerti dalla scena musicale della seconda metà degli anni ’60 (dal folk-rock, alla psichedelica, alle prime sperimentazioni sonore con lo studio, al pop barocco) e di rielaborarle mantenendo l’inconfondibile marchio di fabbrica trasformandoli in gioielli pop, sia che si tratti della psichedelica raffinata di “Sgt Pepper” (1967) sia che si tratti di un tour de force incredibile e meraviglioso tra i generi come “The Beatles” (1968) (meglio noto come “White Album”).
Una vena melodica altrettanto spiccata, ma più stralunata, influenzata dalla tradizione del music hall e alternata a poderosi stacchi adrenalinici, anima invece i dischi dei Kinks. Fini osservatori della vita della middle-class inglese prima, della nazione Britannica poi, oltre alla creazione di affreschi straordinari come “Sunny afternoon” e “Waterloo Sunset” i Kinks possono vantare anche l’invenzione del concept album, con “The Village Green Preservation Society” (1968) e la scrittura di un pezzo come “You really got me” che anticipa di qualche anno, con il suo riff indemoniato di chitarra, il suono sferragliante del garage-rock.
Spetterebbe invece agli Who, secondo molti, il titolo di inventori dell’heavy metal, per “i colossali riff di chitarra, il martellare della batteria e lo stile quasi operistico del cantato”. Associati alla seconda ondata dell’invasione, protagonisti musicali (assieme agli Small Faces) del movimento Mod: abiti e vespe italiane, culto del rhythm’n’blues, in contrapposizione alle gang dei rockers; naturalmente partono suonando un rhythm’n’blues, anfetaminico e abrasivo, facendo poi evolvere il proprio suono aldilà degli steccati del genere fino a divenire uno dei fenomeni musicali più importanti del decennio; l’evoluzione li porterà nel 1969 a creare la rock opera con “Tommy” e più tardi, nel 1973, con “Quadrophenia”. Se gli inni generazionali non mancano nel repertorio di altri gruppi inglesi dell’epoca come Animals e Rolling Stones qui l’identificazione tra il gruppo e l’ascoltatore è totale.
Who, Beatles, Kinks, Animals: per molti versi risulta evidente da un semplice accostamento tra questi gruppi quanto l’intero concetto di British Invasion, letto solo il profilo musicale sia per molti versi aleatorio, tante e tali sono le differenze tra di essi.
La schizofrenia musicale del non-movimento è rispecchiata perfettamente da quella di un gruppo come i Kinks: tra i picchi adrenalinici di “All day and All night” e l’elegia crepuscolare di “Waterloo Sunset” prendono posto tutte le diverse strade intraprese dai gruppi inglesi. Esistono però alcuni elementi comuni, accanto all’ovvio fenomeno commerciale che da il nome alla scena, che si riveleranno di fondamentale importanza per il futuro del rock.
Uno è l’introduzione del concetto stesso di gruppo, che va a sostituire la figura del cantante rock solitario degli anni ‘50: un cambiamento epocale, che per molti versi potrebbe riflettere il fenomeno delle gang urbane Inglesi, in parte si può ricollegare al fatto che gran parte dei gruppi Inglesi parte dal rhythm’n’blues (anche se talvolta in forme spurie come il merseybeat), genere che era naturalmente legato ad una line up di più elementi (mentre il bluesman ed il cantante country erano figure notoriamente solitarie).
L’altro elemento, chiave di lettura fondamentale per capire i motivi del successo travolgente della musica inglese presso il pubblico d’oltreoceano, è la vena melodica innata tra i gruppi Albionici: quella tendenza, tipicamente Inglese, di aumentare la gradazione melodica o comunque il tiro anthemico, qualsiasi sia il genere toccato, sia nel pop sia nel rock: una di lezione di cui gli americani faranno tesoro fin da subito, come l’esplosione del folk-rock ed il fiorire della scena garage-rock dal 1965 in poi, stanno a testimoniare.

6 – Il folk rock 

L’influenza delle “nuove” sonorità importate dall’Inghilterra durante la British Invasion non tarda a farsi sentire nella musica dei cugini americani: uno dei primi risultati è la nascita del folk-rock. Al centro del movimento musicale c’è di nuovo Bob Dylan: elettrificato su “Bringing It All Back Home” (1965) che perde in parte la matrice folk andando a spostare il proprio baricentro musicale verso il rhythm’n’blues, (ma si trattava pur sempre di un rhythm’n’blues in cui la straordinaria verve lirica di Dylan predominava su di ogni altra cosa), coverizzato dai Byrds su un disco dello stesso anno in cui si possono ritrovare tutti gli elementi che diventeranno distintivi del genere: “Mr. Tambourine Man” (1965), farcito di trasposizioni in chiave elettrica e rock di molti dei pezzi folk di Dylan stesso, tra cui la stessa “Mr. Tambourine Man” e “All I Really Want To Do”.
Ma se lo stile compositivo di quest’ultimo riecheggia in tutto il disco, anche nelle canzoni originali, a firma Clark McGuinn, un’altra influenza, quella Beatlesiana, salta subito all’attenzione dell’ascoltatore, anche di quello più distratto: la cura nell’arrangiamento e l’utilizzo di parti vocali multiple (a sua volta mutuato dai Fab Four da gruppi americani come Beach Boys ed Everly Brothers in un curioso feedback d’influenze) sono indizi lampanti.
Inedito è invece il tintinnio (il cosiddetto jingle-jangle)  della Rickenbacker di McGuinn, elemento che da una parte diviene ben presto topos musicale del genere risuonando costantemente nei dischi del cosiddetto filone folk-rock, perlopiù Californiano (in particolare Beau Brummels e Buffalo Springfield), e dall’altra è anche il vero filo conduttore della carriera discografica dei Byrds stessi attraverso gli innumerevoli cambi di pelle che il gruppo vivrà negli anni: dalla fase psichedelica cominciata nel 1966 con “Fifth Dimension” a quella country, che troverà il suo apice nel 1968 su “Sweetheart Of The Rodeo” con Gram Parsons a condurre il gruppo sui solchi della tradizione e attraverso le frontiere del country-rock.
Se spesso ai Byrds viene assegnato un ruolo leggermente più defilato rispetto ad altri mostri sacri dell’epoca come Beatles, Stones e Dylan in realtà l’influenza del gruppo sui gruppi futuri si rivelerà immensa, dal power pop al college rock, passando per il Paisley underground: per molti versi il gruppo di McGuinn avrà sul pop-rock Americano un’influenza paragonabile solo a quella avuto dai Beatles su quello Inglese.
Fortissima l’influenza dei Fab Four anche sui Buffalo Springfield di Neil Young e Stephen Stills: ricordati spesso solo per la celebre “For What It’s Worth” e per la futura partecipazione di due dei suoi membri nel celebre quartetto CSN&Y, il gruppo mostra in realtà sul debutto omonimo del 1967 una vena melodica straordinaria in pezzi come “Sit Down, I Think I Love You” e “Flying on the Ground is Wrong” da una parte e allo stesso tempo un legame fortissimo con le origini country (“Pay the price”).
Un curioso ruolo di pionieri-comprimari rivestono invece i Beau Brummels che pur anticipando tutti non solo nel ripagare i britannici con la loro stessa moneta con il loro esordio “Introducing the Beau Brummels”, del 1965 (vero e proprio manifesto musicale del futuro movimento folk-rock), ma anche nell’introdurre elementi psichedelici e country nella propria musica saranno sempre relegati ad un ruolo secondario: il motivo è da ricercarsi in fattori meramente commerciali, poiché la Autumn Records, la piccola etichetta che li lanciò, non poteva dar loro la stessa risonanza che il contratto con la Columbia da subito garantì ai Byrds.
Della scena folk-rock Californiana fa parte anche il quartetto vocale dei Mamas & Papas, espressione del lato più leggero e allegro dell’intera scena folk-rock californiana su “If You Can Believe Your Eyes and Ears” (1966).
Casi a parte sono due gruppi come Turtles e Lovin’ Spoonful che col resto della scena folk-rock condividono l’obiettivo di ricreare la ricchezza melodica e armonica ammirata nei dischi dei cugini inglesi, ma che musicalmente viaggiano su coordinate differenti.
I primi, sempre Californiani, arrivano su “Happy Together” (1967) (disco che contiene l’omonima traccia per cui vengono ricordati dai più), ad una la ricchezza degli arrangiamenti che li porta dalle parti di quel pop barocco che aveva raggiunto il suo capolavoro un anno prima (con “PetSounds”).
Originari di New York invece i Lovin’ Spoonful, per cui la definizione folk-rock risulta andare più stretta che mai, visto che accanto alle evidenti influenze Byrdsiane e Beatlesiane, qui si fa sentire anche la forte influenza delle vecchie jug bands tradizionali (il gruppo era partito proprio come jug band), conferendo a molti pezzi quella vena da vaudeville che porta istintivamente ad associare gli Spoonful ad un altro gruppo atipico dell’epoca come i Kinks, che fa riferimento alla tradizione senza tempo del Music Hall; con essi gli Spoonful condividono anche una certa schizofrenia musicale che alterna alla vena più indolente improvvisi scatti adrenalinici, passando dalle sonnolente atmosfere di “Daydream” al tiro irresistibile di “Summer in the City”.
Ben presto il fenomeno di riscoperta in chiave rock del folk attecchisce, in un eterno ed intricatissimo gioco di rimandi, anche in Inghilterra, dove però la tradizione musicale arcaica è intrisa di influenze celtiche e medievali: pionieristica si rivela Shirley Collins, esordiente a 23 anni nel 1959 con “False True Lovers” e prima a riscoprire le radici folk anglosassoni (prodotto da quell’Alan Lomax che ha già compiuto un lavoro vitale di documentazione della musica delle radici Americana).
Il folk-rock inglese è però fenomeno dei tardi ’60, nato in risposta alle contaminazioni tra folk e rock di Dylan e Byrds e anima i dischi della Incredibile String Band, dei Fairport Convention di Richard Thompson e Sandy Denny e dei Pentangle di Bert Jansch. I primi su “Hangman’s Beautiful Daughter” (1968) creano un folk esoterico e fantastico, marginalmente influenzato dal movimento psichedelico, che cita la musica indiana e mediorientale e la sposa col folk celtico; ancora più eccentrici i Pentangle di “Sweet Child” (1968), dove la tradizione inglese e celtica si sposa con blues, jazz e pop in un pot pourri indefinibile e meticcio.
Ma il gruppo che meglio esemplifica il folk-rock inglese come risposta a quello Americano sono i Fairport Convention di “What We Did on Our Holidays” (1969), rilettura in chiave inglese di Byrds, Dylan e Joni Mitchell; influenze che già cominciano a sfumare nel successivo “Unhalfbricking” (1969), disco che si rivela fondamentale per l’”emancipazione” definitiva del folk inglese: a produrre c’è Joe Boyd, figura chiave del movimento, già dietro ai lavori di Incredibile String Band e Shirley Collins, e, sempre nel 1969, al lavoro con Nick Drake sull’esordio “Five Leaves Left” e nei successivi “Bryter Later” (1970) e “Pink Moon” (1972).
Drake si rivela fin da subito cantautore folk straordinario, parente alla lontana di Leonard Cohen nelle atmosfere rarefatte e nel modo di sussurrare le canzoni, versione malinconica e depressa di Donovan per quel modo di creare ballate folk agrodolci e bucoliche, sostenuto da strumentazioni e arrangiamenti classici barocchi, la musica di Drake è pervasa da una tristezza di fondo che la rende capace di toccare le corde e i recessi più profondi dell’ascoltatore, rivelandosi un’influenza imprescindibile per gran parte del folk Americano ed Inglese a venire.

7 – Il Garage rock

Se il folk-rock di metà anni ’60 costituisce la risposta ufficiale del pop-rock americano alle “nuove” sonorità inglesi, il garage-rock può essere visto come la sua controparte underground, nel senso più puro e letterale del termine, trattandosi di una scena spontanea e frammentaria animata da un’infinità di gruppi dal suono amatoriale e crudo che tritano e riducono all’osso i riff di Kinks, Stones e Yardbirds, facendoli risuonare all’interno dei garage di casa, (da cui il genere prende il nome), cominciando e spesso terminando lì l’intera “carriera” musicale, tra le quattro mura del box di casa.
Talvolta alcuni di loro emergono all’improvviso, con hit improvvise e inaspettate, come la “Louie Louie” dei Kingsmen, da molti considerata il primo pezzo garage della storia o la “Psychotic Reaction” dei Count Five che ispirerà a Lester Bangs il celebre “Psychotic Reaction and Carburetor Dung”, per poi tornare ad immergersi nell’underground con la stessa rapidità con cui ne erano usciti.
Molti di loro probabilmente sarebbero destinati a rimanere irrimediabilmente nel dimenticatoio, non fosse per il provvidenziale intervento di recupero archeologico compiuto da “Nuggets” (1972), seminale raccolta curata da Lenny Kaye, chitarrista del Patti Smith Group che per la prima volta allinea alcuni dei principali gruppi e i pezzi del movimento: gruppi e pezzi per cui stilare una mappa dettagliata ed esaustiva è impresa pressoché impossibile vista la frammentazione del non-movimento.
Probabilmente il gruppo più influente per le future ondate revivalistiche sono i Sonics, gruppo di Tacoma che nel 1965 fa uscire “Here Are the Sonics”, esordio al fulmicotone farcito di cover rhythm’n blues selvagge e pezzi originali indimenticabili come “The Witch”, “Strychnine” e “Psycho”. Dalla stessa area, quella del Nord-ovest Americano provengono i già citati Kingsmen, i Wailers, gli Standells di “Dirty Water” e i Raiders, facendo della scena in questione una delle più interessanti tra tutte quelle che tra il 1964 e il 1967 vanno moltiplicandosi da una costa all’altra degli Stati Uniti, (anche se in questo caso il termine scena va preso più che mai con le pinze): dalla California (Count Five e Syndicate of sound) a New York (gli Strangeloves di “I Want Candy”), da Chicago (Shadows of the Knight e gli Awboy Dukes di “Baby Please Don’t Go”). Da Flint (futura patria del gruppo hard rock Grand Funk Railroad) provengono invece i Question Mark & The Mysterians che si lamentano delle 96 lacrime versate (“69 Tears”) sostenuti dall’ipnotico incedere di un organo farfisa.
Nonostante le apparenti caratteristiche derivative (peraltro presupposto per la nascita di ogni nuovo genere) il garage-rock si rivelerà seminale non solo per i revival a cui sarà soggetto nei decenni successivi, ma anche perché per la prima volta, in parte grazie al suo carattere semi-clandestino, in parte a causa del livello amatoriale della maggior parte dei suoi protagonisti, in parte ancora per le precarie condizioni di registrazione fece emergere un suono grezzo e sporco, un cantato rauco e feroce che verranno poi ripresi ed esasperati nel proto-punk di Detroit di Stooges ed Mc5 lungo un sentiero che conduceva dritto al punk-rock del ‘76: e proprio l’idea fondante del punk che chiunque possa prendere in mano uno strumento e salire sul palco è messa in pratica qui per la prima volta con successo, anche se tra le anguste mura di un garage della periferia americana anziché sui palchi newyorchesi del CBGB.

8 – Il Soul

L’invenzione del soul viene comunemente attribuita a Ray Charles che, con “I got a Woman”, nel 1955, fonde il lamento del gospel con il trascinante impeto del rhythm & blues: la fusione viene accolta con un entusiasmo pari solo all’indignazione dei tanti che vedevano in questa commistione di sacro e profano, di diavolo ed acqua santa, un accostamento sacrilego, tanto che alcuni membri della band decidono di uscire dal gruppo per non prendere parte dell’atto blasfemo.
Non è l’ultima delle invenzioni di Charles, che estenderà ben presto i confini della musica che lui stesso aveva contribuito a creare, introducendovi elementi jazz per poi riscoprire il country, musica con cui era cresciuto nel sud segregazionista degli Stati uniti. Alle sue spalle nel momento della svolta aveva un’etichetta come l’Atlantic, fondata a New York nel 1947, tra le prime, insieme a Modern, Specialty, Imperial ed Aristocrat (la futura Chess) a promuovere la musica nera in tutte le sue declinazioni, dal blues al rock’n’roll, dal rhythm’n’blues al soul, appunto.
Dove la Chess si rivela fondamentale per la diffusione del blues elettrico e del rock’n’roll grazie ad artisti come Howlin’ Wolf, Muddy Waters, John Lee Hooker prima, Chuck Berry e Bo Diddley poi, l’Atlantic, per cui peraltro avevano già inciso stelle del jump blues come Ruth Brown e Big Joe Turner e gruppi doo-wop come Clovers e Drifters, costituisce una delle etichette chiave del soul, grazie ad artisti come Solomon Burke, Wilson Pickett, Otis Redding e Aretha Franklin, oltre allo stesso Ray Charles.
Se quest’ultimo è uno degli inventori del genere, altri devono essere ricordati accanto a lui per il lavoro pionieristico fatto nel traghettare la musica nera dal rhtyhm’n’ blues al soul, in particolare Sam Cooke e Jackie Wilson. Il primo è giustamente considerato il più importante interprete soul di tutti i tempi: cresciuto ascoltando e cantando gospel e doo-wop (in particolare gli Ink Spots sempre citati come influenza fondamentale) Cooke è anche tra i primi a firmare personalmente le proprie canzoni, da quelli più vicini alle forme tradizionali del doo wop come “You Send Me” alla splendida “A Change is Gonna Come”, una delle espressioni più belle del soul “socialmente impegnato”, sorta di risposta della musica nera al movimento controculturale guidato dal Dylan prima maniera.
Altrettanto importante anche se spesso ignorato è Jackie Wilson: le ragioni della scarsa popolarità di tale artista sono da ricercarsi nella sua maggior predisposizione per la dimensione live: animale da palco impareggiabile, dotato di una grinta e di un’aggressività che può rivaleggiare con quella del più noto James Brown, Wilson è penalizzato dalla registrazione in studio, dove peraltro si trova spesso ad eseguire pezzi troppo melodici e posati, lontani dalla sua grintosa sensibilità musicale.
A livello di performance l’unico in grado di oscurare Wilson è proprio il già citato James Brown, “Padrino del soul” o “Mr. Dinamite”, comunque lo si voglia chiamare Brown resta uno dei più grandi inventori della musica nera, avanti anni luce rispetto ai suoi contemporanei: già nel 1956, in “Please please please” si possono leggere le prime avvisaglie di quello stile di soul, ossessivo e frenetico dal “falsetto psicotico, il suono di chitarra acuto e metallico, il basso fratturato e la pulsante poliritimica” che riscopre le radici africane della musica nera sulle tracce del rhythm’n’blues spiritato di Bo Diddley; con “Papa’s Got a Brand New Bag”, del 1965, la transizione è completa e si festeggia la nascita del funk.
In seguito all’attività pionieristica di questa manciata di artisti il soul non tarda ad affermarsi come musica nera per eccellenza dai ’60 in poi, mostrando fin da subito una doppia faccia: da una parte musica da festa se non da ballo, dall’altra risposta nera al folk e in genere alla musica della controcultura bianca, sottofondo delle lotte per i diritti civili della minoranza nera. È un soul festoso e dalla forte connotazione pop, spesso parente stretto del doo-wop, quello portato in testa alle classifiche dai girl groups neri dei primi ’60 come Shirelles e Ronettes, con pezzi che spesso sono firmati dai migliori autori di musica pop dell’epoca: tra gli altri Burt Bacharach, Jimmy Webb, Smokey Robinson, Dozier-Holland & Holland.
È invece un soul di invettiva politica e ribellione quello che anima pezzi come “Respect” e “A Change Is Gonna Come”, tra i momenti migliori del terzo disco di Otis Redding, “Otis Blue: Otis Redding Sings Soul” (1966), capolavoro del soul che omaggia il maestro Sam Cooke ed alterna con sapienza ballate soffici, ritmi infuocati ed un inno generazionale come “Satisfaction”. Dovendo cercare comunque un bandolo nell’intricata matassa del soul dagli anni ’60 in poi il punto di riferimento principale rimangono le etichette.
L’abitudine di associare alle diverse etichette determinate sonorità ed atmosfere nasce proprio con le label soul, da una parte si tratta di scelte “editoriali” delle label (celebre in tal senso il lavoro fatto dal boss-tiranno della Motown Berry Gordy per farne l’etichetta pop-soul per eccellenza), dall’altra di un effetto collaterale della tradizione per cui ogni etichetta ha una sua band strumentale fissa ad accompagnare le stelle di casa, destinata ad imprimere al sound un carattere unitario.
E così, per esempio, il cosiddetto Memphis soul della Hi Records, quello di Rufus e Carla Thomas e Al Green si sviluppa grazie alla backing band Hi Rhythm Section e a Willie Mitchell, padrone di casa ed architetto di quel suono, dolce ma non necessariamente leggero, che con le sue raffinatezze anticipa il Philly Sound degli anni ‘70. Così il suono della Stax Records, il così detto southern soul, filo rosso che lega artisti diversissimi come Otis Redding, Wilson Pickett e Sam & Dave è in gran parte dovuto agli Mgs di Booker T: un suono ruvido e ancora vicino al rhythm and blues, destinato a prosperare fino all’avvento dei ’70.
Ancora, alla Tamla Motown di Detroit del già menzionato Berry Gordy, ci si rifornisce di soul virato pop, gioielli perlopiù figli della penna ispirata di compositori come Smokey Robinson e Holland-Dozier & Holland: Temptations, FourTops, Supremes, Commodores, ma soprattutto Stevie Wonder e Marvin Gaye: due artisti che assumendo personalmente il controllo della propria musica sono tra i principali responsabili dell’evoluzione di quel suono che traghettano verso lidi che non aveva ancora nemmeno intravisto.
Partito con pezzi tradizionali in pieno stile Motown, Marvin Gaye comincia ad intraprendere sentieri mai percorsi prima dal soul con un pezzo dall’arrangiamento ambizioso e maestoso come “I Heard it Through the Grapevine”, (il più grande hit a memoria d’uomo della Motown) per poi arrivare con l’album “What’s Goin’on”, del 1971, al capolavoro: concept album basato sui pensieri di un reduce del Vietnam (Gaye si ispirò al fratello Frankie), il disco ondeggia tra lamento gospel ed invettiva politica, raccontando “di degrado urbano, problemi ambientali, turbolenze militari, brutalità della polizia, disoccupazione e povertà”. La veste sonora non è da meno: raffinata, contaminata dal jazz, atmosferica e commovente, fa di questo disco il capolavoro assoluto e indiscusso della musica nera. Nell’impari sfida compositiva con Marvin Gaye un solo artista è probabilmente in grado di rivaleggiare ad armi pari: Stevie Wonder.
In modo completamente opposto e spesso antitetico rispetto a Gaye Stevie Wonder riesce ad introdurre nel soul passaggi melodici e sonorità inedite destinate a restare impresse indelebilmente nella tradizione musicale soul (e non solo): basti pensare all’influenza che ancora nel nuovo millennio eserciterà sugli artisti del cosiddetto nu-soul. Come per Gaye (con cui condivide peraltro l’etichetta) è nel momento in cui riesce in parte a svincolarsi dalle maglie di Gordy, attraverso la firma di un nuovo contratto con la casa di Detroit che gli lascia maggiori margini di manovra, che Wonder comincia a rivelare appieno tutto il suo talento compositivo: da “Music of My Mind” (1972) fino ad arrivare al suo lavoro più ambizioso, il concept “Songs in the Key of Life” (1976), passando per “Talking Book” (1972), uno dei primi album pop ad utilizzare principalmente strumenti elettronici.
Si, perché sempre di pop si tratta, anche quando la musica viene utilizzata per affrontare tematiche sociali, pop però portato ai suoi massimi livelli melodici in un’operazione che porta spesso a considerare Wonder la controparte soul dei Beatles. D’altra parte le evoluzioni artistiche di questi artisti e con essi della Motown (di cui erano colonne portanti), portano quest’ultima ad avvicinarsi nel suono ad un’etichetta come la Hi Records: nei dischi di entrambi l’accompagnamento orchestrale si va andato sempre più diffondendo, la line-up rhythm’n’blues tradizionale viene sostituita da archi, fiati e lussureggianti arrangiamenti orchestrali.
Sono i prodromi del philly soul, in gran parte prodotto dei produttori dell’epoca, che marchia indelebilmente le melodie vellutate dei vari Delfonics, Harold Melvin & the Blue Notes e O’Jays, divenendo, assieme al funk principale colonna sonora per il filone cinematografico Blaxploitation e ponte ideale verso le vellutate sonorità della disco di metà anni ’70. Un’ultima precisazione riguarda due termini che ricorrono spesso nella critica musicale: blue-eyed soul e northern soul, due fenomeni relativamente slegati all’evoluzione del soul stesso.
Col primo termine si intende semplicemente il soul cantato da artisti bianchi: inaugurato da “You Lost That Loving Feeling” dei Righteous Brothers sotto la regia sapiente di Phil Spector il fenomeno, che di per sé non costituisce un vero e proprio filone quanto una combinazione di circostanze (il cantante bianco che si misura con pezzi soul) destinata a ripresentarsi frequentemente nei decenni successivi: nei (tardi) anni ’60 degni di menzione sono i Box Tops (se non altro per essere stata la palestra musicale di Alex Chilton, futuro fondatore dei seminali Big Star), mentre nei ’70 artisti brilleranno artisti diversissimi tra loro come Hall & Oates, la Average White Band e Robert Palmer.
Un caso a parte è costituito da Van Morrison, già frontman dei Them, straordinario interprete soul e folk che fa seguire all’esordio solista di “Blowin’ your mind!” (1967), “Astral Weeks”, (1968), capolavoro assoluto della sua carriera nonché pietra miliare della musica rock: accompagnato da una sessione ritmica jazz Van Morrison regala canzoni di ampio respiro, malinconiche e agrodolci, con al centro la meravigliosa sequenza di “Cyprus Avenue”, “The Way Young Lovers Do” e “Madame George”, pezzi che abbracciano con apparente disinvoltura folk, jazz e soul.
Per quanto riguarda invece il northern soul la definizione non indica, come potrebbe far pensare il nome, un particolare stile di soul associata al settentrione degli Stati Uniti: il nord a cui ci si riferisce è quello dell’Inghilterra, zona in cui si trova un gran numero di club che, tra i primi anni ’70 e la seconda metà del decennio, vale a dire tra il periodo dei mod e quello dei punk, animano le serate inglesi con revival della musica soul e r’n’b. Se i D.J. locali suonano un po’ di tutto (Motown, Stax , Atlantic…) le loro scelte hanno comunque un denominatore comune nella ricercatezza e relativa oscurità dei pezzi passati.
Con l’avvento del punk, la scena passa in secondo piano, ma alcuni dei più assidui frequentatori di questi club faranno fruttare gli ascolti di gioventù fondando il proprio gruppo: tra questi il futuro leader dei Soft Cell, Marc Almond e Bob Stanley e Pete Wiggs dei St. Etienne (non a caso autori nel 2004 di un’uscita della collana di mix album “The Trip” che, forte della lezione dei D.J. northern soul di 30 anni prima allineerà in rapida sequenza autori oscuri e brani semi-sconosciuti di artisti più noti).

9 – Il rock sperimentale di fine anni ’60

Se i Fugs fanno un vezzo della propria incompetenza musicale con i Godz di “Contact High” tale elemento diventa fulcro e ragion d’essere del disco stesso: 25 minuti di lamenti, strumming e drumming fuori tempo, ricostruzioni sonore di risse tra gatti e ballate folk con chitarra scordata ed armonica stonata. Come disse Lester Bangs: “Basta solo una folle perseveranza e uno spregio totale di tutto ciò che non sia tirare fuori il guaito che si farebbe ululando alla luna e naturalmente la maggior parte delle persone non ululerebbe mai alla luna solo per dimostrare qualcosa. Ma i Godz si! E non per dimostrare qualcosa, ma perché gli piace ululare alla luna! Ed è questo che li distingue da tutti gli altri.”
Messi accanto a Fugs e Godz rischiano quasi di passare per tradizionalisti gli Holy Modal Rounders, che rivisitano blues e folk con attitudine acida e voce ubriaca, confondendo la rivisitazione con la parodia, la parodia con l’esperimento, legati agli altri due gruppi dalla comune appartenenza all’etichetta ESP , faro dell’avanguardia Americana, per cui sono già usciti o usciranno i Pearls Before Swine e artisti jazz che si muovono tra bop e free come Albert Ayler, Steve Lacy, Ornette Coleman e Charlie Parker.
Altro polo per il rock più o meno d’avanguardia era Los Angeles, da cui provengono due dei più grandi sperimentatori dell’epoca, Frank Zappa e Captain Beefheart. I due, che hanno anche inciso un disco insieme nel 1959, accomunati da una comune indole dissacratoria e dall’interesse per le avanguardie musicali, si muovono poi musicalmente in direzioni radicalmente diverse.
Conoscitore enciclopedico d’ogni stile musicale il primo (non solo rock, ma anche classica contemporanea e avanguardia) fin da “Freak Out!”, esordio del 1966 accanto alle Mothers Of Invention, mostra da subito quelli che saranno i tratti salienti del suo stile: da una parte una costante tendenza alla satira e allo scherzo che porta spesso ad etichettare il suo stile come comedy-rock (probabilmente una delle definizioni di stile più brutte mai coniate), dall’altra il gusto di passare brillantemente da un genere all’altro, mettendo a frutto la propria conoscenza della storia musicale ma anche la propria passione per generi apparentemente antitetici come la musica d’avanguardia e il pop-rock e il doo-wop di fine anni ’50.
Se i Fugs fanno un vezzo della propria incompetenza musicale con i Godz di “Contact High” tale elemento diventa fulcro e ragion d’essere del disco stesso: 25 minuti di lamenti, strumming e drumming fuori tempo, ricostruzioni sonore di risse tra gatti e ballate folk con chitarra scordata ed armonica stonata. Come disse Lester Bangs: “Basta solo una folle perseveranza e uno spregio totale di tutto ciò che non sia tirare fuori il guaito che si farebbe ululando alla luna e naturalmente la maggior parte delle persone non ululerebbe mai alla luna solo per dimostrare qualcosa. Ma i Godz si! E non per dimostrare qualcosa, ma perché gli piace ululare alla luna! Ed è questo che li distingue da tutti gli altri.”
Messi accanto a Fugs e Godz rischiano quasi di passare per tradizionalisti gli Holy Modal Rounders, che rivisitano blues e folk con attitudine acida e voce ubriaca, confondendo la rivisitazione con la parodia, la parodia con l’esperimento, legati agli altri due gruppi dalla comune appartenenza all’etichetta ESP, faro dell’avanguardia Americana, per cui sono già usciti o usciranno i Pearls Before Swine e artisti jazz che si muovono tra bop e free come Albert Ayler, Steve Lacy, Ornette Coleman e Charlie Parker. Altro polo per il rock più o meno d’avanguardia era Los Angeles, da cui provengono due dei più grandi sperimentatori dell’epoca, Frank Zappa e Captain Beefheart. I due, che hanno anche inciso un disco insieme nel 1959, accomunati da una comune indole dissacratoria e dall’interesse per le avanguardie musicali, si muovono poi musicalmente in direzioni radicalmente diverse.
Dalla sintesi di questi generi (ma anche di classica, improvvisazione jazz e musica concreta) nascono dischi che anticipano per ricchezza e ricercatezza delle soluzioni musicali le progressive-rock degli anni ’70, in una discografia sterminata che testimoniano la sua inesauribile versatilità e creatività melodica. Corrispettivo inglese di Zappa (con iniezioni pesanti di Beatles e Kinks) è la “ The Bonzo Dog Band” che sul secondo disco “The Doughnuts in Granny’s Greenhouse” (1968) fonde brillantemente music hall, doo-wop, folk e un numero imprecisato di altri generi, con risultati spesso esaltanti.
Diversa la direzione intrapresa da Captain Beefheart con l’esordio del 1967 “Safe as Milk”, disco di blues-rock sghembo sulle orme di Howlin’ Wolf in cui, se da una parte si ha un primo assaggio dell’abrasiva voce di Van Vliet (vero nome di capitan cuore-di-bue), dall’altra si rimane comunque più o meno nei binari della tradizione. Diverso il discorso per “Trout Mask Replica” (1969): prodotto da Frank Zappa, fusione aliena di blues primitivo, free jazz e avanguardia rumorista, cantato atonale e struttura ritmica spastica e balbuziente il disco è considerato uno dei capolavori assoluti della storia del rock, pietra angolare, più per ispirazione che per imitazione, per tanti gruppi a venire, dalla new wave sghemba dei Devo allo scalcinato post-blues degli Old Time Relijun.

10 – La psichedelia

Il fenomeno della psichedelia, di cui s’intravedono i primi segnali nel 1965 e di cui si scorge la fine negli ultimi anni del decennio, è l’evento più complesso dei ’60, tanto è fitta la ragnatela di eventi, gruppi e rimandi e tanto è vasta la sua influenza su tutti i frangenti del rock: dal folk-rock al blues-rock, dal garage-rock al pop.
Partiamo dalle definizioni che comunemente si danno al genere: una musicale, indica lo stile psichedelico come quella corrente musicale in cui le forme si dilatano in lunghe jam strumentali mutuate dal jazz e in cui le sonorità si arrochiscono di nuovi strumenti e suggestioni: da quelli orientali a quelli elettronici applicati a voci e strumenti; un’altra, di carattere storico, spiega come la musica psichedelica sia nata come sottofondo all’esperienza lisergica o, appunto, psichedelica che deriva dall’assunzione degli acidi; un’altra ancora, filologica, spiega che esistono due ondate psichedeliche: una originale, quella americana e una derivativa, quella inglese.
Se queste definizioni ci danno una prima idea, anche se fumosa, delle caratteristiche generali del fenomeno per capire realmente di cosa si tratti occorre necessariamente scendere nel dettaglio, partendo proprio dal luogo-simbolo della psichedelia Americana: quella San Francisco che nel 1965 è meta prediletta di poeti beat e in cui Mario Savio fonda il Free Speech Movement. Il luogo in cui la controparte californiana di Dylan, Country Joe McDonald, organizza sit-in e marce e in cui comincia a svilupparsi un nuovo movimento pacifista che riprende la vena politica della controcultura newyorchese rielaborandola in chiave idealistica e utopistica: si tratta del fenomeno hippy.
Interessati più al lato spirituale che a quello materiale delle cose, gli hippy tentano di esaltare e sublimare l’esperienza di ricerca interiore attraverso l’assunzione di acido lisergico, LSD, durante i così detti acid tests: tra i primi ad organizzarli c’è Ken Kesey, che ingaggia per fornire un sottofondo sonoro all’esperienza allucinogena i Warlocks, futuri Grateful Dead. La musica psichedelica può dirsi nata.
O meglio, la versione più libera e senza compromessi di quel calderone di stili che si trovano riuniti sotto tale definizione: la psichedelia delle lunghe jam sessions, spesso frutto di improvvisazioni, è quella che meglio incarna lo spirito del movimento ma anche la meno rappresentato su disco, in quanto legata ovviamente ad una dimensione live che trova la sua massima espressione nelle registrazioni dei concerti dei Grateful Dead, in particolare nel celebre “Live Dead” (1969).
All’altro capo dello spettro musicale psichedelico si collocano i pastiches sonori della psichedelia inglese, i quadretti stralunati e sghembi del Barrett solista e i gioiellini pop visionari beatlesiani di Sgt. Pepper, tra cieli di diamante e campi di fragole.
Tra i due estremi infinite varianti e sfumature, che trovano spesso un minimo comun denominatore nella voce pastosa e alienata, nella contaminazione con le sonorità orientali (l’India è in quel periodo una meta frequentatissima nei viaggi alla ricerca di sé stessi), la dilatazione più o meno spinta delle strutture, le sperimentazioni negli arrangiamenti e nella produzione. In questi anni sembra naturale filtrare attraverso uno spirito nuovo, visionario e contaminatore, i generi che già esistevano.
C’è una psichedelia che deriva e si evolve dal folk-rock, scardinandone in parte la struttura tradizionale e la forma canzone, ma mantenendo comunque al centro dell’attenzione la melodia: è la psichedelia dei Byrds di “Fifth Dimension” (1966) e di “Younger Than Yesterday” (1967), quella dei Jefferson Airplane (il primo gruppo psichedelico di San Francisco ad ottenere fama nazionale) di “Surrealistic Pillow” (1967), dei Love di “Forever Changes” (1967) e “Da Capo” (1967), formazione guidata dal genio musicale di Arthur Lee, con cui il folk acido più pop tocca i suoi vertici assoluti.
Si può parlare di psichedelia folk anche per gruppi come Pearls Before Swine e Kaleidoscope in cui la contaminazione riguarda non solo e non tanto le sonorità orientali (quasi un topos musicale nell’era psichedelica), quanto piuttosto la musica medievale in un tentativo di risalire alla fonte delle tradizioni musicali.
Esiste poi una psichedelia garage-rock in cui i tre accordi del genere risplendono di profumi nuovi: tra tutti i texani 13th Floor Elevator di Roky Erickson, allucinati ed incubanti, e i Seeds.
La matricerock-blues risalta invece inconfondibile nei dischi di band minori come Chocolate Watchband, Blues Magoos e di giganti del rock anni ’60 come Doors e Jimi Hendrix.
La formazione di Jim Morrison esordisce nel 1967 con un disco (omonimo) stupefacente, serie perfetta di pezzi al confine tra blues-rock e canzone Brechtiana, classica e musica orientale, incarnazione dei lati più oscuri del sogno psichedelico con Morrison che da cantante si trasfigura in sciamano ed attore, il concerto che si fa rito catartico e tragedia.
Un rito consumato in altre forme ed altri modi durante i concerti di Jimi Hendrix, durante i quali la chitarra viene violentata ed utilizzata come vittima sacrificale, suonata coi denti e dietro la schiena, il suono trafitto da fuzz, feedback, e wah wah; non solo, Hendrix riesce anche nel miracolo di riprodurre nelle registrazioni di studio i cicloni sonici che generava su palco, uno su tutti “Electric Ladyland“ (1968), capolavoro assoluto a metà strada tra blues e psichedelia.
Il suono blues viene ulteriormente indurito nei dischi di gruppi come Blue Cheer, Steppenwolf e IronButterfly, che lo traghettano verso l’hard rock: in particolare i Blue Cheer, con “Vincebus Eruptum” (1968) forgiano un suono, fuzz assordante alla chitarra e basso amplificato a livelli inumani, che anticipa di oltre 20 anni lo stonerrock.
Casi assolutamente a parte sono costituiti dai Red Krayola di Mayo Thompson, dagli United States Of America e dai Silver Apples. Se i primi sono autori di un rock che strizza l’occhio al free jazz e alla musica concreta, gli U.S.A., influenzati tanto dall’’avanguardia di Riley e Reich quanto dal contemporaneo rock psichedelico, abbandonano le chitarre e le sostituiscono con archi e tastiere creando scenari sonori futuristici e visionari e coniando una sorta di ambient pop ante-litteram. Ancor più pionieristici i Silver Apples, gruppo ispirato dalle sperimentazioni con l’elettronica di Morton Subotnick, dalla trance dei Velvet Underground e dal free jazz, e che mette a frutto le sue influenze fin dall’esordio omonimo del 1968, in cui i tre sperimentano con i synth ricreando scenari futuribili e spaziali che influenzeranno eroi del kraut rock come Tangerine Dream e Faust e gruppi new wave come Suicide e Chrome.
Risulta evidente anche da questa breve carrellata come la psichedelia Americana sia un fenomeno assolutamente eterogeneo e difficilmente catalogabile: non è un caso, perché nella
inclassificabilità ma anche nello spirito pionieristico e curioso che l’anima il fenomeno stesso trova il suo significato più profondo, accanto ad uno spirito antagonista (erede del movimento di Greenwich) per cui si tende a far coincidere la fine della fase cruciale del fenomeno col festival di Monterey del 1967 che lo legittima e lo rende riconoscibile presso il grande pubblico; l’utopia del flower power viene spazzata via un anno dopo, quando le masse dei pacifisti vengono sostituite da movimenti più politicizzati e alla protesta pacifica si sostituisce quella violenta.
A questo potrebbe venire spontaneo chiedersi che cosa abbia a che fare l’Inghilterra con questo fenomeno, che è si musicale, ma allo stesso legato ad un movimento sociale prevalentemente americano: per molti versi la psichedelia inglese, svincolata da qualsiasi retroscena sociale, è un fenomeno puramente musicale, cominciato nell’estate del 1966, quando Joel e Tony Brown, che avevano lavorato col guru dell’LSD Timtohy Leary negli Stati Uniti, esporta a Londra il Light Show, che diviene immediatamente un successo di massa; il celebre DJ John Peel contribuisce a diffonderne i suoni con la trasmissione radiofonica Perfumed Garden e di lì a poco si inaugura il celebre Ufo Club dove ben presto cominciano ad esibirsi i Pink Floyd.
Nell’esordio del gruppo, “The Piper At The Gates Of Dawn” (1967), si ritrovano tanti elementi distintivi della psichedelia inglese: la tendenza a ricondurre la divagazione allucinogena psichedelica dentro i recinti pop, coniugando cioè la visionarietà dei testi e la creazione di un suono alieno (attraverso un massiccio utilizzo di riverberi) con l’innato senso melodico dei britannici.
Nel momento in cui, però, a causa dei problemi mentali che si fanno sempre più gravi, Barrett viene allontanato dal gruppo e sostituito con Dave Gilmour. Il primo inciderà due album splendidamente bizzarri, “The Madcap Laughs” (1967) e “Barrett” (1970), che proseguono il percorso cominciato con l’esordio dei Pink Floyd, prima che l’aggravarsi del suo stato mentale lo spingano verso un allontanamento definitivo dalle scene musicali.
Il gruppo di Gilmour dopo un album interlocutorio del 1968 (“A Saurceful of Secrets”) che in qualche modo tenta invano di proseguire sulla falsariga dell’esordio, intraprendono altre strade esasperando l’aspetto atmosferico del proprio suono e creando un
suono epico che tende a spostare il baricentro musicale verso il progressive arrivando nel 1973 al capolavoro di “Dark Side Of The Moon”, art rock dilatato e contaminato di blues e fusion che segnerà anche il trionfo commerciale del gruppo.
Se i Pink Floyd sono il gruppo psichedelico Inglese per eccellenza, riflessi variopinti e lisergici attraversano tante produzioni inglesi dei tardi anni ’60: dai Cream di Disraeli Gears (1967), ai Beatles di Sgt Pepper’s… (1967) e del White Album (1968), dai Rolling Stones di Their Satanic Majesties Request (1967) agli Who di Magic Bus (1968), rendendo evidente ancora una volta come il movimento psichedelico sia, specie a livello musicale, fenomeno trasversale in grado di toccare le frange più diverse della scena musicale, dal blues al folk, passando per il pop-rock.

11 – I Velvet Underground

Non è solo per l’importanza rivestita nella storia del rock che i Velvet Underground si guadagnano sul campo un capitolo a sé, ma anche per l’impossibilità di inserire la loro musica in un qualsiasi filone musicale degli anni ’60: con un po’ di sforzo si può stabilire un nesso con la psichedelia, solo che qui le derive psichedeliche sono legate all’assunzione di eroina, non di Lsd, e i luoghi non sono le spiagge assolate dalla California ma le strade pulsanti di New York: e lo stesso pulsare ossessivo e frenetico, ricorre come un mantra in pezzi come “Heroin” e “Run Run Run” lungo i solchi dell’esordio “Velvet Underground & Nico” (1967) alternandosi però con nonchalance alla dolce decadenza pop di “Sunday Morning” e “I’ll be Your Mirror” o alle oscure atmosfere di “All Tomorrow Parties”.
Questo accostamento d’opposti inedito, tra pop ed avanguardia, rock americano ed espressionismo europeo weilliano è il frutto dell’incontro tra due soggetti altrettanti diversi: Lou Reed, già paroliere per la Pickwick Records, musicista ed appassionato doo-wop con una certa predisposizione e curiosità per le avanguardie e John Cale, che da quelle avanguardie proviene, studi classici alle spalle e trascorsi al fianco di LaMonte Young e John Cage, e una certa attrazione per il rock. Se i due sono l’asse portante del gruppo, la line-up definitiva si completa con l’aggiunta di Sterling Morrison alla chitarra e Maureen Tucker alla batteria.
Il gruppo, avanti anni-luce rispetto alla stragrande maggioranza dei contemporanei, sfugge al rischia di rimanere un fenomeno puramente underground grazie al provvidenziale incontro con Andy Warhol nel 1965: Warhol diventa manager del gruppo e produce il debutto omonimo, ideando però la celebre cover con la banana e attirando sul gruppo la curiosità della stampa.
Non solo, allo scopo di accentuare l’aura decadente del gruppo gli affianca la spettrale voce della modella tedesca Nico, (inizialmente accolta con una certa titubanza dagli altri membri del gruppo), cui spetterà l’interpretazione di alcuni dei pezzi più belli dell’esordio, uno tra tutti la splendida “Femme fatale”.
La musica del gruppo resta comunque troppo rivoluzionaria per il grande pubblico e il disco resta un fenomeno relativamente sconosciuto per molti anni: incredibile è però l’influenza esercitata dal gruppo sulle leve future nell’anticipare il nichilismo che sarà del punk del ’76, le atmosfere decadenti che saranno riprese da molti gruppi new wave e goth, l’introduzione del feedback all’interno della struttura della canzone rock (e pop), ragion d’essere del futuro movimento noise-rock e di tutti coloro che, sulle orme dei Velvet, lo utilizzeranno per la creazione di molti mantra sonori. L’influenza del gruppo è incalcolabile e riveste per l’indie rock la stessa importanza che ebbero i Beatles per lo sviluppo del pop-rock inglese e questo nonostante l’esiguità della produzione del gruppo: due soli dischi con la formazione originaria , con il secondo, “White Light White Heat”(1967), già orfano di Nico e poi altri due dischi senza Cale (sostituito da Doug Youle), con “Loaded”, inciso per la Atlantic, a chiudere la breve saga del gruppo, virando peraltro verso il pop e il glam di cui Reed diviene nei primi ‘70 uno dei massimi protagonisti, trovando un punto d’incontro tra il decadentismo del gruppo e quella del movimento Inglese e l’ennesimo capolavoro, quel “Transformer” che inaugura la collaborazione con Bowie/Ziggy Stardust e lancia la carriera solista di Reed: una carriera che passa anche per l’estremismo noise di “Metal Machine Music” (1975), inascoltabile affastellamento di rumori che porta ai suoi estremi gli spunti dei Velvet.
Anche gli altri membri del gruppo, in particolare Nico e John Cale, portano avanti brillanti carriere soliste: la prima raggiunse il suo apice col gotico “The Marble Index” (1969), disco oscuro e ricco di elementi classici, in cui il rock è ormai un ricordo lontano e dove si viaggia, se mai, dalle parti dello Scott Walker più moribondo. Il disco è prodotto proprio da Cale, che dopo un disco di stampo più tradizionale come “Vintage Violence” (1970) si trova a collaborare col compositore minimalista Terry Riley in “Church of Anthrax” (1971), disco quasi interamente strumentale e probabilmente lavoro più avanguardistico della sua carriera.
Dopo aver ondeggiato a lungo tra tradizione e avanguardia, Cale trova il centro incidendo dischi che mantengono un aspetto sperimentale per quanto riguarda gli arrangiamenti (e in gran parte anche i costumi di scena indossati negli anni ’70) ma una struttura relativamente classica e cantautoriale nella sostanza, toccando con “Music For A New Society” (1982) il punto più alto della sua carriera discografica solista.

12 – Il rock blues di fine anni ’60

Non tutto quello che viene prodotto in America (e in Inghilterra) nella seconda metà degli anni ’60 ha necessariamente a che fare con il movimento psichedelico: su entrambe le coste dell’Atlantico il filone “apparentemente” più tradizionale del rock, quello che deriva più direttamente dalle matrici blues e rhythm’n’blues delle origini, è più florido che mai ed va arricchendosi di sfumature sempre nuove, in un costante processo di fusione ed ibridazione.
Proprio in tal senso opera il Blues Project di quell’Al Kooper che ha già contribuito, col suo organo, all’elettrificazione di Dylan: se già in “Projections” (1966) a pezzi più tradizionalmente blues-rock se ne affiancano altri influenzati da jazz e folk, la ricerca di Kooper prosegue poi in territorio pop con i Blood Sweat & Tears di “Child Is Father to the Man” (1968), dove il gioco all’eclettismo diviene ancora più spinto, in una sorprendente miscela di blues, soul, jazz e classica.
Più legati alla scena psichedelica di San Francisco i Big Brother & the Holding Company di “Cheap Thrills” (1968): l’interesse nei confronti del gruppo è in realtà legato alla figura della vocalist Janis Joplin, una delle più grandi cantanti rock di tutti i tempi, voce roca e lancinante ferita dall’alcool, tra i pochi interpreti bianchi a rendere in modo convincente la disperazione e la rabbia rassegnata che del blues costituiscono il cuore, cosa confermato anche dalla carriera solista, al culmine con lo splendido “Pearl” (1970).
Altrettanto convincenti nella loro rilettura del blues l’armonicista e la sua Blues Band, autori con “East-West” (1966) di una spericolata fusione tra blues, rock&roll, psichedelia, jazz e musica indiana e i Canned Heat, con un blues-rock pesantemente virato verso il boogie, direzione musicale dichiarata già nel titolo del secondo disco “ Boogie With Canned Heat” (1968).
La radice blues si intreccia invece con operazioni di riscoperta filologica di oscuri suoni tradizionali, americani e non, nei dischi di Taj Mahal e Ry Cooder, fino al 1967 una coppia sotto la sigla di Rising Sons, poi con le rispettive carriere soliste: folk caraibico, jazz, gospel, R&B, zydeco tra i generi studiati e suonati dal primo,
tex-mex, musica hawaiana, dixieland e vaudeville alcuni dei generi esplorati dal secondo.
La tradizione blues-rock prosegue ovviamente anche in Inghilterra, dove alla Blues Incorporated di Alexis Corner si affianca un’altra “scuola”: sono i Bluesbreakers di John Mayall dove si fanno le ossa, tra gli altri, Eric Clapton, Mick Taylor e Peter Green. Il primo andrà a formare (con Jack Bruce e Ginger Baker) i Cream, primo power trio della storia (chitarra+basso+batteria), che introdurrà nel blues lunghe improvvisazioni tipiche del jazz raggiungendo il capolavoro assoluto con “Disraeli Gears” (1967), il secondo entrerà nei Rolling Stones, mentre il terzo fonderà i Fleetwood Mac che, partiti come gruppo tradizionale di blues-rock cominciano a virare, già con “English Rose” (1969), verso lidi più pop. A dire il vero prima di suonare nei Bluesbreakers, Clapton si era già messo in mostra nelle file degli Yardbirds: prenderà il suo posto Jimmy Page: di quel che succede dopo, in particolare, quando nel 1968, rimasto solo, Page fonderà i nuovi Yardbirds, futuri Led Zeppelin, se ne parlerà più tardi…

13 – La riscoperta delle radici 

Tra il 1967 e il 1968 il sogno del flower power e le spinte utopistiche dell’ala controculturale americana si sono infrante contro la dura realtà: con la psichedelia ormai ridotta a fenomeno commerciale e la sbornia delle mille sperimentazioni e novità degli anni ’60 ancora da smaltire, molti artisti decidono di ricondurre il rock alle sue rassicuranti origini. In un processo che comincia alla fine degli anni ’60 e che tende a consolidarsi sempre di più nei ‘70 la musica rock americana torna a bagnarsi nelle acque calde del country, del folk Appalachiano, del primo blues, del gospel.
Il primo è Bob Dylan nel 1967 con “John Wesley Harding”, seguono a ruota tutti gli altri: dai Beau Brummels ai Grateful Dead, gran parte dei gruppi americani centrali degli anni ’60 riscoprono il piacere senza tempo del country.
L’invenzione del country-rock va però attribuita fondamentalmente ai Byrds di “Sweetheart of the Rodeo” (1968), alla regia il nuovo frontman Gram Parsons, già leader dell’International Submarine Band e futuro fondatore di lì a poco dei Flying Burrito Brothers, esploratore instancabile delle possibilità che derivano dal suonare country con una line-up rock e “inventore” di un suono destinato a divenire un caposaldo del rock americano.
Lo stesso suono che ritroviamo in “Harvest” (1970) di Neil Young, quarto disco solista che segue di 2 anni la separazione dai Buffalo Springfield e si sovrappone alle sue sortite col quartetto Crosby, Stills, Nash & Young supergruppo formato con ex membri di Hollies (Nash) e Byrds (Crosby), responsabile della creazione del cosiddetto West Coast Sound, vale a dire una fusione agrodolce di country blues e folk immortalata nel celebre live d’addio alle scene “Four Way Street” (1971).
Se CSN&Y si sciolgono nel 1971, Young continua la sua brillante carriera solistica, accompagnato a lungo dalla formazione dei Crazy Horse, passando dal già citato country-rock di “Harvest” alla depressione post hippie di “On The Beach”, del 1974 (parente alla lontana nello spirito dell’elegiaco “If I Could Only Remember My Name” dell’ex compagno di squadra David Crosby): il doppio live del 1979 “Rust Never Sleeps”, un lato acustico e un lato elettrico, country-folk il primo, ai confini con l’hard rock il secondo, è un buon compendio della prima fase della carriera di questo Dylan degli anni ’70: molti sono infatti i punti in comune tra i due, dalla fusione perfetta e complementare di testi e musica, al tono spesso moralistico delle canzoni che nella musica di Young passa però attraverso le disillusioni di fine anni ’60, la malinconia e la rabbia della fine dell’idealismo delle utopie di quegli anni.
Dalle ceneri dei Buffalo Springfield orfani di Young e Stills si formano anche i Poco, (che prendono il nome dalla nota striscia comica fumettistica), gruppo che prosegue il discorso musicale iniziato dagli Springfield, muovendosi musicalmente tra Byrds e Beatles e arrangiando le proprie influenze in chiave country (rock). A loro s’ispireranno gli Eagles, vale a dire coloro che porteranno il fenomeno country-rock in cima alle classifiche durante gli anni ’70 rielaborandone però le sonorità in chiave pop-rock, toccando il vertice qualitativo con “Hotel California” (1976), disco in cui peraltro la matrice country è solo una delle tante componenti musicale in gioco.
Ma il riallineamento americano di fine anni ’60 non si esaurisce nella riscoperta nel country e nella sua fusione col rock: è infatti degli stessi anni l’invenzione del roots rock, fusione di folk, country, gospel e rock da parte della Band: gruppo-spalla di Dylan dal 1965, il complesso aveva cominciato accompagnando Ronnie Hawkins e si era fatto le ossa su un rock’n’roll di stampo classico pesantemente influenzato dal suono dei dischi della Sun Records.
Dopo l’esperienza con Dylan il gruppo esordisce con “Music From Big Pink” (1968) e trova il capolavoro con il disco omonimo del 1969: dischi popolati da una musica fuori dal tempo, tanto che ascoltandoli si ha l’impressione che la british invasion non sia mai avvenuta e le lancette del tempo si siano spostate improvvisamente indietro di qualche decennio.
La stessa sensazione ci accompagna durante l’ascolto dei dischi di Creedence Clearwater Revival e Flamin’ Groovies: i primi eccellono nel suonare swamp pop, un tipo di rock’n’roll in voga oltre dieci anni prima nella Louisiana che miscelava in parti uguali country, rock’n’roll, rhythm’n’blues e blues della Louisiana, il tutto però filtrato ed aggiornato attraverso le evoluzioni più recenti
del rock: il risultato è una serie di singoli indimenticabili come Bad Moon Rising, Have You Ever Seen the Rain?, Proud Mary ed un disco capolavoro come “Cosmo’s Factory” (1970).
Rivive invece il rock’n’roll degli anni ’50 e il rhythm’n’blues della british invasion in “Supersnazz”, esordio del 1968 dei Flamin’ Groovies, gruppo che sposterà poi il suo baricentro musicale in area Beatles-Kinks con “Shake Some Action” (1976), disco pubblicato a formazione rivoluzionata e che contribuisce ad inventare quell’incrocio tra hard rock, Byrds e Beatles definito power pop.
L’azione di riscoperta delle radici proseguirà anche negli anni ’70 con gruppi come Little Feat e Doobie Brothers che per la spiccata componente boogie verranno spesso associati alla scena Southern rock e avrà poi un ritorno di fiamma negli anni ’80 con gruppi come Los Lobos, Del Lords e Del Fuegos: come al solito, se ne riparlerà più avanti…

14 – Il pop barocco

Se folk-rock, psichedelia e country-rock sono fenomeni musicali nati principalmente dalle sperimentazioni e dalle ricerche dei musicisti, a metà degli anni ’60 si va affermando una tendenza ad affiancare o sostituire la line-up tradizionale con ensemble orchestrali, fiati ed archi ed i semplici arrangiamenti del rock con armonie complesse e sofisticate, che nasce in gran parte dalle ambizioni di produttori come George Martin, Van Dyke Parks, Brian Wilson, David Axelrod e Phil Spector .
I primissimi esperimenti in tal senso possono essere ascoltati in “Rubber Soul” (1966) dei Beatles e in “Pet Sounds” dei Beach Boys (1966), prodotti rispettivamente da Martin e Wilson, capolavori assoluti del pop ma anche gioielli di equilibrio tra genio melodico e sperimentazione armonica.
Con Wilson collabora anche Van Dyke Parks, autore di quell’audace tentativo di fondere pop e musica classica, bluegrass e ragtime, che prende il nome di “Song Cycle” (1968).
Ancora più visionari gli esperimenti fatti da David Axelrod che vanno da “Mass in F Minor” degli Electric Prunes (sorta di messa in salsa garage-rock) a pezzi come “Urizen” in cui gli archi fanno da sottofondo a divagazioni chitarristiche psichedeliche e breaks funky di batteria che anticipano di decenni breakbeat e drum’n’bass.
Più canonici, ma anche di maggior successo commerciale, gli esperimenti di fusione tra classica e pop-rock fatti dai Moody Blues negli stessi anni (Nights in White Satin) e Procol Harum (Whiter Shade of Pale).
Nel frattempo Burt Bacharach continua a firmare piccoli girelli melodici che fondendo brillantemente jazz, soul, bossa nova e pop tradizionale pongono le basi, insieme ai lavori di Herb Albert Martin Denny, Les Baxter, Esquivel ed Henry Mancini per la creazione di quell’universo musicale sempre al confine col kitsch che prende il nome di easy listening e che va dalla lounge all’exotica: un immaginario sonoro che sarà fatto oggetto di un diffuso revival durante gli anni ‘90.
Più in generale il fenomeno del pop barocco continua a diffondersi in modo esponenziale alla fine dei ’60 e l’arrangiamento neo classico del pezzo rock finisce col diventare filone a sé: dischi che non possono essere non menzionati in tal senso sono “St Giles Cripplegate” di Jack Nitsche (arrangiatore che aveva contribuito a creare con Spector il celebre wall of sound) e “American Gothic” di David Acles, autore che si ispirava in ugual misura a Dylan, alla coppia Weill-Brecht e a Brel.
A Brel si rifà anche Scott Walker, esponente minore della british invasion con i Walker Brothers che incomincia nel 1967, dopo lo scioglimento del gruppo, una carriera solista di successo che lo rivela come figura anomala del panorama pop, ispirata da crooners come Sinatra e Bennett oltre che dal già citato chansonnier francese: Walker tocca contemporaneamente il suo apice artistico e il suo minimo commerciale con “Scott 4” (1969), pop malinconico e noir che sarà d’ispirazione per una lunga serie di gruppi dei ‘90, come Pulp, Divine Comedy e Cousteau, che non a caso si riallacceranno idealmente al pop orchestrale di questi anni.

15 – I cantautori di fine anni ’60

Tra le tante rivoluzioni musicali messe in atto da Bob Dylan (e più in generale dal movimento del Greenwich Village) durante gli anni ’60 c’è la creazione di uno di stile cantautoriale in cui musica e testi acquistano pari dignità: non-genere che si diffonde a macchia d’olio, rendendo necessaria una rapida escursione in giro per la mappa Americana (e Inglese) di fine decennio alla ricerca dei suoi eredi.
Punto di partenza non può che essere proprio il Greenwich Village: lì si esibiva Laura Nyro, personificazione del melting-pot cittadino con un incredibile ibrido tra soul, jazz e folk cui fanno eco liriche evocative ed intense: grazie a dischi impeccabili come “New York Tendaberry” (1969) e “Gonna Take a Miracle” (1971) sarà influenza imprescindibile per cantautrici di fine anni ’70 come Joan Armatrading e Rickie Lee Jones.
Sempre nel Greenwich si muove l’Arlo Guthrie di “Alice’s Restaurant” (1967), con uno storytelling surreale che brilla sia nella chilometrica title-track sia nella celebre “Motorcycle song” e David Peel, che prosegue in “American Revolution” (1970) sulla falsariga dei Fugs, tra cori stonati e testi affilati e sarcastici.
Texani sono invece Townes Van Zandt e Mickey Newbury, autori animati da una vena intimista e commovente che vive attraverso forti ascendenze country in dischi come, rispettivamente, “Our Mother the Mountain” e “It Looks Like Rain”, entrambi del 1969.
Molti degli autori più importanti dell’epoca risiedono comunque al di fuori dei confini degli Stati uniti, in particolare Canada ed Inghilterra.
Canadesi sono Leonard Cohen, Joni Mitchell e Gordon Lightfoot: il primo, già noto come scrittore e poeta, esordisce musicalmente nel 1968 con “Songs of Leonard Cohen”, sostituendo il tono declamatorio di tanto folk con un suono intimo ed un cantato rilassato, spesso sussurrato, che sarà ripreso da innumerevoli gruppi che su quel suono quieto ed immobile fonderanno il proprio dna musicale, primi fra tutti gli esponenti del cosiddetto slowcore e del dream pop americano.
Non meno importante si rivela Joni Mitchell, che porta il folk al di fuori dei suoi confini, integrandolo e contaminandolo col jazz: lo strumento che risalta su tutti nei suoi dischi è proprio la voce, specie in dischi come “Blue” (1971) e “Court and Spark” (1974): la sua influenza si rivelerà enorme su tutte le cantautrici dei decenni a seguire e può essere avvertita ancora adesso nei dischi di autrici come Norah Jones e Polly Paulusma.
Più classico nel suono e nelle influenze Gordon Lightfoot, esordiente a 27 anni su “Lightfoot!” con un folk virato country e spesso vicino al soft rock: troverà il successo qualche anno dopo con “Sit Down Young Stranger” (1970), album reso famoso dal successo di “If you Could Read my Mind”, e che propone tra l’altro la prima cover di quella “Me and Bobby Mc Gee” che sarà resa famosa di lì a poco da Janis Joplin .
Dall’altra parte dell’Atlantico provenivano invece John Martyn e Cat Stevens.
Il primo, impegnato ad espandere il registro del folk integrandolo con blues, rock, jazz, musica mediorientale, sudamericana e giamaicana raggiunge il capolavoro con “Solid Air” (1973), disco spesso associato alla contemporanea scena progressive, una delle massime espressioni del suo melting-pot musicale.
Più tradizionale la figura di Cat Stevens: filosofico e misticheggiante, è autore di un folk pop di presa immediata che fa dei suoi dischi, in particolare “Tea for the Tillerman” (1970), piccoli gioielli del genere come la celebre parabola di “Father and Son” e la sconsolata “Wild World” stanno brillantemente a testimoniare.

16 – Il progressive rock e Canterbury

Fin dai tardi ’50, quando i 45 giri rhythm’n’blues e rock’n’roll cominciano ad arrivare dagli Stati Uniti alle nebbiose lande inglesi, tra le due coste dell’oceano si crea un gioco di reciproche influenze che sarà stato responsabile di gran parte delle evoluzioni del rock degli anni ’60; nonostante il gioco di specchi e i paralleli non possano essere messi in discussione, bisogna comunque tener conto di quanto i presupposti ed il background delle rispettive scene musicali siano diversi: in America alle spalle di una determinata scena musicale c’è spesso un movimento, da quello controculturale di Greenwich ai figli dei fiori di San Francisco e la musica è un’espressione spontanea e (inizialmente) sotterranea di quelle aggregazioni sociali.
In Inghilterra ci sono sì delle scene musicali cittadine, come quella blues di Londra o quella del Merseybeat di Liverpool, ma spesso il diffondersi di nuovi stili è privo di risvolti sociali e spesso è il risultato di una fortunata idea manageriale (come l’importazione del Light show nel 1966 che lancia per breve tempo il movimento psichedelico).
Tutto questo non va inteso come una critica, quanto piuttosto come una chiave di lettura per capire le coordinate stilistiche che da sempre si accompagnano all’“inglesizzazione” degli stili americani: una maggior libertà interpretativa a cui spesso si è associato un maggior arricchimento (o ammorbidimento, a seconda dei punti di vista) in chiave melodica.
Altro elemento da considerare è come gli ingredienti fondamentali del rock (inteso nel suo senso più generale) fossero percepiti come musica tradizionale dalla cultura americana nera (blues) e bianca (country e folk) mente si trattava di linguaggi musicali estranei per gli inglesi: il rock è per natura decontestualizzato nel momento stesso in cui viene suonato dagli inglesi (o dagli europei in generale).
Ed è con questa decontestualizzazione che si può spiegare il fenomeno del progressive rock, fenomeno che nasce e si sviluppa quasi unicamente in Europa dalla fine dei ’60 e per quasi tutti i ’70 e in cui l’elemento rock diviene semplice spunto per composizioni e sperimentazioni che ne trascendono completamente forma e spirito: la forma-canzone tipica del pop viene ripudiata, la musica si arricchisce di suggestioni provenienti dal mondo della classica e dal jazz, l’attenzione si spinge sulla tecnica degli artisti che si lanciano in lunghi assoli che devono molto al jamming della psichedelia; a ben guardare, d’altra parte, è proprio con la psichedelia americana che si erano imposte molte delle caratteristiche del “formato” progressive: la dilatazione della canzone, l’assolo e la jam, ma soprattutto una commistione senza precedenti tra generi.
Se però la psichedelia, come si diceva, era stato un fenomeno spontaneo e legato a pratiche sociali, il progressive nasce spesso come musica intellettuale, esercizio colto di ricerca che trova nell’album, più che nei singoli pezzi, la sua forma ideale.
I prodromi del prog-rock possono essere già individuati in alcuni dischi inglesi del 1967, in particolare quelli di Moody Blues, Procol Harum e Nice, tra i primi ad introdurre nel rock elementi di musica classica. Se nei pezzi dei primi due gruppi l’elemento classico viene comunque inserimento a scopo ornamentali in strutture essenzialmente pop, avvicinandoli idealmente al filone, di cui s’è già parlato, del pop-rock barocco, più particolare è il caso dei Nice del tastierista Keith Emerson che, inserendo elementi di classica in un contesto lisergico, traghettano la musica psichedelica inglese nelle acque del progressive.
Un altro segnale di questo slittamento è la comparsa delle prime opere-rock, in particolare “S.F. Sorrow” (1968) dei Pretty Things e “Tommy” degli Who (1969): segnali importanti di un aumento di ambizione da parte degli artisti rock e definitiva legittimazione dell’LP e del concept album.
Ma soprattutto è degli stessi anni la comparsa di quella che sarà ricordata come la prima generazione del progressive: Traffic, Genesis, Jethro Tull e Family.
Partiti in piena stagione psichedelica i primi, formatisi intorno alla figura di Steve Winwood (cantante, chitarrista e tastierista), partiti con forti inclinazioni folk e con una line up eccentrica per l’epoca, che comprendeva l’organo di Winwood e il flauto di Chris Wood, il gruppo si trovò ben presto lanciato in lunghe jam che viravano verso blues e jazz, raggiungendo un perfetto equilibrio nel 1968 in “Traffic” e spingendosi definitivamente verso il jazz nel 1970 con “John Barleycorn Must Die”.
Diverso il tipo di suono creato dai Genesis, in studio e dal vivo, quasi cameristico negli arrangiamenti, melodrammatico e teatrale, come teatrali anzi, multimediali, erano le esibizioni live del gruppo, incentrate sulla figura carismatica del cantante-mimo Peter Gabriel: cabaret musicale per la fine del millennio, la musica dei Genesis raggiunge il suo apice qualitativo con “Foxtrot” (1970) terminando poi la sua storia (almeno per quel che riguarda i Genesis storici con Gabriel) con il doppio “The Lamb Lies Down On Broadway” (1974).
Fusione schizoide e apparentemente paradossale quella attuata dai Jethro Tull: il più americano dei gruppi prog, fusione spericolata di generi apparentemente inconciliabili come hard rock e folk medievale, blues, jazz e country: il capolavoro è “Aqualung”, del 1971, concept-album in cui l’improbabile miscela sonora è messa al servizio di una serie di riflessione sul rapporto dell’uomo con religione e chiesa.
Ancor più difficile da incasellare la Family di Roger Chapman che fin dall’esordio del 1968, “Music in a Doll’s House”, rende chiare le sue ambiziose coordinate stilistiche e musicali: mosaico di difficile decifrazione fortemente influenzato dal blues, ma anche dalla classica, dal folk celtico e dall’acid-rock; da questa miscela apparentemente incongruente può emergere di tutto: dalla commovente “Mellowing Grey” ad una “Peace of Mind” che, per la sua acida fusione di hard-blues e folk celtico, ma soprattutto per il cantato posseduto di Chapman, anticipa di parecchi anni certe sonorità tipiche dell’heavy metal.
Se questi gruppi costituiscono la prima guardia del suono prog inglese l’età d’oro del genere comincia con una seconda ondata di gruppi che annovera King Crimson, Van Der Graaf Generator e Yes tra i suoi principali esponenti: gruppi che rendono ancor più spinto il gioco di ricerca e di fusione sonora allontanandosi sempre più dalla matrice rock e virando prepotentemente verso i territori del jazz e della classica.
I primi sono guidati dal virtuoso della chitarra Robert Fripp, cui fanno eco il mellotron (oltre che l’organo ed il flauto a canne) del vocalist Ian McDonald e la batteria di Michael Giles: se il primo brano dell’esordio (e capolavoro) del gruppo “In the court of the Crimson King“ (1969), “21st Century Schizoid Man”, è un eccitante esperimento di fusione col free jazz, nei brani successivi successivo le sonorità si avvicinano da una parte alla classica (“I talk to the wind”), dall’altra a quelle atmosfere medievaleggianti che saranno cavallo di battaglia del prog inglese, in pezzi come “Epitaph” e nella title track. In the court… sarà anche il canto del cigno del gruppo, almeno nella sua incarnazione originaria, che proseguirà come creatura personale di Fripp già dal successivo “In the Wake of Poseidon” (1970).
Fripp lo ritroviamo anche nel capolavoro assoluto dei Van Der Graaf Generator, quel “Pawn Hearts” (1971) in cui il gruppo di Peter Hammill raggiunge la piena maturità: il suono claustrofobico del gruppo è una sorta di punto d’incrocio tra Genesis e King Crimson, vicino ai primi per il cantato melodrammatico e teatrale, accostabile ai secondi per le tastiere e il flauto che sostengono la cupa voce di Hammill, miscela oscura che rappresenta il versante più pessimistico e cupo del suono progressivo inglese.
Laddove i King Crimson si distinguono per la maestria nell’aggirarsi tra i generi più disparati e i Van Der Graaf Generator si segnalano per la visionarietà raggelante, gli Yes si fanno ricordare soprattutto per la magniloquenza e la pomposità del suono incarnando per molti versi, nel bene e nel male, tutti quegli eccessi del prog che avrebbero nel giro di qualche anno innescato la reazione furibonda e nichilista del punk. Il suono del gruppo è un’estenuante esibizione di perizia strumentale e di accostamenti azzardati, sempre sul rischio di collassare in un vuoto onanismo: così in un pezzo come “Starship Trooper” il gruppo interrompe bruscamente il viaggio spaziale sonoro intrapreso nelle prime battute del pezzo con uno stacco country-folk di circa un minuto per poi riprendere con la spirale circolare chitarristica che aveva inaugurato il pezzo, mentre “I’ve Seen All Good People”, Crosby Stills Nash & Young vengono trapiantati in un mondo algido di organi e sintetizzatori: entrambi i pezzi provengono da “The Yes Album” (1971), disco che li impone da subito come gruppo progressive per eccellenza, all’inizio di quegli anni ‘70 che vedono esplodere il genere in Inghilterra, con decine di gruppi a codificarne (e per certi versi a cristallizzarne) il suono.
Tra questi spiccano Emerson, Lake & Palmer, primo supergruppo prog della storia, composti dall’ex tastierista dei Nice Keith Emerson, dal bassista dei Crimson Greg Lake e dalla batteria dell’ex Atomic Rooster Carl Palmer; tra i primi a rendere il genere popolare presso il grande pubblico, forgiando una sorta di prog-arena-rock da classifica e superando gli stessi Yes in magniloquenza: “Tarkus Medley”, pezzo d’apertura del secondo disco del gruppo, “Tarkus” (1971), con i suoi 21 minuti di lunghezza ne è prova inoppugnabile.
Più vicini alle atmosfere affabulatorie di certi King Crimson che alle atmosfere pacchiane di tanto prog i Gentle Giant, raffinata unione di rock, jazz e classica che tocca i suoi picchi in album come “Octopus” (1972) e nel concept “Three Friends” (1972), disco in cui suono del gruppo si indurisce in cui la cervellotica arte del gruppo si rivela definitivamente .
Associabile in parte al fenomeno progressive ma allo stesso tempo caso a parte è la scena che si sviluppa a Canterbury a cavallo tra ’60 e ’70: gruppi come Caravan, Soft Machine ed Egg, diversissimi stilisticamente ma accomunati da una spiccata attitudine per la sperimentazione vicina alla psichedelia e all’avanguardia, fin dall’esperienza nel complesso beat dei Wilde Flowers, palestra musicale per i componenti di Soft Machine e Caravan…
I primi danno un nuovo significato al termine jazz-rock: nella musica dei Soft Machine il jazz non è un suono da introdurre nel pezzo a mo di preziosismo, come in tanto progressive: la struttura melodica stessa dei pezzi è jazz, bop e free, e la strumentazione è solo parzialmente rock. Una trasfigurazione già evidente in “Volume Two” (1969), dove a gioielli d’improvvisazione si alternano gemme dalla melodia stralunata come “Hollo Der” e “Dada Was Here”, e che si fa ancora più marcata in “Third” (1970), le redini del gruppo ormai saldamente in mano a Robert Wyatt: il quale, anche dopo la fine dell’avventura coi Soft Machine proseguirà ed ampliamente ulteriormente quel discorso musicale coi Matching Mole e con una carriera solista folgorante, che trova in “Rock Bottom” (1974), raccolta di canzoni d’amore dall’incedere dilatato e dallo sviluppo magmatico, il suo apice artistico.
Diverso il percorso intrapreso da un altro ex Soft Machine, Kevin Ayers, autore di dischi eclettici e stralunati che ondeggiano tra music hall, folk e prog, arrivando alla quadrature del cerchio con “Whatevershebringswesing” (1971), dove la multiforme vena progressiva si fa più accessibile e pop.
Dove i Soft Machine incarnano lo spirito più avventuroso della scena di Canterbury, i Caravan risultano relativamente più canonici e facilmente avvicinabili al resto dell’universo progressive, con un suono che è un felicissimo punto d’incontro tra le tante tendenze del rock inglese di questi anni: il folk-rock inglese e la passione per la jam acida convivono con suono di un sax che ci ricorda che siamo pur sempre a Canterbury e la contaminazione col jazz non può che essere comunque fortissima come testimonia “In the Land of Grey and Pink” (1971), canto del cigno per la prima incarnazione del gruppo (David Sinclair di lì a poco si unirà ai Matching Mole di Wyatt), ambiziosa avventura sonora tra i quieti paesaggi pastorali del folk e i sentieri impervi ed inesplorati del jazz.
Nel 1970, un anno prima dell’uscita di quel disco, si formano gli Egg di Dave Stewart e Steve Hillage: gruppo che espande ulteriormente il campo di sperimentazione della scena integrando elementi di musica classica in “The Civil Surface” (1974); è invece del 1969 l’esordio dell’ex Soft Machine Daevid Allen con i Gong, autori su “Camembert Electrique” (1971) di una revisione in chiave pop del connubio tra acid rock e jazz rock, caso unico nel già ameno panorama musicale di Canterbury.

17 – Il “Kraut Rock”

Sotto l’infelice definizione di kraut rock si trovano raggruppati gruppi diversissimi tra loro, ma accomunati dalla nazionalità tedesca e da una certa predisposizione a fusioni inedite di rock ed avanguardia (dal minimalismo di Riley all’avanguardia elettronica di Stockhausen) filtrate attraverso la tradizione musicale teutonica, da Wagner al cabaret di Brecht e Weill.
Come per il primo progressive inglese il la per molti di questi gruppi viene dato dalla psichedelia, dalle lunghe jam e dal bisogno di espandere la canzone oltre i limiti tradizionali, in termini di durata e struttura, ma anche in termini stilistici.
Un ulteriore elemento di similarità tra gli artisti tedeschi di questi anni sta nel pionieristico utilizzo di strumenti elettronici: sintetizzatori, sequencer e drum machine cominciano per la prima volta ad affiancare (e talvolta a sostituire) gli strumenti tradizionali del rock.
Elementi comuni rilevanti, ma spesso superficiali, se si considera che le scelte stilistiche e le atmosfere create da questi gruppi sono spesso antitetiche, dalla musica cosmica dei Tangerine Dream al proto synth pop dei Kraftwerk passando per l’avant-prog visionario dei Can.
Proprio questi ultimi sono tra i primi gruppi della scena ad emergere: avanti anni-luce rispetto ai contemporanei nell’esplorare le potenzialità dell’utilizzo di strumenti elettronici, nell’integrare il proprio avant-rock con tecniche di taglia-e-incolla, rumorismo, minimalismo, musica atonale ed aleatoria. Dall’esordio psichedelico di “Monster Movie” (1969) passando per capolavori come “Tago Mago” (1971) ed “Ege Bamyasi” (1972) fino ad arrivare a “Future Days” (1973) i Can disseminano così tanti spunti e idee che ci vorranno poi anni, se non decenni, per rielaborarli tutti: il post rock, il dream pop, tanta elettronica indie sono solo alcuni dei suoni che passano forzatamente di qui, tra i ritmi spezzati di “Vitamin C” e le armonie circolari di “Sing Swan Song”.
Diversissime le atmosfere che permeano i solchi di “Phallus Dei”, debutto del 1969 degli Amon Duul II: un suono psichedelico pervaso da un tetro spirito gotico, dalla furiosa jam dissonante di “Luzifers Ghilom” ai canti medievali che infestano “Henriette Krofenshwanz”, due episodi a caso di un disco sempre e comunque dominato da un’atmosfera raggelante che raggiunge l’apice con l’ultima traccia del disco, quella “Phallus dei” che gli da anche il titolo.
Sono simili le atmosfere che si respirano nell’esordio omonimo dei Faust (1971), che è però scaldato da sonorità diverse: altri grandi pionieri musicali dell’epoca, i Faust portano nel mondo del rock la musica concreta e il collage sonoro, in un susseguirsi caotico ed assurdo di rumori trovati, campioni rubati e suoni siderali. Più convenzionale sull’altro capolavoro, “IV” (1973), il gruppo costituisce un’altra dimostrazione del valore seminale della scena tedesca, precursore di sonorità che ritroveremo decenni dopo nel post rock e negli esperimenti più azzardati della cosiddetta IDM (Intelligent Dance Music).
Altrettanto seminali per tanta musica strumentale e ambientale a venire, dalla new age degli anni ’80 alla techno ambient di metà ’90 le derive sonore dei Tangerine Dream: le esplorazioni interstellari cominciano nel 1970 con l’esordio “Electronic Meditation” e trovano nelle jam di tastiera, flauto e percussioni di “Alpha Centauri” (1971) una prima, sfocata, definizione: musica cosmica (kosmische musik) fluttuante nel vuoto e apparentemente priva di una struttura che la tenga unita che raggiunge lo stato di trance con “Phaedra” (1974) per poi, durante gli anni ’80, omologarsi in parte al suono new age che aveva contribuito a creare.
Si torna bruscamente con i piedi per terra, schiantandosi contro i ritmi nevrotici della realtà urbana, con la musica dei Kraftwerk: primo gruppo ad utilizzare una drum machine in “Kraftwerk 2” (1971), il gruppo mostra qui le due anime, quella sperimentale e quella pop.
La lunga suite di “Klingklang” alterna, procedendo su un ritmo schizofrenico, musica concreta, classica, orientale, psichedelica: accanto a flauto, violino e tastiera fa la sua comparsa per la prima volta l’incedere marziale della batteria elettronica mentre la voce latita per tutto il disco, in un susseguirsi di pezzi astratti e circolari come “Wellelange” (ancora un’anticipazione del post rock ) e collage sperimentali e umoristici come “Atem”.
Radicalmente differenti, ma ancor più seminali, i Kraftwerk di “Autobahn” (1974) che portano per la prima volta le sperimentazioni elettroniche tedesche in territorio pop, mettendo i ritmi meccanici della drum machine e le tastiere elettroniche al servizio di una musica di più facile consumo: un’intuizione folgorante che pone le basi per la nascita dell’electro e del synth pop e che anticipa le intuizioni della disco elettronica di Giorgio Moroder.
Da due ex-Kraftwerk, Michael Rother e Klaus Ginger vengono formati nel 1971 i “Neu!”, gruppo che brilla fin nell’omonimo esordio del 1972 e in “Neu!2” (1973): pattern melodici e ritmici circolari si inseguono ossessivamente, con sonorità che anticipano la new wave più avanguardista, il post rock più elettronico e lo space pop più obliquo, (ma anche per gli stessi Kraftwerk di Autobahn) e che tenderà a stemperarsi e ammorbidirsi nei dischi successivi.
Precursori e profeti della new age i Popol Vuh, con un suono ambientale e sacrale in cui compare per la prima volta la voce spiritata del moog: “In den Gärten Pharaos” (1971), disco composto di due lunghe suite della new age, oltre al suono dilatato e sospeso, anticipa anche l’utilizzo di mantra ritmici importati dall’oriente. Nel successivo “Hosianna Mantra” il gruppo abbandona gli strumenti elettronici in favore di quelli acustici spingendo ancora più in là l’integrazione tra oriente ed occidente, in un enigmatico incrocio tra messa cristiana e meditazione Buddista.
E’impossibile tenere il conto dell’influenza esercitata da questi musicisti su tutta la musica futura, elettronica e non, tante sono le idee sviluppate in così pochi anni e nel giro di una manciata di dischi: influenze che sono state messe a frutto in contesti diversissimi e con modalità spesso contrastanti. Attraverso un uso pionieristico delle nuove tecnologie elettroniche ed una commistione visionaria con le avanguardie che fino allora erano rimaste quasi completamente slegate dalla realtà del rock (se per questi gruppi di rock si può ancora parlare), ma anche attraverso una contaminazione con una tradizione melodica come quella teutonica, completamente estranea rispetto alla cultura che aveva prodotto il rock, i gruppi del cosiddetto kraut rock hanno disseminato una quantità sterminata d’idee ed intuizioni: parte di quei semi, probabilmente, deve ancora maturare.

18 – Hard Rock

Versione anfetaminizzata del blues-rock anni ’60, il passo più veloce, se non frenetico, la voce un urlo sgraziato che esaspera lo shouting dei vocalist rhythm’n’blues neri, i riff di chitarra distorta e sferragliante al centro della scena nei lunghi assoli chitarristici che diventano presto un topos del genere, l’hard rock fin da subito si impone come un antidoto popolare contro le spinte colte del progressive.
Si è soliti attribuire ai Led Zeppelin l’invenzione del genere, anche se questo in realtà è in parte falso: se è vero che col gruppo di Plant e Page che il genere viene definitivamente codificato e diventa il genere popolarmente più affermato per tutti gli anni ’70, capace di riempire arene e stadi e di far balzare gli LP dei gruppi hard rock (primi fra tutti gli stessi Led Zeppelin) in cima alle classifiche di vendita, contrapponendone allo stesso tempo la vena sanguigna e puramente fisica alle cerebrali, elitarie sperimentazioni del progressive è pur vero che, in forme molto simili, tale suono era già presente nei dischi di altri gruppi inglesi come Who, Cream e Blue Cheer.
Fin dall’esordio omonimo del 1969 in ogni caso, anche grazie alle radici musicali folk del vocalist Robert Plant, il gruppo impose una formula, quella del disco hard rock inframmezzato da ballate folk, che diventerà un luogo comune del genere: due esempi memorabili sono “Babe I’m Gonna Leave You” nell’esordio e “Stairway to Heaven” su “IV”, capolavoro del gruppo che vede una formazione ormai matura, in cui alla matrice blues si affiancano innumerevoli altre influenze e sfumature, dalla psichedelia folk di “When The Levee Breaks” al formidabile attacco di “Black Dog”.
Il successo commerciale (e artistico) dei Led Zeppelin genera un numero impressionante di epigoni sia in patria che oltreoceano: dall’hard-boogie in salsa pop degli Status Quo, ai Free di Paul Rodgers, con un hard rock solidamente piantato nelle radici Americane, (l’avventura musicale di Rodgers proseguirà poi nei Bad Company), dalla vena romantica dei Thin Lizzy, gruppo sottovalutato che viene ricordato più che altro per il singolo “The Boys Are Back in Town” agli Slade, precursori del glam-rock, fino ad arrivare a Humble Pie e Faces, due gruppi nati dalle ceneri degli mall Faces: i Faces, in particolare, capitanati da Rod Stewart, sono autori di un trascinante hard rock dai forti connotati rhythm’n’blues.
La triade “sacra” dell’hard-rock contempla però, accanto ai Led Zeppelin, due gruppi in particolare: Deep Purple e Black Sabbath. Eccessivi e a tratti assimilabili al progressive i primi, autori nel 1972 di uno dei dischi chiave dell’hard rock, quel “Machine Head” che in sé assomma gran parte dei vizi e delle virtù del genere: se il gruppo infatti spicca per il virtuosismo dei suoi componenti, primi fra tutti il chitarrista Ritchie Blackmore e il vocalist Ian Gillan, proprio nell’ostentazione continua di tali qualità, nei duelli tra la chitarra e l’organo, negli eccessi che diventano ancor più evidenti ascoltando i live del gruppo si intravedono quelli che diventeranno i limiti del genere.
Per molti versi stilisticamente agli antipodi rispetto ai Deep Purple si collocano i Black Sabbath: dove i primi puntano pesantemente sul virtuosismo tecnico, il gruppo di Ozzy Osbourne e Tony Iommi crea un’immagine gotica e orrorifica del gruppo e gli da una veste sonora adatta: un suono di basso amplificato e distorto e chitarre sature di fuzz parente di quello già ascoltato nei dischi di Blue Cheer (non a caso con i Black Sabbath principale influenza dei futuri gruppi stoner). Con “Paranoid” (1971) i Sabbath toccano probabilmente il punto più alto della propria produzione discografica, definendo da una parte un immaginario sonoro e visivo che servirà da spunto per innumerevoli band heavy metal (in particolare black-metal e doom-metal) e allo stesso tempo rilasciando vere e proprie bombe sonore come “Iron Man”, “War Pigs” e la title-track.
La risposta Americana all’ondata hard rock inglese non tarda ad arrivare: riappropriandosi di suoni che nel nuovo continente erano nati i gruppi d’oltreoceano riconducono il blues-rock pesante nei solchi della tradizione da cui proveniva, accentuando gli elementi rhythm’n’blues e boogie, come risulta evidente ascoltando i dischi di Grandfunk Railroad, Mountain e Bachman-Turner Overdrive.
La componente boogie è ancora più accentuata nei dischi di quel sottogenere dell’hard rock che prende il nome di Southern rock: Allman Brothers, ZZ Top e Lynyrd Skynyrd, tutti gruppi che provengono dal ultra-reazionario sud degli Stati Uniti, ne sono i principali esponenti.
I primi sono i più fantasiosi del gruppo, band da live più che da studio (il disco più famoso degli Allman è il celebre “Live At Fillmore East” del 1971), eredi dei Grateful Dead nelle lunghe jam live che li vedono fondere con disinvoltura blues, country e jazz, tendenti in studio a ripiegare su un hard-blues più tradizionale e sintetico.
Fermamente piantato nelle radici il boogie dei Texani ZZ Top, gruppo che serve il miglior mazzo di canzoni nel 1973 con “Tres Hombres” e quello dei Lynyrd Skynyrd di “Second Helping”(1974), l’album della celebre “Sweet Home Alabama”, prodotto (come l’esordio, d’altra parte) da quell’Al Kooper che con Blues Project e Blood, Sweat & Tears era stato, nella seconda metà degli anni ’60, tra i principali revivalisti del blues e tra i suoi più strenui innovatori: il cerchio, in qualche modo, si chiudeva.

19 – Il proto punk di Detroit

Com’è noto, Detroit è stata la città della Motown, l’etichetta pop-soul per eccellenza, di formazioni garage-rock come Awboy Dukes & The Mysterians e dei Grandfunk Railroad: ma Detroit è anche la città di MC5 e Stooges, due formazioni fondamentali per quel suono che, passando per la New York delle New York Dolls e del CBGB ci porta dritti al punk del 1976. Non s’è solo un suono, ma anche un’attitudine, deviata e (auto)distruttiva, che trova voce per la prima volta nelle due formazioni e che segna una fattura epocale con le esperienze passate del rock.
Il disco più celebre degli MC5 è un live del 1969, “Kick Out The Jams”: le orecchie dell’ascoltatore sono immediatamente aggredito da una miscela estrema e primitivo di rhythm’n blues e rock’n’roll, mezzo per incanalare la rabbia interiore e strumento per John Sinclair, vocalist del gruppo nonché leader delle White Panthers, ala rivoluzionaria dei movimenti antagonisti studenteschi dell’epoca, per enunciare i propri proclami politici.
Non vi è invece alcuna vena politica nei dischi degli Stooges, che aggiornano piuttosto la rabbia e lo scontento adolescenziale del rock’n’roll anni’50 al clima tetro e lugubre dei tardi anni ’60, dopo la fine dell’idealismo della controcultura di Greenwich e dell’utopia hippie. In appena tre dischi e 6 anni di vita gli Stooges pongono le basi musicali per la prima ondata punk del ’76, non solo a livello musicale ma anche prefigurandone l’ideologia; Iggy Pop, in un periodo in cui la rockstar veniva idolatrata dal pubblico e messa su un piedistallo, si mette in ridicolo di fronte al pubblico, si umilia, si colpisce con il microfono: si tratta di una sorta di esorcismo pubblico di un malessere interiore e generazionale e di rivoluzione dei ruoli che dai Sex Pistols in poi diverrà la regola.
Fondamentali anche per l’influenza musicale esercitata, se fin dall’esordio omonimo del 1969 (prodotto dall’ex Velvet underground John Cale) gli Stooges suonano alieni rispetto a tutti i loro contemporanei (MC5 inclusi), sorta di miscela tra i Troggs più abbietti e gli Stones più feroci è con il maelstrom sonoro di “Fun House” (1970) che il suono del gruppo arriva a maturazione: il successivo “Raw power” (1973) virerà in parte verso il glam, lasciando ai primi due dischi l’onore e l’onere di aprire le danze, con 6 anni d’anticipo, del futuro movimento punk.

20 – Dallo ska al reggae

Il reggae vive essenzialmente di due storie parallele, una giamaicana e una inglese: storie speculari ed invertite perché se in Giamaica nasce prima lo ska e poi, gradualmente, si arriva al reggae, in Inghilterra succede l’esatto contrario, poiché prima (aldilà di un’effimera moda ska sul finire dei ’60) si afferma il reggae di Bob Marley, poi, in un’ondata di revival, si riscopre lo ska, da cui l’equivoco, ancora molto diffuso, che lo ska venga dal reggae.
Per trovare un filo nell’intricata vicenda la cosa migliore è partire dalle origini; luogo e periodo: la Giamaica dei primi anni ’60, fresca d’indipendenza, che comincia a coniare una propria musica popolare, lo ska, appunto; la line-up tipica dello ska è uno strano abbinamento di strumenti elettrici tipici del rhythm’n’blues e fiati in parte legati alla tradizione jazz: sassofono, tromba e trombone; lo stile di musica è uno strano incrocio tra il jump blues ed il mento, musica tradizionale giamaicana altamente sincopata.
Fortemente influenzata dalla scena musicale americana, da cui provengono i 45 giri rhythm’n’blues suonati dai sound systems che animavano le feste del ghetto di Kingston: i giamaicani hanno una predilezione per le musiche con una forte componente boogie, come il jump blues e certo rhythm’n’blues degli inizi, appunto e quando questi suoni vengono abbandonati dalle band americane, i proprietari dei sound systems come Clement «Coxsone” Dodd e Duke Reid fanno una cosa molto logica: formano le proprie label e cominciano a registrare e produrre sul posto la musica che non viene più prodotta in America.
In breve tempo il suono comincia a farsi più personale e a fondere gli stili originari, il mento e rhythm’n’blues innanzi tutto; proprio da quest’incrocio nasce il caratteristico beat in levare che diviene segno caratteristico dello ska e di tutti i suoi derivati: suonare gli accordi in controbattuta era elemento stilistico tipico del mento ma è con la fusione col r’n’b, con la sua caratteristica enfasi sull’elemento ritmico, che si crea la miscela perfetta.
Le prime stelle dello ska sono Laurel Aitken, Prince Buster, Desmond Dekker (che con “The Israelites”, nel 1969, farà scoppiare nel Regno Unito una fugace moda dello ska), Toots & the Maytals, e i Wailers di Bunny Wailer, Pete Tosh e Bob Marley. Caso a parte è costituito dagli Skatalites, non solo esponenti di primo piano della scena ska originaria ma anche backing band fissa dello Studio One, seminale studio di registrazione di proprietà del già citato Coxsone Dodd.
La popolarità dello ska crolla bruscamente nell’estate del 1966: un’estate eccezionalmente calda convince gli interpreti ska a rallentare drasticamente i ritmi d’esecuzione: nasce così il rocksteady, versione rallentata dello ska, basso in primo piano e trombone rimpiazzato dal piano: se i Wailers si adattano facilmente al nuovo stile altri gruppi vengono rimpiazzati dalla nuova ondata di interpreti e gruppi, di cui fanno parte, tra gli altri, Heptones, Dominoes, Alton Ellis e Ken Boothe.
Rispetto allo ska il rocksteady è musicalmente più vicino al soul e al doo-wop, vantando una maggior cura per le armonie e le parti vocali e anteponendo in parte la melodia al ritmo; non solo: temi sociali e politici cominciano ben presto a fare capolino nei testi.
È evidente la funzione di congiunzione con il reggae, in cui questi elementi vengono accentuati e portati a maturazione: succede nei primi anni ’70, quando il suono rallenta ulteriormente, la religione Rasta assume un ruolo centrale nella musica e il cantante diviene una sorta di predicatore del culto di Jah. I dischi più importanti, usciti nel corso degli anni’70, sono in gran parte firmati da ex-wailers: Bunny Wailer con “Blackheart Man” (1976), Pete Tosh con “Legalize” (1976), ma soprattutto Bob Marley, per la prima volta senza i suoi due compari storici nel 1974 con “Natty Dread”, disco che lo porterà ad un successo stellare e a divenire la prima stella internazionale del reggae.
Figure centrali del reggae delle origini sono anche Burning Spear e Augustus Pablo, nei cui dischi la matrice reggae convive felicemente con un altro derivato del rocksteady: il dub, genere che rientra nella vasta categoria degli stili inventati dai produttori. Nel 1967 i produttori dei sound system cominciano a rimaneggiare, sovraincidere e remixare in studio i singoli rocksteady per farne versioni strumentali su cui i toasters (i dj giamaicani) parlano ed improvvisano nuove parti vocali: è la nascita del toasting, antenato del rap e antefatto del dancehall. Nel frattempo un ingegnere del suono, King Tubby che presto comincia a sperimentare con le tracce strumentali, utilizzando la console come un vero e proprio strumento ed esasperando riverberi ed echi: il dub, col suo suono cavernoso e sommerso, è nato.
Bisogna aspettare qualche anno comunque perché compaiano i primi dischi interamente dub, con l’uscita nel 1973 di “Blackboard Jungle Dub” dello stesso Tubby e di “Double Seven”, disco del 1974 era firmato dall’altro grande produttore dub: Lee “Scratch” Perry.
Anche in Inghilterra, dove 20 anni dopo sarà elemento-chiave per lo sviluppo del suono del trip-hop di Bristol, il dub attecchisce e la scena viene portata avanti e mantenuta viva durante gli anni’80 da artisti come Mad Professor ed AdrianSherwood.
Il merito va in gran parte ad un’etichetta che, fin dai tardi anni ’60 inizia a promuovere e distribuire la musica Giamaicana nel continente: si tratta della Island, label già dietro all’importazione dei primi singoli ska-rocksteady come “Al Capone” di Prince Buster e “The Israelites” di Desmond Dekker (responsabile della già citata moda passeggera dello ska di fine ‘60), promuovendo i dischi dei Wailers prima e di Bob Marley poi e diffondendo, in ultimo, appunto, i primi dischi dub.
Un’opera di divulgazione della musica giamaicana che attecchisce in modo formidabile sulle uggiose coste Inglesi: dalla scena dub autoctona ad invenzioni dei primi anni’90 come trip-hop e drum’n’bass, passando per il revival ska a cavallo tra ’70 ed ‘80, sono innumerevoli i frutti dati da quei primi seminali dischi.
Non che in Giamaica non succeda niente: all’inizio dei ‘70 si festeggiano i primi vagiti del dancehall, il toaster sempre più lanciato nel sovrapporre parole e melodie sulle note dei classici dello ska e del rocksteady, Techniques, Heptones, John Holt, Wailers e Dennis Brown tra i “campionamenti” più illustri . Curiosa l’origine del nome che, per gli infuocati toni utilizzati, sessisti, omofobi e violenti, spesso questi pezzi venivano censurati dalle radio e la pista da ballo (il dancehall) diveniva l’unico luogo in cui era possibile ascoltarli.
Il pioniere è U-roy: suo il primo singolo dancehall a salire in cima alle classifiche, nel 1970, quel “Wake the Town” costruito sulle note di “Girl I’ve Got a Date” di Alton Ellis; segue un’orda di discepoli, primi fra tutti Dennis AlCapone, I-Roy e soprattutto Big Youth, vale a dire colui che a metà anni ’70 spodesta dal trono di re del genere lo stesso U-roy, prima col geniale singolo del 1972 “S 90 Skank”, frutto dell’intuizione geniale del produttore Keith Hudson di portare una motocicletta in studio per poterne campionare il rombo, poi col disco “Screaming Target” (1973), una delle espressioni migliori di un suono che in Giamaica spopolerà per tutti gli anni’70.
Nei primi anni ’80 ritmi e melodie si fanno più orecchiabili e s’incomincia a parlare di rub-a-dub: parte una nuova trafila di personaggi di successo come Clint Eastwood, Dillinger e, soprattutto, Yellowman, probabilmente il cantante dancehall di maggior successo degli anni’80. Sempre negli anni’80, in particolare nel 1985, avviene una svolta decisiva, legata in gran parte ad un’intuizione di Wayne Smith: quella di sostituire una tastiera Casio al solito disco rocksteady/roots in “Under Me Sleng Teng”; l’intuizione fulminante fa immediatamente proseliti e segna la nascita del ragamuffin. Se ne riparlerà più avanti…

21 – Il power pop 

Tra i tanti filoni revivalistici degli anni ’70 il power pop è probabilmente uno dei più seminali, per l’influenza esercitata sulla musica cosiddetta alternativa, e allo stesso tempo uno dei più trascurati da pubblico e critica. Tratti distintivi del genere sono la passione per la canzone da tre minuti e un suono che è un cocktail dalle dosi più o meno variabili di jingle-jangle byrdsiano, armonie vocali ereditate da Beatles e Beach Boys e una componente hard rock più o meno spiccata (spesso mutuata dal suono degli Who). Dove il movimento roots andava a ripescare i suoni della tradizione pre-British Invasion il power pop proprio lì va a parare, immergendosi idealmente negli anni d’oro dei Beatles, del folk rock e del pop californiano.
Pionieri del genere sono, nei primi anni ’70, Big Star, Raspberries e Badfinger. Sfortunatissimi in vita e destinati ad un culto postumo smodato, i primi si formano sulle ceneri degli Ice Water di Chris Bell nel momento in cui al chitarrista Steve Ray subentra l’ex box-tops Alex Chilton: la coppia, litigiosa ma artisticamente sopraffina (nella miglior tradizione beatlesiana), pubblica solo tre album, ma quella discografia smilza eserciterà un’influenza enorme sui posteri. Allo splendido debutto di “#1Record” (1972) segue “Radio City” (1974), già parzialmente orfano di Chris Bell e infine “Third Sister Lovers” (1978), il più scuro dei tre, ultimo lascito artistico di una band allo sbando, destinato ancora una volta ad un’inspiegabile indifferenza. Eppure, come già accennato, quei tre dischi erano destinati a lasciare il segno: difficile immaginare i R.e.m o gli Heartbreakers di Tom Petty senza un disco come “Radio City” alle spalle e la sua revisione e relativa modernizzazione delle sonorità anni ’60.
Minori ma comunque piacevoli gli altri due pionieri del power pop: i Badfinger, veri e propri epigoni dei Beatles e i Raspberries, gli unici destinati ad avere un relativo riscontro commerciale e per questo ispirazione principale per i gruppi della seconda ondata del power pop, quella di fine anni’70: gruppi come Cheap Trick, Knack, Shoes, Records, Nerves, i Beat di Paul Collins e i Flamin’Groovies di “Shake Some Action”. Un’ondata effimera, destinata a prosciugarsi coi primi anni’80 ma ricchissima di gruppi e di talenti minori, spesso legati ad un singolo pezzo, un intrigo di filologia musicale che porta alla mente l’esplosione garage-rock di metà anni ’60 (che per molti versi era basata tra l’altro sugli stessi modelli): in quel caso a sbrogliare la matassa era arrivata 10 anni dopo la raccolta “Nuggets” mentre per il power pop si rivela fondamentale, con le debite proporzioni e differenze, l’uscita ad inizio anni ’90 della collana “Yellow Pills” a fare luce sull’intricata faccenda.
Negli stessi anni, dopo un timido accenno a fine anni ’80 con gruppi come Material Issue e Let’s Active, si assiste all’ennesima proliferazione di gruppi di scuola power pop destinato ad un piccolo, ma fedele culto a livello indie: questa volta però il modello di riferimento sono divenuti i Big Star, come risulta evidente ascoltando gruppi come Teenage Fanclub, Posies e artisti come Michael Penn e Tommy Keene.
Aldilà della filologia più maniacale e della ricerca di un suono “strettamente” power pop come si diceva prima l’influenza di questi gruppi, specie quelli della prima ondata è difficilmente misurabile, se non altro per aver di fatto costituito un trait d’union fondamentale tra le sonorità pop-rock anni ’60 e quelle del college rock americano (e non solo) che sboccerà sulle ceneri ancora calde del punk.

22 – Il Glam

Il glam è un fenomeno principalmente inglese che vive non solo sotto il profilo musicale, per molti versi come derivazione del primo rock’n’roll (T. Rex e Bowie) e in misura minore dall’hard rock, ma anche, e soprattutto, sotto quello scenico: costumi, trucco e lustrini servono a costruire identità fittizie e creare un’aura di ambiguità e mistero (?) intorno al cantane, giocando da una parte con abbondanti richiami alla fantascienza (basti pensare alla saga di Bowie-Ziggy Stardust) e dall’altro gioca con l’ambiguità sessuale.
E proprio quest’elemento impedirà al fenomeno di attecchire nell’America puritana, con un’unica eccezione: le New York Rolls di Johnny Thunders, che hanno però un suono completamente diverso, che anticipa quello che di lì a poco verrà definito punk.
L’invenzione del glam va attribuita a Marc Bolan che coi T. rex, già titolari di una serie di dischi folk-rock, nel 1970, prima con l’omonimo “T. Rex” e poi in modo ancor più netto con “Electric Warrior”, del 1971, definisce immaginario e coordinate musicali del genere.
Il 1972, anno in cui i T. Rex escono con “The Slider”, Bowie deflagra con la saga di “Ziggy Stardust” rubando la scena al rivale, riprendendo ed espandendo le idee di Bolan e aggiungendo un senso di teatrale decadenza che gli veniva dagli anni passati nel music hall e una propensione al travestimento che si manifesta fin da “The Man Who Sold the World” (1970).
Nel giro di un paio di album Bowie cambierà nuovamente volto in un tentativo continuo di reinventarsi da zero, un esempio su tutti la cosiddetta trilogia di Berlino cominciata con “Low”(1977) cui seguono “Heroes” e “Lodger” in coppia con quel Brian Eno due anni prima, con “Another Green World”, ha inventato l’ambient, musica dilatata e militata destinata a fare da tappezzeria sonora che diventerà filone importantissimo nei decenni successivi.
Partito comunque anch’esso dal glam, coi Roxy Music dell’esordio omonimo del 1972 e, soprattutto, di “For Your Pleasure”, del 1973: disco che coniuga brillantemente le velleità avanguardistiche di Eno con la concezione più tradizionale del vocalist Brian Ferry, raggiungendo un punto di equilibrio perfetto tra queste due tendenze; il suono del gruppo, influenzato in ugual misura da Velvet Underground e progressive, caso a parte nella scena glam, si rivelerà un’influenza enorme sui gruppi inglesi a venire, specie sulle atmosfere sofisticate e decadenti di molti gruppi synth pop.
Quando nel 1974 esce il “Rocky Horror Picture Show” il fenomeno, all’apice commerciale è ormai sull’orlo di esaurirsi: non travestimenti e trucchi scenografici però, che ricompariranno in altre circostanze, svuotati del tutto o quasi delle allusioni sessuali nelle derivazioni più teatrali del post-punk inglese, nelle mascherate dell’hair metal inglese; i suoni e le provocazioni di Bowie saranno ripresi invece più o meno fedelmente nei tardi anni ’90 da gruppi come Suede, Auteurs e Placebo.

23 – Il Funk

Se già in un capolavoro di soul deviato come “Papa’s Got a Brand New Bag” (1965) si possono intravedere i segni distintivi del funk è “Get Up (I Feel Like Being A) Sex Machine”, del 1970, a codificare definitivamente il genere con una grassa linea di basso a fornire il riff principale, ritmi sincopati e un suono stridulo di chitarra passata attraverso il wah-wah a completare il suono; la struttura dei pezzi funk è più libera, vicina all’improvvisazione che si era un po’ persa col rhythm’n’blues ma da sempre è nel dna della musica afroamericana, lunghe jam simile a quelle che prendevano piede nel rock psichedelico ed un ruolo fondamentale di divenire subito musica della controcultura nera.
Funky era la colonna sonora di “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song”, primo film indipendente di Melvin Van Peebles che inaugura il filone della cosiddetta blaxploitation (oltre a lanciare gli Earth, Wind & Fire, esponenti del funk a più alta gradazione pop), filone di film minori girati perlopiù da registi neri per un pubblico nero con protagonisti neri, caratterizzati da colonne sonore che alternano funk e  philly soul, che prospererà per tutto il decennio.
Se James Brown fu il padre del funk, due figure altrettanto importanti per la sua crescita furono Sly Stone e George Clinton: il primo è l’artefice con la sua Family nel secondo album “Dance To The Music”, del 1968, di una fusione irresistibile tra rock, funk e psichedelia (la Family si esibirà anche al festival di Woodstock) ma è nel successivo “Stand!” (1969) che trova la quadratura del cerchio sposando una vena militante nei testi con un’alternanza perfetta tra jam funk-psichedeliche e anthem come “Everyday people” e l’irresistibile “I Wanna Take you Higher”: segue un’altra pietra miliare, nel 1971, con “There’s a Riot Goin’ On”.
L’idea della jam funk monocorde e sconfinata viene portata alle estreme conseguenze dall’iper-prolifico George Clinton che “fa del funk il nonplusultra della musica da party”: difficile raccapezzarsi nella sua sterminata discografia, soprattutto se si mettono insieme le uscite con Parliament e Funkadelic e le si sommano a quelle soliste. Se i Funkadelic sono più vicini al formato funk-rock psichedelico del primo Sly Stone, con i Parliament Clinton da sfogo alle sue smanie di jamming selvaggio e alla sua passione per il celebre look freak-fantascientifico; sciolte le fila di entrambi i gruppi a inizio anni ’80 Clinton si dedica ad un electro-funk costruito su drum machines e sintetizzatori. 
Il lavoro pionieristico di questi tre artisti aiuterà il funk ad affermarsi come musica nera per antonomasia per gran parte dei ’70, dalla versione più terrena ed aspra data da Meters e Bloodstone al funk di Earth Wind and Fire, Kool and The Gang e K.C. and The Sunshine Band che traghettano il genere verso la disco: dagli Chic in poi, (“Le Freak”, 1978), la transizione si fa irreversibile e il groove minimale di basso funky, accompagnato agli archi e alle suadenti voci femminili testimoniano la confluenza delle due anime della musica nera dell’epoca, philly soul e funk, nel calderone della musica da ballo per eccellenza.
Non che si tratti dell’unico sbocco di quel suono, che potrà essere ritrovato ovunque nella musica a venire: dalla rilettura sghemba che ne darà Prince negli anni ‘80, alle fusioni col jazz portate avanti da gente come Herbie Hancock e Roy Ayers, dalla fusione col Metal azzardata da Fishbone e Red Hot Chili Peppers all’incalcolabile influenza esercitata sull’hiphop, fino alla riscoperta dei classici minori del genere durante gli anni ’90 anche grazie all’opera di ricerca di dj come DJ Shadow, Kenny Dope, Pete Rock e soprattutto Keb Darge, supervisore della celebre collana Funk Spectrum e di innumerevoli altre compilation a tema.

24 – La Disco

Il suono della disco è essenzialmente funky: un funk dal beat costante e regolare, (spesso scandito dall’hand-clapping mutuato dal gospel), in cui le voci degli shouters sono sostituite da voci femminili angeliche e allo stesso tempo provocanti, e il cui suono è ammorbidito da un abbondante utilizzo di archi, ma pur sempre funk: il groove grasso del basso e il suono stridulo di chitarra non lascia dubbi.
Il motivo è molto semplice: il fenomeno della disco nasce con l’apertura di locali gay a New York destinati esplicitamente al ballo, le discoteche da cui il fenomeno prende il nome, in cui venivano selezionati i pezzi soul e funky più groovy. Ad un certo punto i pezzi funky-soul cominciano ad essere prodotti con lo scopo preciso di essere suonati nelle discoteche e a quel punto il suono la disco può dirsi nata.
Ben presto le discoteche cessano di essere appannaggio esclusivo della comunità gay divenendo fenomeno di massa: il fenomeno più commerciale è di breve durata, limitandosi alla seconda metà dei ’70, ma ha l’effetto di un ciclone. Un’infinità di artisti soul, pop e rock comincia ad integrare il beat in 4/4 della disco nella propria musica, dal soul orchestrale di Barry White, a veterani del rock come Mick Jagger (assiduo frequentatore del “Paradise Garage” di Larry Levan), passando per un gruppo come gli Australiani d’adozione (in realtà sono orginari dell’isola di Man) Bee Gees che fino ad allora aveva suonato pop-rock di derivazione più o meno Beatlesiana e che in questi anni diventa una delle voci più celebri del movimento.
Un’altra rivoluzione connessa alla nascita di un filone musicale come questo, ad uso e consumo delle discoteche, è il riesplodere del singolo come formato discografico per eccellenza: i vinili vengono tagliati appositamente per facilitare l’estensione del brano (è la nascita dell’extended mix, primo fenomeno di remixaggio); sui vinili è indicato il bpm dei pezzi per facilitare un missaggio fluido (nascita del missaggio professionale in sequenza dei pezzi che eleva ad arte il ruolo del dj).
Se la storia della disco è essenzialmente storia di singoli non mancano le stelle del genere, abilmente forgiate dalle mani dei produttori: da veterani come Earth Wind and Fire e KC & The Sunshine Band, agli Chic , veri inventori del suono disco col già citato “Le Freak”, dalle regine della disco, Gloria Gaynor e Donna Summer, alle meteore (Tavares, Sylvester, Trammps).
Se gli Chic coniano il suono della disco è Giorgio Moroder (Italiano ma di stanza a Monaco ) ad innovarlo, introducendo le tastiere elettroniche sia per fornire una base melodica sia per dettarne l’ossatura ritmica: con la produzione dei singoli di Donna Summer “Love to love you baby” e “I feel love”, rispettivamente del 1975 e del 1976, porta prepotentemente l’elettronica nella dance anticipando un’innovazione che il synth pop dei primi anni ’80 farà prontamente sua.
Il fenomeno raggiunge il suo apice nel 1977 dopo l’uscita del film “La Febbre del Sabato Sera” esplodendo a livello mondiale per poi spegnersi di lì a poco (almeno come moda) con inni della cultura disco (e della cultura gay) come “YMCA” dei Village People e “We Are Family” delle Sister Sledge, entrambi del 1979, a fare da canto del cigno.
Alla fine del boom commerciale non corrisponde assolutamente la morte del genere, se si considera che è cosa di questi anni l’apertura di due locali destinati ai gay di colore come il warehouse di Chicago con Frankie Knuckles come DJ resident e il Paradise Garage di New York dove ha base Larry Levan: dai rispettivi locali prenderanno il nome House e Garage, dagli anni ’80 in poi eredi elettroniche della disco stessa, da cui mutueranno molti elementi stilistici e la funzione danzereccia.
Non solo: in pieno post-punk gruppi p-funk come Kid Creole & the Coconuts e Was Not Was (e un’infinità d’altri) creeranno forme ibride di disco mutante con un approccio obliquo tra avanguardia e dance, esperimenti, testimoniati da raccolte come “Mutant Disco” (1981) e “Disco Not Disco” (2000), che si riveleranno di seminale influenza per l’esplosione del p-funk revival di inizio millennio…

25 – L’Heavy Metal

È difficile tracciare con chiarezza la linea che separa l’hard rock dall’heavy metal: nel blues ipervitaminizzato e distorto dei Led Zeppelin, negli assoli chitarristici dei Deep Purple e nella tendenza verso l’occulto e il gotico dei Black Sabbath ci sono giù tutti i semi per quello che, dagli anni’70, attraverso infinite variazioni e mutazioni, diventa uno dei generi più longevi  (e di successo) della storia.
Una delle tendenze più diffuse tra i primi gruppi heavy metal è comunque quella di riprendere l’hard rock di qualche anno prima e renderlo di più accessibile, semplificandone la forma e accentuandone in parte l’aspetto melodico: un esempio di questa tendenza sono i Blue Oyster Cult, tra i precursori del genere con atmosfere gotiche da b-movie, approccio teatrale sul palco e soluzioni melodiche accattivanti: una formula che ritroviamo, rafforzata da massicce iniezioni di glam (col travestimento svuotato però del suo originario significato sessuale) in “Killer” (1971) di Alice Cooper e nell’esordio omonimo dei Kiss del 1974 che porta la fascinazione per il travestimento tipica degli anni ’70 (dal glitter-rock inglese alle divise funky freak dei Parliament) agli eccessi.
Più vicini al suono primordiale dell’hard rock, gruppi come gli Aerosmith di “Get Your Wings” (1974) e “Toys in the Attic”(1975), che si riavvicinano al blues-rock degli Stones e gli australiani AC/DC che nell’esordio del 1976 “High Voltage” fanno rivivere in chiave hard i suoni originari del rock’n’roll.
Il fenomeno dell’heavy metal raggiunge la sua massima definizione, staccandosi definitivamente dall’hard-rock di dieci anni prima nei tardi anni’70 con la cosiddetta new wave del metal inglese: gruppi come Iron Maiden, Motorhead e Judas Priest definiscono l’immaginario ed il suono classico del genere creando un filone che attecchirà in tutta Europa ma soprattutto in America. Metal progressivo ed oscuro che porta avanti le atmosfere gotiche dei Black Sabbath ed aumenta la potenza del suono chitarristico e la velocità d’esecuzione: i Judas Priest di “Sad Wings of Destiny” del 1976 in pratica anticipano suoni ed atmosfere che saranno tipiche del death metal; ancora più frenetico, al confine col punk che esplodeva in quegli anni, l’omonimo esordio del 1977 dei Motorhead, (gruppo fondato da Lemmy Kilminster dopo essere stato cacciato dagli Hawkwin nel 1975 in seguito a 5 giorni di detenzione per possesso di droga): se nei dischi dei Judas Priest si pongono le basi per il versante oscuro del metal qui si contribuisce a coniare il trash-metal che fiorirà durante gli anni ’80.
Altrettanto influenti si rivelano gli Iron Maiden, che nell’omonimo debutto del 1980 rifiniscono le idee dei loro predecessori: la potenza dell’heavy metal viene sposata con riff prelevati a forza dal punk e lo speed metal può dirsi nato: inizialmente boicottati in America con accuse di satanismo e comunque mai destinati a fare il botto commerciale il gruppo si rivela più tardi influenza fortissima, anche a livello di iconografia (si pensi anche alle grafiche di copertina), sulla nuova ondata heavy metal Americana dei primi anni ’80, quando due correnti opposte cominciano ad imporsi, rispettivamente, nelle classifiche e nell’underground: da una parte il pop-metal di gruppi come i Def Leppard che portano il genere al successo commerciale e dall’altra, in reazione contro questo suono, il thrash metal di Megadeth e Metallica. Se ne riparlerà più avanti…

26 – Il pop rock anni ‘70

Se il pop-rock è un fenomeno che in fondo è sempre esistito, in senso lato, fin da quando le asperità del rhythm’n’blues e dei suoi derivati vengono ricondotte ad una veste più melodica, nei primi anni ’60, da gruppi come Beatles e Beach Boys, è con i primi anni ’70 che il rock, non più osteggiato, comincia ad essere sfruttato commercialmente e sostenuto dall’industria mainstream, perdendo i suoi connotati controculturali e configurandosi come fenomeno commerciale, non più rivolto al solo pubblico adolescenziale ma ascoltato ed apprezzato da un pubblico adulto: definizioni come Adult Oriented Rock(AOR) e soft-rock cominciano a circolare proprio in questi anni.
Il suono del rock si integra alla perfeziona in una società adulta formata dagli ex-ragazzini degli anni ’50 e ’60, una generazione cui va incontro con suoni spesso levigati e/o tradizionali: se per tutti gli anni’60 era continuata la storica tradizione del pop vocale (dai teen idols al doo wop) come alternativa al suono delle rock-band anni ’60, nel corso dei ’70 il rock diventa una colonna portante del pop, accanto a fenomeni di pop-soul e pop tout court.
Se da una parte abbiamo neo-tradizionalisti come gli Eagles, dall’altra troviamo gruppi, più o meno melodici, più o meno pop, che fanno di un suono levigato e high-tech il proprio vessillo: da gruppi più sperimentali come Electric Light Orchestra e Penguin Cafè Orchestra, a gruppi più smaccatamente commerciali quali Supertramp, Steely Dan e i Fleetwood Mac di seconda generazione (dopo l’abbandono di Peter Green).
Gli Electric Light Orchestra aggiornano la lezione dei Beatles di ”Sgt Peppers” alle atmosfere patinate degli anni’70 integrandone il pop ultra-melodico con la lezione del prog-rock e trovando la quadratura del cerchio in “Eldorado” (1974), dove il suono delle tastiere elettroniche viene accostato ad arrangiamenti orchestrali e inserito in una struttura spesso neo-classica dei pezzi.
Fantascientifici gli Alan Parson’s Project di “I Robot” (1977), con un suono che ricorda molto da vicino i Pink Floyd di “Dark Side Of The Moon” (disco in cui il leader del gruppo, il tastierista Alan Parson, compariva in veste di ingegnere del suono), che in sé incarna molti pregi e difetti del suono di certo techno-rock anni ’70 di diretta ascendenza prog: lunghe ballate, spesso strumentali, che oscillano tra l’ambient più stridente e il neo-classico più pomposo.
Altrettanto ricercati, ma caratterizzati da sonorità radicalmente diverse, i dischi della Penguin Orchestra di Simon Jeffes, con un suono cameristico screziato di jazz, affidato ad una strumentazione classica comprendente anche violoncello e clavicembalo: allo spirito solenne di molti gruppi dell’epoca essi contrappongono un atteggiamento scherzoso che pervade sia l’esordio del 1976 “Music From the Penguin Cafe” sia il seguito, nonché capolavoro del gruppo, “Penguin Cafe Orchestra”, del 1981.
Accanto a questi gruppi, relativamente colti e sperimentali nella ricerca sonora ve ne sono molti altri, più canonici, destinati ad un maggior riscontro commerciale: dalla miscela perfetta ma a tratti insipida di soul, jazz e rock proposta dagli Steely Dan di “Preztel Logic” (1974), alla seconda incarnazione dei Fleetwood Mac, quella di “Rumours” (1977), ormai depurata da qualsiasi legame col blues e autrice di un pop-rock senza infamia e senza lode ma di enorme successo commerciale; dai Supertramp, nonplusultra del gruppo pop-rock anni ’70 in “Breakfast in America” (1979), perfetta fusione tra Abba , Beatles e prog-rock, ai Toto di “Toto IV” (1982), re della power-ballad anni’80.
Esponenti del pop tout court gli Abba, il gruppo di massimo successo commerciale degli anni ’70, che aldilà della perfezione melodica (che convive con una forte attrazione per il kitsch) della lunga serie di singoli prodotti, da “Waterloo” (1974) in poi, avranno il merito di mettere sulla mappa della musica mondiale la Svezia: da lì, da meta anni’90 in poi, partirà una nuova invasione di gruppi dall’irresistibile vena melodica, quali Cardigans e Komeda, che prosegue ancora oggi, come testimoniata dallo straordinario livello qualitativo delle uscite di un’etichetta come la Labrador (Club8, Radio Dept. e Edson tra gli altri), a ribadire il ruolo della Svezia di capitale pop della penisola Scandinava.
I ’70 videro anche il successo di un pop-soul meticcio che di lì a poco sfocerà nell’urban, e che trova due campioni, diversissimi tra loro, in Michael Jackson e Prince: già in procinto di diventare l’icona pop degli anni ’80 l’ex-Jackson Five dopo una serie di deludenti prove soliste fa il botto commerciale con “Off the Wall” nel 1979, un disco di dance-pop screziato di soul e funk che presenta ancora evidenti legami col pop-soul del vecchio gruppo: produce Quincy Jones, alla console anche in quel “Thriller”, del 1982, che batterà ogni record di vendita e lancerà Jackson nell’olimpo delle pop-star.
Seminale il rock-soul meticcio di Prince, artista che ridefinisce il suono del funk e del soul per gli anni ’80 (e non solo) in una fusione spericolata tra Hendrix, Stevie Wonder e James Brown: già al secondo disco, omonimo, del 1979 cominciano brillare i primi germogli di quel suono, sexy e lascivo, che col successivo “Dirty Mind”, del 1980 trova compimento: registrato in casa e suonato completamente da solo è qui che si intravede la miscela di funk, new wave, R&B, e pop che verrà spinta alle estreme conseguenze nel disco della consacrazione: “Purple Rain” (1984). Quest’ultimo, insieme a “Sign’ o The times” (1987), costituirà un’eredità musicale enorme per gli artisti a venire, sia nella scena urban e hip hop, sia in quella elettronica che si farà sentire ben oltre gli anni ’80: si ascolti, a tal proposito, il drum’n’bass astratto e fratturato di Squarepusher, i Basement Jaxx di Rooty e l’electro-revival in salsa funk condito di gemiti femminili di Felix Da Housecat.

27 – I cantautori degli anni ’70

Se Bob Dylan rappresenta l’archetipo del cantautore anni ’60, politicamente e socialmente impegnato ed idealista, suono spoglio e fortemente ancorato al folk tradizionale, destinato ad arricchirsi e mutare, certo, ma comunque semplice e terreno, James Taylor e Jackson Browne rappresentano i cantautori-tipo degli anni ’70: le tematiche sociali si ripiegano sull’individuo (in un momento di forte confusione come quello post-hippie), il suono resta semplice ma si affina, si screzia di jazz come era già successo e succederà durante i ’70 nei dischi di un’autrice che spesso viene affiancata ai primi due: Joni Mitchell.
Si tratta di pezzi dal suono levigato e dal ritmo calmo e posato, ballate in cui piano e chitarra ai alternano come accompagnamento centrale e spesso si fanno fiancheggiare da violini e violoncelli creando un’atmosfera quasi cameristica.
Il lavoro che lancia questa nuova ondata di cantautori, all’interno della quale trovano posto numerosi artisti dei tardi ’60 come Joni Mitchell e Cat Stevens, è “Sweet Baby James” di James Taylor (1970), disco che in partesegue il filone ormai avviato del revival country-folk.
Un revival sui cui solchi traccerà la sua intera traiettoria artistica John Denver, probabilmente il più popolare cantautore degli anni ’70( almeno sotto il profilo commerciale), in stato di grazia in un disco del 1974 come “Back Home Again”.
Sempre nell’ambito della tradizione si colloca la musica di quei cantautori che vengono ricompresi sotto la definizione di Heartland Rock: fenomeno della seconda metà dei ’70 che comprende autori come Bruce Springsteen, Tom Petty, John Mellencamp e Bob Seger, caratterizzati da un generale recupero delle sonorità rock’n’roll filtrato dall’influenza di figure centrali del folk come Van Morrison e Bob Dylan.
Del non-movimento la vera gemma è proprio Springsteen: fin dall’esordio del 1973 “Greetings From Asbury Park, N.J.” si rivela portavoce dell’america middle-class ed erede ideale di Dylan e del Van Morrison più rock, accostabile al primo per la prosa eccelsa, accostabile al secondo per l’intensa vena melodica: una vena che si contamina di rhythm’n’blues stonesiano e jazz quando in “The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle”, del 1973, viene affiancato dalla E Street Band ( dal nome della strada in cui viveva il tastierista David Sancious). Alla notorietà presso il grande pubblico arriva con il disco successivo, “Born to Run”(1975)cui seguono capolavori come “Darkness On The Edge Of Town” e lo spoglio e commovente “Nebraska”.
Se la nuova ondata di cantautori anni’70 si apre con “Sweet Baby James” è col meditabondo e filosofico “Late for the Sky”(1974) che viene consacrato uno dei più dotati songwriter del suo tempo, quel Jackson Browne che insieme a Taylor e alla Mitchell viene solitamente citato nella “triade sacra” degli anni ’70.
Un caso a parte il genio che anima i dischi di Tom Waits, esordiente nel 1973 con “Closing Time”, autore poi di una trilogia a fine ’70 (“Small Change”, “Foreign Affari” e “Blue Valentine”) in cui una voce a metà tra Louis Armstrong e Captain Beefheart si lancia in recital beat, ballate pianistiche ubriache e spezzacuori e jive indemoniati su note bebop; svolta musicale ed ulteriore capolavoro nel 1985 con “Rain Dogs”, centro di una nuova trilogia , la cosiddetta “trilogia di Frank”.
Altro eccentrico è Randy Newman: se però Waits ama strisciare tra le sonorità di bassifondi e bettole fumose, Newman preferisce muoversi tra le luci di Broadway e le celebri strade della Tin Pan Alley, pur non disdegnando rhythm’n’blues, ragtime, lo swing ed il suono delle jug band: di quegli autori, in particolare dei vari Gershwin, Kern e PorterNewman è l’erede ideale, come dimostrato nel capolavoro “12 Songs”(1970).
Erede del Dylan più caustico è Warren Zevon, già autore storico per i Turtles e amico di Browne, che fa del suo peggio nel disco omonimo 1976 con pezzi dalla raffinata vena melodica e dal tono bilioso e amaro; dalla figura di Joni Mitchell discendono invece Joan Armatrading e Rickie Lee Jones, riprendendone la scrittura sofisticata ed aristocratica: la seconda, in particolare, al debutto omonimo nel 1979, atmosfere notturne e sofisticate che riportano alla mente Laura Nyro va a chiudere un decennio che, ancor più di quello precedente, aveva messo le basi e creato un modello insuperabile per tutto il rock cantautoriale degli anni a venire.

28 – Il punk di New York

Fenomeno sbocciato in America nell’ambito della cosiddetta new wave, onda anomala di gruppi in rotta con la tradizione musicale destinati a sconvolgere il rock dalle fondamenta, il punk nasce a metà anni ’70 a New York, in club come il CBGB’s e il Max Kansas City e deflagra nel 1977 in Inghilterra emergendo prepotentemente dall’underground e divenendo caso nazionale. È una musica che nasce come reazione contro la società e la musica del tempo, espressione di un malessere diffuso che ha molte cause: da una parte c’è una nazione, quella americana dei tardi ’70, disincantata e ancora scossa dalla guerra del Vietnam, guerra con cui per la prima volta viene intaccata l’immagine utopistica dell’America; d’altra parte i problemi non sono nemmeno più controbilanciati dalle utopie del decennio precedente: le ceneri del fenomeno hyppie sono ancora calde e la musica ha perso il suo carattere sociale per andarsi a rifugiare in forme acute di individualismo.
Il rock è stato ormai inglobato dal mainstream e svuotato di tutti i suoi elementi destabilizzanti, spesso ripiegato su sé stesso in una riscoperta sterile delle radici mentre molta musica cosiddetta alternativa si è andata ad incanalare nei labirinti barocchi e spesso vuoti del progressive .
In questo quadro il punk viene giù dritto come una bomba: non è una reazione con uno scopo preciso, non c’è un doppio fine né un obiettivo, se non quello di dare una valvola di sfogo al proprio disagio e allo stesso tempo fare tabula rasa col passato recente, andando a recuperare le sonorità del rock’n’roll degli anni’50 esasperandone i tempi e sfregiandone il suono.
Pensandoci bene non può esistere stile musicale più adatto per far partire il siluro punk: da una parte il primo rock’n’roll è l’unica corrente musicale rimasta incontaminata, mai veramente inglobato ed imbrigliato dalla cultura mainstream che anzi vi si è opposta fin dall’inizio accelerandone ed anticipandone la scomparsa e poi perché, nella sua relativa semplicità, si presta alla logica del do-it-yourself (DIY) che regola fin da subito il fenomeno punk: il gruppo che sale sul palco non lo fa per esibire la propria abilità musicale, ma per urlare il proprio disagio, il pubblico reagisce con la violenza del pogo e sputando sul palco (il cosiddetto gobbing) in segno contemporaneamente di disprezzo ed ammirazione: si ripete per molti versi quel che è successo, quasi dieci anni prima, con gli Stooges di Iggy Pop.
L’ottica del DIY è fondamentale per spiegare l’esplosione di gruppi, etichette e stili che nel giro di un paio d’anni rivoluziona lo scenario musicale mondiale: tutti i gruppi della prima ondata del punk inglese, Clash compresi, dichiareranno di aver incominciato a suonare dopo aver assistito ad un concerto dei Sex Pistols, gruppo che fa della propria imperizia un vanto ispirando centinaia di band a fare lo stesso; sempre col DIY si spiega la proliferazione in questi anni delle etichette indipendenti, che si riveleranno fondamentali per la diffusione di nuovi suoni, dietro alla produzione di dischi e gruppi che le Major non avrebbero mai nemmeno preso in considerazione: la Emi sarà disposta a pubblicare i Sex Pistols, musicalmente di presa immediata nonostante l’apparente ruvidezza e sospinti commercialmente dal clamore che suscitano, ma mai e poi mai sarebbe disposta a produrre gruppi come Cabaret Voltaire e Crass, esponenti di spicco del post punk, (per la cronaca questi due gruppi verranno pubblicati dall’inglese Rough Trade, probabilmente la più importante etichetta indie inglese della storia).
Ma facciamo un passo indietro: gobbing, Pistols e pogo sono tutti fenomeni legati alla seconda fase dell’esplosione del punk, quella inglese, del 1977. Il punk però, come si diceva, nasce a New York, a metà anni ’70.
Il “la” lo danno le New York Dolls, gruppo di travestiti che ha due intuizioni che si riveleranno fondamentali per il fenomeno: la prima è quella di ripescare suoni del passato (in questo caso gli Stones più sanguigni) e fonderli con lo stile sporco e primitivo dei primi Stooges; la seconda è quella di portare al centro della scena delle figure psicotiche e volgari che uniscono le provocazioni del glam con quelle di Iggy Pop.
Ancor più seminali si rivelano Richard Hell e i Ramones: il primo, che ha già militato nei Neon Boys (con i futuri Television Tom Verlaine e Richard Lloyd) è autore, con i suoi Voidoids, di “Blank Generation” (1976), vero e proprio inno della generazione senza causa del punk; non solo: è lui ad ispirare a Malcolm McLaren il look dei futuri Sex Pistols, di cui sarà produttore e demiurgo (McLaren tenta inizialmente di affidare la leadership del gruppo allo stesso Hell, il quale però rifiuta).
Impatto più grande ancora hanno i Ramones, veri artefici del suono del punk: melodie elementari, canzoni da due minuti e tre accordi che prendono tanto dal primo rock’n’roll quanto dal pop dei primi Beach Boys con il primo, omonimo disco del 1976: segue un seminale tour del Regno Unito e lo spettacolare “Rocket To Russia” (1977).
Al CBGB’s, comunque, non suonano solo Hell e i Ramones, ma anche artisti come Patti Smith e Television: se i Ramones rappresentano l’aspetto più sfrenato e pop del fenomeno, questi ultimi ne costituiscono invece il versante serio, legato al mondo degli intellettuali e ai circoli poetici e rientrano in quel filone più vasto che prende il nome di New Wave, di cui il punk, almeno in America, è solo il suono più identificabile.
Patti Smith nasce come poetessa ed esordisce musicalmente nel 1975 con “Horses”, punto d’incontro tra beat poetry e garage rock, tra simbolismo e rock’n’roll: produce il solito John Cale, presenza fissa in tutti i dischi-chiave della storia del punk.
Ancor più singolari musicalmente i Television di Tom Verlaine che in “Marquee Moon” (1977) creano una sorta di “garage-rock senza swing”, con un jamming che si rifà al free-jazz di Coltrane e un andamento mesmerizzante che riporta alla mente le sonorità dei Velvet Underground: disco-simbolo della new wave che porta brillantemente avanti la tradizione musicale Newyorchese, centrale per gran parte degli sviluppi musicali a venire…

29 – Il punk inglese

Lungo una tortuosa traiettoria che dal nichilismo auto-distruttivo dei Velvet Underground porta al garage-rock primordiale degli Stooges, passa per il proto-punk stradaiolo delle New York Dolls e per il punk-pop dei Ramones, il punk arriva finalmente in Inghilterra: e qui esplode.
Se in America rimarrà fenomeno parzialmente underground e limitato a pochi gruppi, in Inghilterra il successo è immediato e travolgente, in parte per l’entusiasmo ormai storicamente provato con cui il Regno Unito fa sue ed espande le idee importate dall’altra parte dell’Atlantico in parte perché l’ideologia (o meglio anti-ideologia) punk attecchisce bene nella società Inglese sconquassata e smantellata dalle politiche ultra liberali del governo Thatcher.
L’adesione degli inglesi al fenomeno punk non è puramente legata all’aspetto esteriore del fenomeno, (anche se gli inglesi riusciranno comunque ancora una volta a costruirvi una moda intorno), ma è massiccia e totale: saranno centinaia i gruppi e le etichette indie che si formeranno sull’onda lunga del fenomeno Sex Pistols.
Creati da Malcolm McLaren, proprietario di una Boutique londinese alternativa intorno a cui gravitavano tutti i futuri membri della band, i Pistols si rivelano centrali nella storia del punk non solo e non tanto sotto il profilo musicale, quanto per l’impatto che hanno sul rock inglese. La figura trainante del gruppo è il vocalist John Lydon, (poi Johnny Rotten): se il look lo crea McLaren prendendo spunto da quello di Richard Hell e la musica è una rielaborazione (comunque originale) del suono dei Ramones, è coi testi provocatori di Rotten che i Sex Pistols fanno la differenza da “Anarchy in the Uk” (singolo uscito nel 1976 per la EMI che suscita abbastanza polemiche da convincerne i capi recidere il contratto) all’LP d’esordio “Never mind The Bollocks” (1977): canzoni che parlano d’anarchia, fascismo, che si scagliano contro la regina (celebre la commemorazione del giubileo con il giro in battello sul Tamigi). Nessuno ha mai osato tanto e con tanto successo e pochi avranno il loro impatto nella storia della musica. Chi però pensa che i Pistols sia stato il primo gruppo punk inglese ad essere registrato su disco sbaglia: il primato spetta ai Damned col disco “Damned Damned Damned” del 1977.
Se i Sex Pistols sono i catalizzatori del fenomeno, i Clash ne sono i grandi innovatori: primi a portare i temi sociali all’interno dell’ultra individualista universo punk, da subito il gruppo di Strummer, Jones, Levene e Simonon si colloca un gradino sopra gli altri: l’omonimo esordio del 1977 esce per la Columbia e la pubblicazione del disco da parte di una major viene vista da molti fan come un tradimento verso lo spirito idealista del gruppo ma si rivela fondamentale per la diffusione e l’evoluzione del genere; è invece del 1979 “London Calling”, disco così ricco di contaminazioni (reggae, dub, ska, pop, R&b) da far si che già si possa parlare di post-punk.
È difficile tenere il conto di tutti i gruppi che, ispirati dai Ramones, da Sex Pistols e Clash, cominciano a suonare un punk prima fedele allo stile dei loro modelli, poi, gradualmente, sempre più personale, staccandosene e creandone di nuovi: fondamentali per lo sviluppo del pop-punk gruppi come i Buzzcocks di “Singles Going Steady” (1979) e gli Stiff Little Fingers di “Inflammable Material” (1979); meno pop ma dotati di una vena melodica fuori dal comune gli Adverts di “Crossing the Red Sea With …” (1978), più morbidi (almeno per i canoni del genere) gli  irlandesi Undertones   dell’omonimo esordio del 1979 il cui singolo “Teenage Kicks” verrà definito “pezzo preferito di tutti i tempi” da John Peel, DJ che ancora una volta si rivela fondamentale per la diffusione radiofonica del nuovo genere (come lo era stato dieci anni prima per la psichedelia con la trasmissione Perfumed Garden); la gradazione pop è elevatissima nel debutto omonimo del 1978 dei Generation X di Billy Idol.
Prime esponenti femminili (almeno in ambito inglese) di un genere che si rivelerà frequentatissimo dal gentil sesso, rompendo lo stereotipo ultradecennale che associa al rock la presenza di testosterone, le “X-ray Spex” che con “Germ Free Adolescents” (1978) inventano uno stile che sarà poi ripreso ed espanso dalle riot grrrls, le ragazze riottose degli anni ’90, prime fra tutte le Bikini Kill; altro elemento di rilievo è il suono del sax, la cui presenza in area punk diventerà un tema ricorrente nei suoni del post-punk, dalla no-wave al p-funk.
Due sottoprodotti del primo punk inglese sono l’oi! ed il revival del movimento Mod.
Il primo fenomeno, che prende il nome dal pezzo “Oi! Oi! Oi!” dei Cockney Rejects, sale alla ribalta nel 1978 coi dischi degli Sham 69 e viene portato avanti da gruppi come Angelic Upstarts, Cockney Rejects, U.K. Subs e 4 Skins: espressione musicale delle classi proletarie Cockney dell’east-London, sono gruppi che cercano di contrapporsi alle spinte progressiste del post-punk mantenendo il suono ancorato a quello dei Pistols e dei primi Clash: lo spirito purista attira verso questa corrente numerose critiche, destinate a moltiplicarsi esponenzialmente quando i concerti dei gruppi oi! cominciano ad essere bazzicati prevalentemente dagli skins del famigerato Fronte Nazionale.
Il mod revival, inaugurato nel 1977 da “In The City” dei Jam è invece fenomeno solo parzialmente legato al Punk: l’influenza degli Who e degli Small Faces, gruppi musicali simbolo dell’era mod originale si fa sentire abbondantemente nell’esordio del gruppo di Paul Weller ma è fortemente inasprita, risentendo nei tempi e nei suoni del contemporaneo fenomeno punk; più fedeli agli originali i gruppi minori del moviment, come Jags, Lambrettas e Purple Hearts. Il revival è comunque un fenomeno effimero destinato a svanire nel momento stesso in cui Paul Weller scioglierà i ranghi dei Jam per fondare gli Style Council.
Se il suono originale del punk inglese del ‘77 è destinato a restare puro e incontaminato per poco, nonostante il tentativo conservatore del movimento Oi!, le sue asperità sonore verranno riprese dal movimento punk di Los Angeles che, attraverso che attraverso un’ulteriore aumento dei ritmi e un inasprimento dei suoni già mette le basi per il movimento hardcore dei primi anni’80 che porterà il suono punk alle estreme conseguenze. Diversa la direzione intrapresa dai cosiddetti gruppi post-punk, che partiranno dalle intuizioni del punk e dalla tabula rasa da esso operata, per avventurarsi in nuovi, eccitanti territori sonori…

30 – Le altre scene punk

Insieme a New York e Londra la terza capitale del punk è Los Angeles (per la verità anche nella vicina San Francisco il fenomeno comincia a prendere piede con band come Avengers e Nuns che però si sciolgono ancor prima di incidere un album).
In “Gi” (1979) dei Germs di Paul Beahm ci sono già molti elementi tipici dell’hardcore: canzoni da un minuto e mezzo, a inseguire una ritmica isterica e un cantato che delle melodie dei Pistols ha tenuto solo gli urli e i lamenti; è un suono che nel giro di un anno si diffonderà a macchia d’olio, (non solo in America), partendo proprio dalla California di Dead Kenedys e Black Flag.
Completamente diverso il discorso musicale che riguarda gli X: dove i Germs esasperano e portano alle estreme conseguenze la musica dei Pistols, il gruppo di John Doe, composto al contrario della maggioranza dei gruppi punk da musicisti navigati, in “Los Angeles” (1980) inserisce nei propri pezzi elementi di rockabilly e country, cura con attenzione le armonie vocali, si occupa nei pezzi di tematiche sociali e populiste.
A fargli da contraltare troviamo gruppi come i Dickies di “Dawn of the Dickies”, (1979) e i Weirdos di “We Got the Neutron Bomb” (1978), gruppi che riprendono ed esaltano il lato più demenziale della musica dei Ramones, ereditandone largamente anche i suoni e creando la figura del punk-pagliaccio che tenderà a diventare una specie di luogo comune nell’hardcore degli anni a venire, (basti pensare a gruppi come Nofx,Blink 182 e Sum 41).
Se in California a fine anni ’70 si pongono i semi per quella che sarà ben presto una delle più floride scene hardcore, in Australia nel 1977 si verifica una strana coincidenza: due gruppi, peraltro estranei alla scena punk, come i Saints di “I’m Stranded” e i Radio Birdman di “Radios Appear” riprendono e rendono omaggio alla musica di Stooges ed MC5. Se i legami con la scena punk sono molto labili e legati principalmente ad un’estetica sonora ruvida e aggressiva, questi dischi sono l’ennesimo prova di quanto la musica di quei due gruppi di i Detroit sia stata fondamentale per la rinascita del rock di fine ’70.

31 – La New Wave americana 

Il termine new wave viene usato dalla letteratura musicale coi significati più svariati: per alcuni ad indicare tutto quello che segue all’esplosione punk, per altri a circoscrivere la controparte più intellettuale del fenomeno post-punk, per altri ancora comprenderebbe l’intero fenomeno cominciato a New York nel 1975, punk, post-punk, goth e compagnia ne sono sottocategorie: ognuna di queste convenzioni ha i suoi pro e i suoi contro e tale confusione è solo un’ulteriore segnale della quantità di stili e innovazioni che si innestano nel suono del rock a cavallo tra i due decenni.
Noi ci teniamo l’ultima definizione, ma fissiamo le nostre regole, ennesima forzatura nel gioco delle scene e delle discendenze: consideriamo cioè la new wave un fenomeno parallelo al punk, che trova le sue principali radici ed influenze musicali negli esperimenti dei Velvet Underground e nel rock progressivo tedesco e che comincia a mostrare i primi segni di vita nella New York di Television e Patti Smith, per poi trovare terreno fertile in altre regioni Americane (da Akron alla California) e Inglesi influenzando, in modo più o meno diretto sia gli esperimenti del post-punk sia le traiettorie pop di gruppi come XTC e Japan.
La New Wave, proseguendo con la forzatura ed inglobando un’altra delle definizioni iniziali, potrebbe allora essere vista come l’altra faccia della medaglia del punk, esprimendone l’aspetto più intellettuale: se Ramones e Sex Pistols danno sfogo alla propria angoscia in modo materiale, iniettando adrenalina nelle sonorità del rock’n’roll, musica della rabbia giovanile per eccellenza, gruppi come Suicide e Devo lavorano più di fino, esorcizzando le proprie psicosi in un gioco catartico, rivivendo le tragedie raccontate (i Suicide di “Frankie Teardrop”) o impersonando l’uomo devoluto e lobotomizzato che tanto li inquieta (i Devo).
E mai come in questo periodo il mezzo attraverso cui realizzare tale scopo è libero: libertà creativa e sperimentazione musicale sono l’unico vero denominatore comune di questi gruppi che variano dal cacofonico (Contortions) al sinfonico (Xtc), dal surreale (Pere Ubu) al gotico (Virgin Prunes), dall’elettronico (Suicide) al rockabilly (Cramps).
La cosa più sconvolgente è che tutto questo avviene nel giro di un paio d’anni, mentre ne serviranno più di 20 perché tutti quegli spunti musicali siano ripresi e portati avanti. Di fronte a questo subbuglio stilistico (e non solo) è necessario procedere con ordine, partendo proprio dalla città in cui il fenomeno prende vita: New York, da sempre fucina inesauribile di idee musicali (e non solo).
Se il primo atto della nuova ondata di sperimentazioni è, come si è già detto, “Marquee Moon” dei Television, del 1977, dello stesso anno è l’esordio omonimo dei Suicide, rockabilly allucinato su un algido sfondo di tastiere elettroniche che forniscono non solo il sottofondo melodico ma anche la struttura ritmica, mantra ossessivi che sono figli illegittimi delle allucinate atmosfere dei Velvet Underground di “Heroin”, con la viola elettrica di John Cale sostituita dal ronzio allucinato delle tastiere di Martin Rev e il cantato indolente di Lou Reed rimpiazzato dalla voce spettrale di Alan Vega; altra influenza del gruppo sono i pionieristici Silver Apples, che già dieci anni prima avevano cominciato, in pieno boom psichedelico, a trafficare con gli oscillatori dei synth.
Altrettanto radicali i gruppi che popolano Akron, Ohio, città ultra-industrializzata e quindi patria ideale per una scena di gruppi alienati e nevrotici quali Dead Boys, Pere Ubu e Devo.
I primi, nati sulle ceneri dei Rocket From the Tombs, debuttano nel 1977 con “Young Loud & Snotty”: suoni ed atmosfere sono molto vicini al proto-punk delle New York Dolls, tanto da essere spesso inseriti, a torto o a ragione, tra i gruppi della prima ondata punk americana.
Un altro ex dei Rocket, David Thomas, è alla guida dei Pere Ubu, all’esordio nel 1978 con “Modern Dance” disco in cui il rock’n’roll delle origini è solo una tra le tante influenze, accanto alle dissonanze dei Can più rock e ai lamenti del Captain Beefeheart più terreno; quello che ne esce è un suono unico, che fa dell’esordio un disco completamente a sé stante nelle pur variegata costellazione new wave: giudizio che può essere tranquillamente esteso anche a dischi successivi come “Dub Housing”(1978) e “New Picnic Time” (1979).
Se il suono dei Pere Ubu è scuro e gotico, completamente diverso è l’impatto coi Devo: profeti della devoluzione che è destinata a terminare il ciclo evolutivo dell’uomo trasformandolo in una macchina organica priva di personalità ed incapace di pensare, traspongono il concetto in musica con un suono destrutturato e a tratti atonale, che riesce nel miracolo di mettere in un frullatore senso dell’assurdo Zappiano, strumentazione Kraftweriana e abrasività punk ed ottenerne un disco pop come “Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!” (1978), successo sotto il profilo commerciale oltre che sotto quello artistico.
In California, futura patria dell’hardcore, operano invece gruppi come Residents, Chrome e Tuxedomoon: i primi avevano in realtà esordito nel 1974 con il disco “Meet the Residents”, ma è con “Not Available”, del 1978, che il loro collage sonoro impazzito trova la piena maturazione: non c’è definizione per i Residents, né influenze predominanti tale è la varietà di suoni presentati; una sorta di tempesta sonora surreale che, esasperando il gioco cominciato dieci anni prima da Zappa mette insieme exotica e classica, John Cage e primitivismo, Beatles e musica operistica in un collage che pare quasi una ripresa sonora di quella che era stato per le arti visive il Dada.
Altrettanto estremo il suono dei Chrome di “Half Machine Lips Moves” (1978): Iggy Pop imprigionato dentro i sintetizzatori e i suoni del kraut-rock, assemblaggio cacofonico e allucinato di rumori che anticipa il movimento Industriale che sarebbe esploso di lì a poco dalle parti di Sheffield.
Riprendono dal Bowie Berlinese l’intuizione di fondere il sax della tradizione jazz coi sintetizzatori i Tuxedomoon di “Half Mute” (1980), incredibile assemblaggio di punk, classica, avanguardia e jazz che prosegue idealmente il percorso del prog in epoca new wave.
Il sax è anche al centro del suono di James Chance and the Contortions che, con Teenage Jesus, DNA e Mars, sono chiamati a rappresentare il suono della no wave nella celebre compilation del 1978 curata da Brian Eno “No New York”. È un fenomeno che, tra il 1978 e il 1981 anima il Lower East Side di New York, in cui le intuizioni sonore del punk e della new wave sono estremizzate, brutalizzate, portate all’eccesso: il suono della no wave è atonale, cacofonico, dissonante, è il nichilismo umano e sonoro del punk portato al suo limite, in un primitivismo sonoro che apparentemente non ha precedenti se non in fenomeni musicali isolati come Captain Beefheart e Godz.
Il suono distorto e cacofonico della scena sarà ripreso di lì a poco dai Sonic Youth che lo fonderanno col minimalismo dell’ex Theoretical Girls Glenn Branca inventando il noise rock e Buy (1978) dei Contortions verrà annoverato tra i lavori fondamentali del nascituro suono p-funk, mentre alcuni esponenti di quella scena, come la vocalist dei Teenage Jesus Lydia Lunch e il chitarrista dei DNA Arto Lindsay intraprenderanno di lì a poco fortunate carriere soliste.
Fenomeno a parte e successivo nella new wave americana è quello che porta ad una rivisitazione psicotica e orrorifica dei più classici suoni degli anni’50: rockabilly e surf music: le chitarre distorte del surf, lo slapback e la voce riverberata del rockabilly vengono recuperate e imbastardite dai Cramps di “Songs The Lord Taught Us” (1980) inventori del cosiddetto psychobilly; un’atmosfera spettrale e posticcia, che deve tanto ai b-movie americani quanto allo Screamin Jay Hawkins voodoo di “I Put A Spell On You” ed un suono che li avvicina parzialmente ai Gun Club di Fire Of Love (1981): qui però il recupero è più esteso e tocca anche blues e country, in una sorta di roots-rock deformato in chiave punk che ritroviamo anche nel successivo “ Miami” (1982).
Il suono di questi due gruppi sarà d’enorme influenza per tutti quei gruppi che negli anni ’90 torneranno a far rivivere la vena più sordida del rock’n roll, da Jon Spencer ai Deadly Snakes, passando per le Demolition Doll Rods.

32 – Il post punk inglese dal goth rock al post funk

Con il termine post punk ci si riferisce normalmente a gruppi che portano avanti il discorso musicale cominciato dal punk e lo portano in direzioni musicali nuove, andando tendenzialmente ad identificare l’area inglese del fenomeno new wave: è importante capire che se, fin da subito, in America il del punk-rock era solo uno dei tanti frutti sbocciati dall’ondata del 1975-77, con, accanto ai Ramones artisti come Television e Suicide, in Inghilterra i suoni che emergono nel 1977 sono quelli dei Sex Pistols e dei Clash, cioè del punk in senso stretto: solo così si può spiegare e capire il fenomeno della new wave inglese che ha sempre il punk come suono e punto di partenza e che, nonostante la fusione con la lezione musicale di gruppi storici della tradizione inglese come David Bowie e Roxy Music e le sperimentazioni con generi più esotici, come il dub e il kraut rock, mantiene una sua impronta caratteristica che si fa sentire in tutte le sue infinite e tortuose diramazioni.
Il primo disco a poter essere definito post punk è “Pink Flag” dei Wire, del 1977, un disco che introduce nel punk-rock una complessità, un’ironia, ma anche una vena pop fino ad allora sconosciute al fenomeno, rivelandosi influenza imprescindibile per tutta la musica la new wave inglese a venire, arrivando poi ad introdurre i sintetizzatori, apparentemente antitetici al suono del punk inglese, in “Chairs Missing” del 1978 e nel capolavoro, “154”, del 1979.
Altrettanto influente è l’esordio del 1979 dei Fall, “Live At Witch Trials”: il gruppo di Mark E. Smith vanta fin da subito un suono molto più vario rispetto alla stragrande maggioranza dei gruppi punk, caratterizzato da influenze rockabilly e garage, da continui stop and go, quasi una manifestazione inconscia dell’oscillazione tra i due generi: destinato ad infiniti cambi di line-up e virate stilistiche il gruppo resterà un punto di riferimento e d’ispirazione per una grande fetta di rock, inglese e non.
Aldilà dei primati cronologici l’evento che segna simbolicamente il passaggio dal punk al post punk è l’uscita di “Public image”,  nel 1978, disco d’esordio dei Public Image Limited (Pil), punk progressivo che si nutre e frulla le forme musicali e i gruppi più oscuri: dub, musica atonale e rumorismo, Lee Perry, Pere Ubu, Captain Beefeheart e Can; un discorso musicale perfezionato e portato avanti nel capolavoro del 1979 “Metal Box”.
La portata enorme di questi dischi risiede in due fattori, uno musicale e uno simbolico: se da una parte, infatti, la musica orrorifica e cupa dei Pil sarà fondamentale per lo sviluppo del futuro movimento goth rock, d’altra parte bisogna tener conto del fatto che i Pil sono il secondo gruppo di Johnny Rotten, ex vocalist dei Sex Pistols, in quel periodo in causa col suo ex manager McLaren. Il fatto che sia proprio l’inventore del suono e dell’immagine del punk inglese del ’77 ad oltrepassare il suono creato un anno prima con i Pistols, è il suggello del passaggio dal punk al dopo-punk.
I dischi di Wire, Fall e Pil, sono importantissimi perché per primi mostrano una via di crescita per il suono del punk di Sex pistols e compagnia, ma rimangono episodi frammentari, non legati da un filo conduttore che non sia il recupero di sonorità aliene (al suono stesso del punk, ma anche aliene rispetto alla tradizione musicale rock fino a quel punto), ma è con il goth rock che si ha il primo fenomeno musicale unitario del dopo punk.
Caratterizzato da atmosfere orrorifiche e da rituali oscuri, da un suono gelido e cavernoso che in figlio dei Pil più oscuri, dei Velvet Underground più lugubri e dei Roxy Music più decadenti il goth rock viene inaugurato nel 1979 dal singolo di debutto dei Bauhaus “Bela Lugosi’s Dead”. Altrettanto seminali per la scena gotica sono i Joy Division di “Unknown Pleasures” (1979) in cui il leader Ian Curtis incombe con voce Morrisionana su scenari raggelanti attraversati da rumori spettrali ed alieni (che richiamano i passi più oscuri della musica progressiva teutonica) e dalla chitarra Sabbathiana di Bernard Sumner; nel successivo “Closer”, del 1980, il suono del gruppo si evolve ulteriormente e si fa più futuristico quando le tastiere e i synth passano in primo piano, prefigurando il suono del synth pop di cui i New Order, reincarnazione successiva del gruppo in seguito al suicidio di Curtis, saranno tra i principali esponenti.
A quel punto però la nascita del fenomeno è già un fatto compiuto: i primi dischi ad uscire sono “The Scream” di Siouxsie & the Banshees (1978), “Three Imaginary Boys” dei Cure (1979), “In The Flat Field” (1980) dei Bauhaus e l’omonimo debutto del 1980
dei Killing joke. Seguono gli esordi dei Virgin Prunes (“If I die, I die”, del 1982) e dei “Sisters of Mercy” (“First and Last and Always”, del 1985). Il fenomeno attecchisce anche oltreoceano: dei primi anni ’80 sono dischi come “A Minute to Pray a Second to Die” dei Flesh Eaters (1981) e “Only Theatre of Pain”, esordio del 1982 dei “Christian Death”.
Sono dischi che rappresentano i momenti più alti di un fenomeno che raggiunge il suo apice di popolarità nella prima metà degli anni ’80, facendosi peraltro contaminare dalle sonorità sintetiche che gli ex-capiscuola avevano contribuito a creare: la tendenza, tipica degli anni ’80, a dare un ritmo dance a tutto ciò che possa essere cantato è evidente in particolare ascoltando i dischi di un gruppo della seconda generazione come i Sisters Of Mercy, in cui il cantato baritonale ormai divenuto luogo comune del genere si muove sull’incidere marziale di una drum machine sommerso da layer sonori di tastiere.
Il 1985 è l’anno in cui il genere arriva al culmine della popolarità e in cui esce “The Head on the Door” dei Cure, disco con cui il gruppo incomincia a contaminare i propri suoni e a virare verso le sonorità più pop verso cui approderà definitivamente di lì a poco: è solo uno dei primi segni di cedimento di una scena e di un suono che lentamente perde la sua centralità, continuando però a prosperare a livello underground e ad esercitare un’influenza, più o meno diretta, su generi diversissimi tra loro come il dream pop di marca 4AD ed il black metal…
Se il goth è il movimento di massa del post punk c’è un altro filone che comincia a serpeggiare nei primi anni ’80 e che si rivelerà altrettanto influente sui posteri: il p-funk, suono che vive tra le due sponde dell’oceano e coinvolge prima di tutto la solita New York, nello specifico la Grande Mela della no wave e dei Contortions di James Chance che con Buy sono tra i primi ad avvicinarsi alle sonorità del funk.
Da loro discendono i Bush Tetras di “Rituals” (1981), formati dall’ex del gruppo Pat Place, autori un ibrido punk-funk spettrale e raggelante: incidono per la seminale 99 Records, label che produce anche Liquid Liquid ed Esg. Questi ultimi fanno da ponte ideale tra dance e funk e tra Stati Uniti e Regno Unito: i loro pezzi sono regolarmente suonati al Paradise Garage di Larry Levan mentre loro si ritrovano più volte ad aprire i concerti di Pil e A Certain Ratio , rispettivamente pionieri e massimi esponenti del suono p-funk anglosassone.
I primi, col già menzionato “Metal Box”, oltre a segnare simbolicamente il passaggio dal punk al post punk e ispirare il suono spettrale del goth-rock, si rivelano pionieristici per l’inserimento di elementi funk (e disco) nella propria musica. Ma vi sono mille altre declinazioni del suono goth: dal suono avanguardista dei Virgin Prunes a quello più hardcore dei Christian Death, sorta di anello di congiunzione tra Black Flag e Bauhaus, fino ad arrivare a questi ultimi, che oltre ad avere dato il la al movimento nel 1978 ne avevano anche esplorato tutte le possibili sfaccettature.
I secondi sono, con “To Each…” (1981), tra i precursori del movimento: come se Ian Curtis invitasse a suonare con lui nelle caverne la backing band di James Brown e i Can; ancora più seminale, un anno e due dischi dopo, “I’d Like to See You Again”, che nell’ambito dell’eterno gioco di specchi tra le due sponde dell’oceano (ma col p-funk si innesca anche un inedito feedback tra il mondo del punk e la scena dei club) adotta un funk minimale e ballabile.
Altra band centrale per lo sviluppo del suono meticcio punk/funk inglese sono i Gang Of Four: all’esordio nel 1979 con “Entertainment!” costituiranno un’influenza fondamentale non solo per i gruppi del revival p-funk di vent’anni dopo ma anche per il postcore più meticcio (Nation Of Ulysses) e per il crossover metal-funk dei Rage Against the Machine.
A loro volta i Gang of Four sono fortemente influenzati dagli americani Talking Heads: il gruppo di David Byrne era stato il primo ad introdurre elementi ritmici funk nella propria musica fin dall’esordio del 1977 “Talking Heads: 77” rivelando allo stesso tempo una tale ricchezza di suoni ed influenze da rendere forzato e riduttivo un inquadramento nel gruppo nel fenomeno p-funk: più appropriato parlare di art rock, che frulla James Brown, Pere Ubu e Fela Kuti, tanto per citarne alcuni; non si può però fare a meno di notare come “Remain in Light”(1980) incarni meglio di ogni altro il suono del non-movimento.
Il funk è solo un ingrediente di una miscela musicale ricchissima anche in “T”, esordio del 1979 del Pop Group, che infonde a profusione anche jazz, classica e dub, a metà strada tra spirito progressivo e urlo primitivista: il gruppo proviene da Bristol, futura patria del trip-hop a inizio anni ’90 e rappresenta uno degli esperimenti più arditi ed ostici di un calderone musicale vastissimo che saprà anche produrre gioielli di accessibilità pop. Lo vedremo tra poco…

33 – Dalla New Wave al Pop

Non esistono date precise per indicare il momento in cui dal suono del punk (o del post punk) i gruppi new wave inglesi cominciano a virare verso il pop, semplicemente perché diversi sono i percorsi individuali da caso a caso: c’è chi, come Elvis Costello, parte dallo stesso pub-rock in cui si era fatto le ossa Joe Strummer e chi, come i Cure, ci arriva dopo un lungo percorso sui solchi del post punk ( in questo caso del goth rock), mentre in altri casi ancora è il cambio di organico a segnare la svolta, come per gli ex-Joy Division che, ricostituitisi sotto la sigla New Order contribuiscono ad inventare il synth pop.
Ovviamente, trattandosi di un fenomeno vastissimo infinite sono le varianti di un esperimento che, all’osso, consiste in una rielaborazione di suono più o meno classici della musica inglese attraverso il filtro dell’esperienza musicale del punk e post-punk, un’influenza sfuggente ma ineluttabile, che può essere ritrovata in mille piccoli dettagli, dal modo di cantare al missaggio dei suoni.
Ma c’è anche un’altra novità, un altro ingrediente sonoro: il punk era stato comunque un fenomeno che aveva scosso e stava ancora scuotendo lo scenario musicale; tra le tante rivoluzioni, piccole e grandi che innesca ce n’è una fondamentale: l’aver portato in superficie i suoni di gruppi e suoni tradizionalmente relegati al ruolo di fenomeno di culto, dai Velvet Underground al progressive tedesco;non solo: come già detto in precedenza, la tabula rasa operata dal punk lascia il campo aperto ad ogni genere di sperimentazione.
Il fenomeno più importante è probabilmente quello che vede i New Order rompere un tabù decennale fondendo rock e dance, affiancandosi idealmente agli esperimenti col funk e la disco del contemporaneo movimento p-funk, che però agisce a livello underground: nella visione dell’epoca dance e rock sono il diavolo e l’acqua santa, ancor di più dopo la sbornia del boom della disco, quando le stazioni radio rock promuovono la campagna “disco sucks!” istigando i propri ascoltatori a bruciare i propri dischi dance; il sentimento è reciproco.
Gli ex-Joy Division vengono introdotti ai suoni elettronici dai produttori John Robie e Arthur Baker che conducono nei club dance gay di New York gli ignari membri del quartetto: il frutto di questa scoperta (musicale!) può essere ascoltato nel 1981 nel singolo “Everything Got’s Green” che testimonia da una parte l’allontanamento definitivo dal suono dei Joy Division, dall’altra l’avvicinamento al suono del dance pop e del synth pop; la metamorfosi trova pieno compimento nel secondo disco a firma New Order, “Power, Corruption & Lies” (1983), che contiene quella “Blue Monday” considerata da molti il pezzo dance più importante della storia.
Per la prima volta il mondo della dance e quello del rock si avvicinano: il rapporto si rivelerà felice e duraturo, come il fenomeno di Madchester di fine anni’80 e lo scalcinato breakbeat in salsa rock che prenderà il nome di Big Beat stanno a testimoniare.
Altrettanto influenti per il suono del synth pop gli Ultravox di “Systems of Romance” (1978) che da subito ripudiano le chitarre e l’aggressività del punk per abbracciare il suono dei sintetizzatori ed un suono iper-melodico che si rivela seminale per il movimento New Romantic di Duran Duran e compagnia, almeno quanto “Gentlemen Take Polaroids” dei Japan (1980): entrambi i gruppi si ispirano pesantemente alle atmosfere languide e sofisticate dei Roxy Music, gruppo che sarà un’influenza fondamentale per tutto il movimento.
Se il fenomeno del synth pop nasce e si sviluppa prevalentemente in Inghilterra, vi è più in generale una rinascita del pop-rock che coinvolge entrambe le sponde dell’Atlantico. Dal Regno Unito provengono, tra gli altri, Adam & The Ants, Elvis Costello ed Xtc: i primi esordiscono nel 1979 con “Dirk Wears White Sox” con un suono che è la perfetta via di mezzo tra il glam dei T. rex ed il punk, ma è col successivo “Kings of the Wild Frontier” (1980) che trova definitivamente il proprio suono: in pezzi come la title-track e Antmusic il post-punk scopre un’irresistibile e contagiosa vena pop.
Esordiscono con un suono punk in piena regola gli XTC di “White Music” (1978), ma già nel successivo “Drums and Wires” (1979) si delinea quel suono, figlio della migliore tradizione pop, che consegnerà il gruppo alla storia riprendendo il discorso interrotto ormai da più di un decennio da Beatles e Beach Boys e aggiornandolo all’era della new wave. Con Andy Partridge e Colin Moulding rivive il vecchio luogo comune della rivalità tra songwriters (da quella storica tra Lennon e McCartney a quella tra Alex Chilton e Chris Bell): se Partridge è il più dotato della coppia è però opera di Moulding quella “Making Plans for Nigel” che da molti verrà ricordata come capolavoro assoluto del gruppo.
A riportare sulla mappa del rock la tradizione melodica Beatlesiana contribuisce anche Elvis Costello con “My Aim Is True”(1977), fondendola, però, con uno spirito critico che dall’ironia passa rapidamente al sarcasmo e con un suono ancora legato al pub rock da cui Costello proviene e che comporta forti accenti folk e rock’n’roll; nel successivo “This Year’s Model“ (1978) il passaggio da pub rocker a songwriter di razza si completa e Costello si rivela definitivamente come uno dei migliori cantautori della sua generazione. A produrre c’è Nick Lowe, anch’esso fautore del ritorno alla canzone da tre minuti sia nelle vesti di cantante (solista o con i Brinsley Schwarz), sia, appunto, in quelle di produttore: oltre ai primi dischi di Costello (e dei Damned), nel 1980 Lowe produce anche l’esordio omonimo dei Pretenders.
Anche il gruppo di Chrissie Hynde aggiorna la tradizione inglese all’era del post post-punk, anche se qui i gruppi di riferimento sono principalmente Stones e Kinks; il gruppo inoltre va ad ingrossare le fila dei gruppi new wave guidati da leader donna: se oggi la cosa può apparire del tutto normale, bisogna tenere a mente che,  tradizionalmente, aldilà delle cantautrici, dei girls group e di alcuni casi eccezionali (uno su tutti Janis Joplin) il ruolo della rockstar non era mai stato molto frequentato dal mondo femminile.
L’inversione di tendenza coinvolge le due sponde dell’oceano e negli U.S.A. esplodono i Blondie, uno dei gruppi di maggior successo della primissima new wave; il debutto per il gruppo di Deborah Harry arriva con un disco omonimo nel 1976 e fin da subito si svelano quelle che rimarranno le coordinate stilistiche del gruppo: un suono che media la tradizione pop dei girl groups di Phil Spector con il glam di T. rex e Bowie. I suoni si fanno ancora più accattivanti nel terzo disco Parallel Lines (1978), facendo dei Blondie ma soprattutto dello stile vocale di Deborah Harry un’influenza fondamentale per i gruppi, non solo femminili, a venire: dai gruppi femminili del Brit Pop (come Elastica ed Echobelly) fino ad arrivare al garage-rock revival delle Yeah Yeah Yeahs.
Successo commerciale eclatante anche per i Cars di Ric Ocasek, al debutto (omonimo) nel 1978 che, trovandosi di fronte al bivio musicale che si presentava a tutti i gruppi dell’epoca, che comportava una scelta tra hard rock e suono new wave, decidono di passare dritti in mezzo e fondere i due stili creando un suono che presenta molti punti di contatto col power pop dell’epoca (filone in cui i Cars sono peraltro stati inseriti varie volte).
Un fenomeno prettamente inglese e a parte nell’ambito della new wave è l’ondata dello ska revival che nel 1979 viene lanciata dall’esordio omonimo degli Specials: il disco per la 2 Tone, seminale etichetta personale del gruppo con cui si identifica spesso il suono di questa seconda ondata inglese dello ska: seconda perché nei tardi anni ’60, sull’onda del successo di “The Israelites” di Desmond Dekker il genere aveva già vissuto un breve momento di popolarità. Il suono di Dekker e degli altri pionieri del genere viene aggiornato dagli Specials all’era new wave e rimane di moda fino ai primi anni ’80: a diffonderne i suoni contribuiscono tra gli altri Selecter (pubblicati anch’essi dalla 2 Tone), English (Beat) e Madness, questi ultimi secondi in popolarità ai soli Specials.
Se la moda è destinata a durare pochi anni le conseguenze di questo avvicinamento del punk alla musica Giamaicana avranno enormi conseguenze: il suono dei gruppi inglesi ska costituirà un’influenza fortissima per molti gruppi brit-pop (primi fra tutti i Blur), mentre la battuta in levare vivrà un’ennesima stagione di fuoco e metà anni ’90 grazie all’esplodere in America dello ska-core, portato avanti da gruppi come Rancid, Sublime e Mighty Mighty Bosstones che su questa commistione costruiranno le proprie fortune musicali.
Lo ska non è l’unico suono giamaicano con cui i gruppi new wave sperimentano: se da una parte, come visto in precedenza, capostipiti della scena punk come Clash e Johnny Rotten (con i Pil) avevano introdotto con successo suoni dub e reggae nei loro dischi, l’esperimento diviene fenomeno da classifica con UB40 e Police. I primi, che proseguono la tradizione dei gruppi multirazziali cominciata proprio con gli Specials, ne riprendono anche le tematiche sociali e politiche: se per certi versi il debutto del 1980 “Signing Off” segna il passaggio di testimone tra la scena ska della 2 tone e il pop-reggae che il gruppo contribuisce ad inventare, è con “Labour of Love”, del 1983, che il gruppo raggiunge il suo capolavoro.
Convincono invece soprattutto nei primi dischi i Police, all’esordio nel 1978 con “Outlandos d’Amour”, incredibile miscela di reggae e punk che ritroviamo anche in “Reggatta de Blanc” (1979) e “Zenyatta Mondata” (1980), dove è sempre più marcato quello sbilanciamento sempre più marcato in direzione del pop, che sarà confermato nei dischi successivi e ancor di più nella carriera solista del leader Sting.
Il fenomeno del punk-reggae è l’ultimo dei grandi esperimenti di un genere che partito con un ritorno al rock’n’roll più naif e allo spirito più primitivista aveva finito in realtà per preparare il campo per fusioni ed incroci musicali che nemmeno il progressive più coraggioso aveva mai osato tentare: è dai figli bastardi di queste fusioni col funk e con la disco, con lo ska e col reggae , col prog tedesco e il pop e il glam inglesi, che si genererà quella miriadi di generi e sottogeneri che faranno del decennio successivi un puzzle musicale frammentario: evoluzioni e prosecuzioni di un discorso cominciato a New York nella seconda metà degli anni’70…

34 – Rock e avanguardia: l’industrial e il noise rock

Se già in passato il rock aveva incrociato le sue strade con la musica d’avanguardia, dal connubio tra Warhol e i Velvet Underground alle sperimentazioni sonore del cosiddetto kraut rock, in un lento processo d’avvicinamento tra i due mondi, è logico che questo connubio trovi il suo coronamento in ambito new wave se si tiene conto della “sovversiva propensione” di tale fenomeno a tenere aperte le porte ad ogni forma di fusione ed incrocio, tanto più se l’elemento musicale da integrare si rivela estraneo alle tradizioni del rock.
Il termine industrial viene per la prima volta utilizzato dal compositore d’avanguardia Monte Cazazza, artista che aveva cominciato le sue sperimentazioni sonore nei primi anni’70 sviluppando il concetto di musica concreta nato con le sperimentazioni sonore di Pierre Schaeffer di fine anni ’40, in particolare il celebre “Etude aux Chemins de Fer”, non-musica costruita interamente su registrazioni dei suoni prodotti dai treni che passano, sottoposte a manipolazioni su pitch, ampiezza e durata: un’intuizione geniale che aveva suscitato lo sconcerto del pubblico radiofonico, ma anche l’ammirazione di gente come Pierre Henry e Luc Ferrari, che si era unita al suo staff di ricerca.
Il lavoro di questi pionieri si rivela fondamentale non solo per la scena industriale, le cui suite vivono di rumori elettronici ispirati dagli stridori, i sibili e i tonfi delle macchine, ma anche per le tecniche dj-istiche di sampling (campionamento), che proprio sul principio del campione trovato, modulato e suonato si fondano.
I capiscuola del rock industriale (e della scena-madre di Sheffield che comprende anche Cabaret Voltaire e Clock DVA) sono comunque i Throbbing Gristle di “Second Annual Report” (1977): uno stridente tappeto sonoro di sintetizzatori è attraversato da campioni di voci che scorrono al contrario, risate distorte, urla raggelanti e altri campioni trovati, i Can e i Faust più oscuri o le sperimentazioni dei pionieri Silver Apples come unico, possibile riferimento. Musica astratta e nata da improvvisazioni che ricordano da vicino le sperimentazioni di John Cage con le onde radio e che rivive nel successivo “D.o.a.” (1978) per poi trovare nel 1979 una sua forma dance con “20 Jazz Funk Greats”, uno degli album fondanti del suono synth-pop.
I Silver Apples risultano un’influenza fondamentale anche per i Cabaret Voltaire, gruppo che, esattamente come i Throbbing Gristle, parte da una forma astratta e nebulosa di industriale per poi approdare, nei dischi successivi, ad una struttura più tangibile materializzata dal pulsare ritmico ossessivo della dance; in realtà le avvisaglie di questa mutazione sono già nel secondo pezzo dell’esordio, “Mix-up” (1978), dall’incidere marziale e ossessivo: il disco è comunque nel complesso un altro collage sonoro stridente di suoni trovati, che spesso si trasforma in mantra psichedelico, lo spazio dei Pink Floyd più dilatati rimpiazzato da uno scenario apocalittico e oscuro; le stesse atmosfere che si ritrovano, l’elemento ritmico solo più accentuato, nel successivo “The Voice of America” (1980) e in “Red Mecca” (1981).
Ispirati da Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire i Clock Dva che chiudono la triade storica di Sheffield: se il primo disco, “White Souls in Black Suits” (1980) introduce il sax in un magma sonoro che riecheggia quello dei capiscuola del fenomeno, nel terzo disco, “Advantage” (1983), il suono si fa più personale fondendo le sonorità industrial con atmosfere decadenti che riprendono e filtrano quelle di Roxy Music e Velvet Underground (di cui peraltro coverizzano “Black Angels Death Song”).
Se i primi passi verso le musica concreta erano stati mossi in Germania nei tardi anni ’60 da gruppi quali Can e Faust, non può stupire che qui la musica industriale viva, attraverso i dischi degli Einstürzende Neubauten, una tappa fondamentale del suo sviluppo: se il suono dei gruppi di Sheffield è un collage sonoro indefinito ed indefinibile di suoni raggelanti e spesso irriconoscibili, dotati spesso di una natura apparentemente aliena, nell’esordio del 1981 dei Neubauten, “Kollaps”, il ritmo è fornito dai metallici tonfi delle fabbriche, la voce di Blixa Bargeld recita minacciosa nei momenti di quiete ed esplode in un urlo quando il tonfo meccanico e il rumore bianco delle chitarre hanno il sopravvento, mostro cacofonico che verrà ripreso e plasmato da un Trent Reznor in procinto di diventare star dell’industrial metal, una decina d’anni dopo.
Prima della fusione col metal dei tardi anni ’80, l’evoluzione dell’industriale passa attraverso un’altra metamorfosi, in senso dance, riscontrabile nella discografia dei gruppi di Sheffield ma soprattutto nel movimento dell’Electronic Body Music (EBM) di metà anni’80 che vede in Skinny Puppy, Front 242, e Nitzer Ebb i suoi principali esponenti. Un suono che utilizza i suoni concreti delle fabbriche in chiave ritmica, esasperando le intuizioni dei Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire più maturi: il risultato è una versione marziale ed oscura dell’electro (che cominciava a muovere i primi passi in questo periodo), in cui lo spirito nero del funk è in gran parte rimpiazzato da un’oscura anima gotica.
Se il suono industriale era destinato a trovare un seguito nelle evoluzioni della dance e del metal, ancora più importanti saranno, per il mondo dell’indie rock, le conseguenze dell’”invenzione” del noise rock: dove l’industriale sviluppa gli studi sulla musica concreta di Schaeffer ed Henry e le sperimentazioni con la musica aleatoria di Cage, il noise-rock fonde, il minimalismo di La Monte Young, Terry Riley e Steve Reich con il rumorismo più acuto di Stooges e Velvet Underground. L’invenzione del genere è normalmente attribuita ad un gruppo di New York, i Sonic Youth, figli dell’attitudine più sperimentale del post punk, dalla no wave alle sperimentazioni minimaliste di Glenn Branca: fenomeni musicali da cui Thurston Moore e compagni discendono direttamente.
L’esordio del 1983, “Confusion is Sex”, è un susseguirsi di psicodrammi sonori, in cui algidi mantra minimali sono spezzati dal rumore bianco del feedback della chitarra, dal cantato spastico di Moore (reminiscente della no wave) e dalle litanie di Kim Gordon: la line-up è quella classica del rock ma i suoni che ne escono delineano scenari sonori completamente nuovi; il suono del gruppo si delinea ulteriormente in “Enon” (1986), disco che vede per la prima volta Steve Shelley alla batteria; con “Sister” (1987) e “Daydream Nation” (1988), i due capolavori del gruppo, il passaggio è completo e il gruppo trova il suo equilibrio: le composizioni astratte dell’inizio si sono trasformate in canzoni vere e proprie, le dissonanze e i feedback sono solo alcuni degli elementi costituivi di due dischi che segnano uno degli atti di nascita dell’indie rock.
Quei sibili entreranno nel dna del rock e caratterizzeranno i suoni dei gruppi più disparati: dal noise pop dei Dinosaur Jr e dei Jesus & Mary Chain, al garage-blues primitivo di Pussy Galore e Royal Trux, fino ad arrivare alle esplosioni di rumore chitarristico dei gruppi post-rock, che dai Sonic Youth erediteranno anche l’amore per le melodie minimali, per i mantra circolari e per l’alternanza tra quiete e caos.
I primi eredi dei Sonic Youth sono comunque i Swans di Michael Gira, anch’essi di New York, che su “Cop” (1984), secondo disco del gruppo, creano un suono scurissimo, fusione distorta e teatrale di noise, heavy metal e industrial, in cui il cantato è un latrato a metà tra Captain Beefheart e Nick Cave, inferno dantesco trasposto in musica che costituirà un’influenza fondamentale per il futuro grindcore, ennesimo esempio di quella connivenza tra rock e rumore che tenderà a consolidarsi sempre di più nei decenni successivi…

35 – Synth pop, New Romantics e Dance Pop

Già dalla fine degli anni ‘70 emerge tutta una serie di gruppi, come Ultravox e New Order, che mostrano da una parte una certa fascinazione per il glam di Bowie e dei tardi Roxy Music, dall’altra una certa attitudine a sostituire o affiancare alle chitarre i sintetizzatori: è una svolta segna la nascita del synth pop e che ha tra le prime (e più appariscenti) conseguenze l’affermazione del duo cantante-tastierista come line-up per antonomasia, la tastiera elettronica a fornire integralmente il sottofondo sonoro richiesto, dalla struttura ritmica alle parti melodiche, creando quel suono sintetico e meccanico che da allora si associa agli anni’80 (tra le coppie più celebri Orchestral Manoeuvres In The Dark, Soft Cell, Eurythmics, Yazoo e Pet Shop Boys).
Se il suono di un disco come “Solid State Survivors” (1979) della Yellow Magic Orchestra di Ryuichi Sakamoto ha ancora un intento pionieristico e i primi dischi di New Order e Gary Numan vivono in parte nel solco della new wave, ben presto il fenomeno stacca definitivamente gli ormeggi dal punk per virare verso un pop leggero e danzereccio: quello degli Erasure, degli Human League di “Don’t You Want me”, degli Orchestral Manoeuvres In The Dark di “Enola Gay”.
Tuttavia una vena scura, retaggio delle origini goth (ma anche di quelle glam) di parte di questi gruppi continua comunque a convivere con la faccia più solare del movimento: dagli Eurythmics ai Soft Cell, dai New Order ai Pet Shop Boys c’è un perenne senso di inquietudine e di oppressione a permeare questi pezzi.
Questi ultimi due gruppi in particolare sono anche tra i principali esponenti di quel dance pop che vede sfasarsi e confondersi i confini tra la dance e il pop-rock, cosa che avviene in contemporanea anche per il soul con la nascita del fenomeno urban, nei dischi di Michael Jackson e Grace Jones, la matrice sonora del philly soul persa in un tappeto sonoro iperprodotto e ballabile. Se è difficile comunque parlare di dance pop come di un genere vero o e proprio , in quanto fenomeno musicale non legato ad un suono in particolare quanto piuttosto ad un particolare connubio, più facile è indicare i dischi che segnano i momenti più alti del non-genere, da “Nightclubbing”
di Grace Jones (1981) a “Welcome to the Plasuredome” dei Frankie Goes To Hollywood” (1984), da “Power, Corruption & Lies” dei New Order (1983) a “Cupid & Psiche” degli Scritti Politti (1985) fino ad arrivare al debutto omonimo di Madonna del 1983.
E proprio seguendo il percorso discografico di quest’artista si può capire meglio le dinamiche con cui si evolverà negli anni (e decenni) successivi il dance pop, in particolare i fortissimi legami con la figura del produttore (tradizione nata con i primi fenomeni di musica da ballo, dallo ska alla disco) e con le sonorità più à la page.
Prendiamo Madonna: partita nel 1983 con un disco prodotto da Jellybean, già remixer per conto di Africa Bambaata e guru del suono post-disco, nel successivo “Like A Virgin”(1984) si fa produrre da Nile Rodgers (ex inventore del suono disco coi Chic), seguono: Shep Pettibone, già produttore di Pet Shop Boys e New Order, il dj garage-houseJunior Vasquez, l’inventore del trip-hop Neelee Hopper, il produttore ambient William Orbit ed il pioniere del french touch Mirwais: una trafila che simbolicamente potrebbe essere chiamata a rappresentare alcuni dei principali stili e tendenze degli anni seguenti, connessa a filo doppio con alcune del, e principali svolte della musica elettronica, svolte che si vedranno più in là…
C’è però un altro importante fenomeno associato al synth pop ed è quello dei new romantics: Duran Duran, Spandau Ballet, Abc, Depeche Mode e Talk Talk sono i principali protagonisti del fenomeno, che esaspera le componenti estetiche e musicali del glam già riprese dal synth pop e allo stesso tempo aggiorna agli anni ’80 il fenomeno teen pop dei tardi ’50: le luci dei riflettori questa volta sono puntate su idoli bellocci che si crogiolano nelle atmosfere morbose del post-punk inglese, con l’esistenzialismo di quegli anni trasformato in puro glamour, perfetta rappresentazione dell’edonismo anni ’80 che trova il suo apice nel 1982 in dischi come “Rio” dei Duran Duran, “The Lexicon of Love” degli Abc e “A Broken Frame” dei Depeche Mode.
Il periodo d’oro dei nuovi romantici tende a spegnersi a metà anni ’80: se l’industria commerciale troverà presto nuovi idoli da dare in pasto alle ragazzine, dai New Kids On The Block ai Take That, dai Backstreet Boys ai Blue, molti dei protagonisti del movimento originale verranno rivalutati dai posteri, come i Duran Duran, che si riveleranno influenza fondamentale per artisti insospettabili come Deftones e Dandy Warhols; d’altra parte alcuni protagonisti dell’ondata new romantic, come Depeche Mode e Talk Talk, riusciranno a rivitalizzare drasticamente il proprio suono quando il movimento viveva il suo canto del cigno: se nei primi non si assiste ad una svolta quanto piuttosto ad un’evoluzione del suono che li porterà, alle soglie del nuovo millennio a raccogliere ampi consensi presso il pubblico della musica elettronica con “Exciter” (2001), i Talk Talk nel 1988 con “Spirit Of Eden” forgeranno un suono mesmerico e spettrale, con le sue traiettorie musicali geometriche ed astratte, anticiperà di anni il cosiddetto post-rock, fenomeno musicalmente (ed ideologicamente) antitetico rispetto alle svisate romantiche di questi anni…

36 – L’hardcore

Sono due le direzioni che il suono rudimentale del punk-rock del ’76-77 può intraprendere nel periodo immediatamente successivo: arricchirsi e farsi contaminare da nuove sonorità ed influenze oppure esasperare al limite le sue caratteristiche stilistiche distintive. Succedono entrambe le cose: la prima strada porta al post-punk, la seconda all’hardcore.
Se il post punk si caratterizza per la varietà delle influenze e l’apertura ad ogni genere e stile universalmente noto, l’hardcore, fenomeno quasi esclusivamente Americano, estremizza gli elementi di rottura musicale del punk, in particolare la velocità d’esecuzione e l’abrasività del suono, creando spesso (come nel caso dell’hard core di Washington) muraglie di suono al limite dell’intelligibile.
Chiaramente si sta generalizzando: sull’onda dei primi gruppi Californiani, come Dead Kennedys e Black Flag, nascono decine di scene diversissimi tra loro, con un suono che varia di città in città e che va dalle contaminazioni col metal dei Suicidal Tendencies agli spunti melodici dei Bad Religion passando per gruppi hardcore che puntano verso l’alternative come Meat Puppets e Husker Du: nei primissimi anni’80, il suono e gruppi hardcore si diffondono a macchia d’olio creando un mosaico apparentemente insolubile che può essere decifrato solo procedendo per piccoli passi ed utilizzando le diverse scene geografiche come principale punto di riferimento.
Prima di tutto è necessario puntualizzare che, come si accennava, l’hardcore è un fenomeno principalmente americano: in Inghilterra il fenomeno è di breve durata, legato principalmente a due gruppi come Discharge e G.b.h. che per qualche tempo riescono a dominare le classifiche indipendenti per posi spostarsi in seguito in area metal (e con essi i vari gruppi nati sulla loro scia), segnando per molti versi le sorti di una scena che rimarrà sempre minore.
Ben diverso è il discorso che riguarda gli U.S.A., in particolare la California, dove il fenomeno ha origine, con dischi come “Fresh Fruit” for Rotting Vegetables” (1980) dei Black Kennedys, “Group Sex” dei Circle Jerks (1980) e “Damaged” dei Black Flag (1981).
I Dead Kennedys di Jello Biafra sono tra i primi ad indirizzare il nichilismo e la rabbia del punk verso obiettivi concreti reali, muovendosi su quel piano di denuncia sociale che era stato inaugurato dai Clash: nell’esordio, un suono già maturo per la definizione hardcore si pone al servizio di testi caustici che riprendono la tradizione dei Fugs, tra una denuncia del regime di Pol Pot (“Holiday in Cambodia”) ed una staffilata al governatore della California (“California Uber Alles”), proseguendo l’opera con una manciata di dischi memorabili sotto la sigla del gruppo ed una lunga serie di uscite per l’etichetta personale di Biafra, la storica Alternative Tentacles, da subito realtà indipendente importantissima per il punk (e non solo).
Ancora più importante per lo sviluppo dell’hardcore e in più generale del rock alternativo sarà la SST, etichetta dei due Black Flag Greg Ginn e Chuck Duwoski per cui usciranno, tra gli altri, Minutemen, Husker Du e Meat Puppets e, ovviamente, “Damaged”, esordio del gruppo, disco che definisce il lato più abrasivo del suono hardcore, quello che confina col metal e che condurrà di lì a poco a numerosi crossover tra i generi.
Nei Black Flag aveva anche militato Keith Morris prima di entrare nei Circe Jerks, gruppo che chiude le triade storica dell’hardcore Californiano, ponte, con “Group Sex” verso l’hardcore melodico, stile che nasce proprio in quell’area e in cui l’abrasività degli inizi viene parzialmente mitigata in favore di spunti ed evoluzioni melodiche più vicine alla forma-canzone: non è un caso che tra i Jerks suoni Greg Hetson, futuro chitarrista dei Bad Religion. Infatti è proprio con l’ingresso di Hetson nel gruppo, e con dischi epocali per il genere come “Suffer”(1988), “No Control” (1989) e “Against The Grane” (1990), che quel suono verrà consacrato.
Lo stesso suono verrà portato nelle classifiche americane nell’esplosione del genere che prenderà di sorpresa tutti a metà anni ’90: tra le principali protagoniste del fenomeno un’etichetta, la Epitaph, di proprietà Brett Gurewitz, anch’esso, tanto per chiudere il cerchio, chitarrista dei Bad Religion.
Accanto all’hardcore melodico sulle coste californiane c’è comunque posto per ogni forma di sperimentazione ed incrocio: se sotto il profilo stilistico la fusione tra hardcore e metal è ovvia sotto il profilo ideologico l’accostamento non piace ai punk dell’epoca tanto che la fusione azzardata dai Suicidal Tendencies nell’esordio omonimo del 1983 gli procura il titolo di “peggior gruppo dell’anno” sulla storica fanzine hardcore Flipside: eppure l’incrocio hardcore-trash farà proseliti tanto che tracce più o meno marcate di quella fusione riemergeranno più tardi nei dischi di gruppi come D.r.i., Agnostic Front e Cro-mags.
Meno controversa e contestata la fusione con l’immaginario (più che con lo stile musicale) goth attuata dai T.s.o.l. (acronimo per True Sounds of Liberty) di “Dance With Me” (1981), senza barriere stilistiche l’hardcore fratturato e contaminassimo dei Minutemen di “The Punch Line”(1981): il nome del gruppo deriva dalla durata media dei pezzi, che si aggira sempre sul minuto appunto, formato che non impedisce loro di impreziosirli con suoni funk, soul e folk, in un hardcore che della definizione classica mantiene più che altro lo spirito e la furia iconoclasta; il gruppo raggiunge il capolavoro con “Double Nickels On The Dime” nel 1984, un anno prima che il percorso del gruppo si interrompesse bruscamente con la tragica morte di D. Boon , voce e chitarra del gruppo.
L’avventura musicale dei membri superstiti proseguirà comunque sotto la sigla Firehose e la lezione del gruppo sarà un influenza imprescindibile per decine di gruppi, primi fra tutti gli esponenti del cosiddetto postcore, come Fugazi e Nation Of Ulysses, che nei primi anni’90 ne porteranno avanti le spinte progressiste.
Se la California fa da culla ai primi gruppi hardcore e continua a rivestire per tutti gli anni ’80 e oltre un ruolo di riferimento fondamentale nell’evoluzione del genere altrettanto cruciale si rivela fin dagli albori degli anni ’80 la città di Washington D.C., patria di un hardcore tiratissimo ed aspro. Nel folto della scena che si forma da quelle parti due gruppi spiccano sugli altri: Bad Brains e Minor Threat. I primi, rarissimo esempio di hardcore band composta da musicisti di colore, sono pionieristici nel proporre fin dai primi singoli un mix inedito di asperità hardcore, assoli chitarristici di matrice Hendrixiana e aperture verso il reggae e il dub, contaminazione già vista in ambito punk ma mai in un disco hardcore; con la produzione di Ric Ocasek dei Cars il gruppo in “Rock for Light” (1982) mette a fuoco il proprio suono, per poi ammorbidirsi in parte nel successivo “I Against I” (1986).
Meno contaminato ma altrettanto pionieristico il suono dei Minor Threat, gruppo di Ian McKaye che definisce il suono dell’hardcore di Washington, abrasivo ed essenziale, in una breve carriera discografica che dura lo spazio di 2 EP e un album, (“Out Of Step”, del 1984), sufficienti comunque a creare un alone mitico intorno al gruppo, che è anche vitale per la nascita della filosofia straight edge, nata in contrapposizione allo stereotipo secolare che associa al rock la mitizzazione dell’abuso di alcool e droga: non si tratta di un movimento esclusivamente musicale e l’astensione dal consumo di stupefacenti ed alcolici viene messa in pratica dagli stessi membri del gruppo trovando nel tempo migliaia di adepti e creando un precedente unico nella storia del rock (e del punk) McKaye sarà anche fondatore di una delle etichette più importanti per l’evoluzione del suono alternativo americano, la Dischord, nonché futuro leader dei Fugazi, il gruppo trainante di quel suono cui si è già accennato poco fa e che prende il nome di postcore.
Se California e Washington costituiscono i due grandi punti di riferimento del primo hardcore americano il fenomeno tende comunque a coinvolgere, con l’eccezione del Sud che nel suo tradizionalismo non può che essere antitetico allo spirito del punk, le principali città americane, dalla New York dei Misfits alla Chicago dei Big Black di Steve Albini fino ad arrivare al Midwest, dove si consuma uno degli atti più importanti dell’evoluzione dell’hardcore: quella che lo vede crescere rispetto alle premesse stilistiche di partenza ed incamminarsi verso l’alternative rock.
Due sono i gruppi principalmente responsabili di questo cambiamento: Husker Du e Replacements: i primi sono un power trio di Minneapolis guidato da Grant Hart (batteria) e Bob Mould (chitarra) che, nel giro di pochi anni, dall’esordio del 1981 “Land Speed Record” al secondo disco per SST, il capolavoro “Zen Arcade” (1984), vedono il proprio suono passare dall’hardcore più o meno tradizionale degli inizi ad un ibrido senza precedenti nato dall’incontro con psichedelia, pop e folk; il cammino del gruppo comunque non si interrompe qui, andando a svelare ulteriormente la propria vena pop in dischi come “New Day Rising”, del 1985, sempre su SST e “Warehouse”, del 1987, testamento artistico e altro capolavoro del gruppo.
Altrettanto seminali i Replacements di “Hootenanny” (1983) e “Let It Be” (1984): il gruppo di Paul Westerberg, partito dal suono degli Husker Du spinge in una nuova direzione le intuizioni del gruppo di Mould ed Hart creando un suono che vira verso le radici musicali americane, in particolare country e rock’n’roll, filtrando però il tutto con una spiccata attitudine melodica e raggiungendo il culmine in pezzi come “Alex Chilton” e “Left Of The Dial”. Inutile sottolineare che anche questo gruppo si rivelerà seminale grazie ad uno stile destinato a divenire modello di partenza per un numero incalcolabile di gruppi appartenenti alla cosiddetta area alternativa del rock.

37 – Il college rock americano e il pop rock inglese di metà anni ‘80

Definizione sfuggente e fumosa quella di college rock, almeno quanto quella di new wave, fenomeno di cui peraltro è una diretta conseguenza, figlio dello spirito del DIY e della libertà stilistica portata dal terremoto musicale di fine anni ‘70, non-genere che va ad indicare la prima incarnazione dell’indie rock degli anni’80. Come il nome suggerisce si tratta di gruppi che nascono nei pressi di centri universitari (Athens, Boston e un’infinità d’altri), la cui musica, spesso diffusa dalle radio dei college, viene creata e consumata da tutta quella fascia di ragazzi che non si ritrova né nelle soluzioni estreme proposte da metal ed hardcore né nel pop da classifica in voga ai tempi (dal synth pop al dance pop): pop-rock controculturale in cui il contenuto dei testi spesso e volentieri passa in primo piano rispetto all’aspetto musicale, testi che variano dai toni intimistici degli Smiths alla prosa criptica di Michael Stipe dei R.e.m..
Questi ultimi fin dall’esordio del 1983 con “Murmurs”, sintetizzando le armonie vocali Beatlesiane e il jingle-jangle (il suono tintinnante della chitarra) Byrdsiano, la lezione melodica del power pop dei Big Star ed echi country-rock di matrice Parsoniana e filtrando il tutto con una certa oscurità tipica della new wave creano un suono nuovo che annuncia la rinascita del pop-rock americano, il ritorno al rock chitarristico e la nascita dell’alternative rock. Quando, dopo cinque anni, arrivano con “Green” all’esordio su major il suono del gruppo è ormai maturo e la sintesi perfetta: il gruppo raggiunge comunque l’apice artistico in “Out of Time” (1991) e “Automatic for the People”, (1992), capolavori dei R.e.m. più mainstream che vanno necessariamente affiancati al fascinoso debutto di dieci anni prima.
Anche i B52’s hanno uno spirito retrò molto spiccato, andando a pescare ancora più indietro nella tradizione musicale americana con la loro fusione tra girls group, pop vocale, surf e rock’n’roll, animati da uno spirito più iconoclasta che revivalista: tutti gli aspetti più kitsch della cultura ‘50s sono ripresi e sbeffeggiati, mentre la rilettura musicale avviene attraverso dissonanze melodiche vocali e bizzarrie sonore che ricordano da vicino i Talking Heads, fin dall’omonimo, strabiliante esordio del 1979.
Più in generale il revival dei suoni del passato, specie provenienti dai ‘60s, è un fenomeno che non si limita ai due gruppi di Athens: Guided By Voices, Dbs, Smithereens, Posies, Young Fresh Fellows, Minus 5 e Beat Happening sono solo alcuni dei gruppi dell’epoca a riproporne le sonorità.
I Guided By Voices portano alle estreme conseguenze il principio reso popolare dal punk del Do It Yourself e dal 1987 cominciano a confezionare una lista pressoché interminabile di dischi registrati in casa che sono tra gli atti fondanti del cosiddetto lo-fi, termine e non-genere musicale all’insegna della registrazione sporca e casalinga che diverrà di moda a metà anni’90, tanto che “Bee Thousand”, disco del 1994 del gruppo, diviene un piccolo fenomeno di culto: nei dischi del duo formato da Pollard e Sprout si compie un piccolo miracolo, perché se è vero che la qualità dei suoni è pessima e che il missaggio a tratti sfiora i limiti del grottesco, la vena melodica dei due è abbastanza ispirata da far scordare del tutto all’ascoltatore la veste spoglia e amatoriale con cui sono presentate, anzi paradossalmente si finisce con l’amarne la veste trasandata.
Un altro gruppo vitale per lo sviluppo dell’estetica lo-fi sono i Beat Happening, artefici però di un suono molto più vicino al garage, specie nell’esordio omonimo del 1985: fondamentale sarà in particolare la figura di Calvin Johnson, leader della band che, accanto ad un percorso musicale mutante che lo vedrà toccare i generi più diversi, dal twee pop ad un garage-funk deragliante con i Dub Narcotic Sound System, viene ricordato anche per aver portato la città di Olympia sulla mappa musicale e averne fatto, con la fondazione delle K Records, una delle capitali americane dell’indie rock.
Accanto ad Olympia ed Athens un’altra città fondamentale per le sorti della musica alternativa è Boston: da lì provengono Throwing Muses e Blake Babies, due band accomunati dal recupero in chiave post punk dei suoni folk che portano alla ribalta delle cronache musicali alcune importanti protagoniste musicali dell’indie a venire (nel primo gruppo militano Kristin Hersh e Tanya Donelly, futura leader dei Belly, del secondo fa parte Juliana Hatfield.
Le sonorità sono comunque differenti: più oscuro l’esordio omonimo del 1986 delle Throwing Muses, più leggero e solare il pop chitarristico delle Blake Babies, che ricorda da vicino quello dei Lemonheads di Evan Dando, altro gruppo di Boston, che con Juliana Hatfield comincerà presto una fruttuosa serie di collaborazioni.
Se il recupero delle sonorità di Byrds e Big Star di Dbs, Smitheerens e Posies porta spesso ad associare tali gruppi al fenomeno musicale del power pop, sottocorrente musicale minore (ma solo dal punto di vista del successo commerciale) che dagli anni’70 in poi attraversa tutti e tre gli ultimi decenni del ventesimo secolo (e di cui si parla altrove), più eccentrica è la proposta musicali degli Young Fresh Fellows che su “Topsy Turvy” (1985) ripropongono in modo eccentrico le sonorità del garage-rock più pop degli anni ’60 associandogli una vena melodica che riporta alla mente lo stile di un gruppo che il garage l’aveva inventato: i Kinks.
Il leader del gruppo, Scott McCaughey formerà più tardi i Minus 5, all’esordio nel 1994 con “Old Liquidator”: di quel gruppo fanno parte, a chiudere il cerchio e a sottolineare l’invisibile ma tangibile legame musicale che lega questi gruppi, Peter Buck dei R.e.m. e Ken Stringfellow dei Posies.
La riproposizione dei suoni del passato, unico tratto comune nell’ondata di proposte musicali diffuse dalle college radio in questi anni avviene in modo del tutto eccentrico nei dischi di gruppi come Violent Femmes, Camper Van Beethoven e They Might Be Giants.
È del 1983 l’esordio omonimo dei primi: il punto di riferimento è il rock stralunato di Jonathan Richman, fuso però con gli umori e le sonorità della new wave, il risultato è un suono unico e dall’umore variabile, solare, naif, lamentoso o caustico secondo i momenti, una profonda ed irresistibile vena pop a fare da elemento di coesione.
Se Richman è il punto di partenza per le Femmes, così le Femmes sono d’ispirazione ai primi They Might Giants, al debutto (omonimo) nel 1986: alla vena sardonica dei gruppi di cui sopra aggiungono un ecumenismo sonoro che fa suo il gioco della Bonzo Dog Doo Dah Band macinando ogni genere e stile che gli capiti sotto mano, dal Tin Pan Alley ai Beatles, dal surf al vaudeville, dal country al doo-wop, miscelandoli assieme in combinazioni che variano dallo spassoso al raccapricciante.
Al folk surreale dei Violent Femmes e alla vena onnivora dei They Might Be Giants possono essere accostati anche i Camper Van Beethoven, all’esordio nel 1985 con “Telephone Free Landslide Victory”, che fondono con nonchalance folk, ska, country, garage e new wave, completando così una triade di gruppi che sarà d’ispirazione fondamentale per tutti coloro che in futuro ne riprenderanno lo spirito (se non il suono) sardonico, dagli Weezer ai Cake.
Il gruppo-simbolo del college-rock americano restano comunque i R.e.m., avendo aperto ad una fusione tra new wave, power pop e revival degli anni’60 che ne costituisce il filone musicale centrale (aldilà delle infinite variazioni sul tema) e allo stesso tempo avendo vissuto quel percorso commerciale che conduce il college rock dal suo ruolo di musica alternativa per eccellenza all’assorbimento da parte del mainstream nei primi anni ’90, momento in cui il concetto stesso di alternative-rock comincia a sfumare e perdere di significato.
La loro controparte inglese sono gli Smiths di Morrissey, gruppo la cui vena lirica intimista e le cui sonorità agrodolci genereranno fin da subito schiere infinite di imitatori e seguaci, gettando l’ombra della sua influenza su tutto l’indie inglese, nessuno escluso dal twee pop al brit-pop, dai Radiohead ai Libertines: gli Smiths sono il primo gruppo inglese degli anni’80 ad abbandonare i sintetizzatori per tornare al guitar-pop e alla canzone da tre minuti tanto cara agli anni ’60, fin dal debutto omonimo del 1984, fatto che se da un certo punto di vista potrebbe spingere ad un parallelo coi R.e.m. del 1983 risulta ancor più rivoluzionario se si considerano le tendenze musicali inglesi dell’epoca, dominata dal synth-pop, in particolare il fenomeno musicale new romantic.
Fin da subito il suono del gruppo, anche grazie al crooning di Morrissey, è originalissimo e inconfondibile: ancora una volta c’è un recupero di sonorità dei sessanta, con una certa preferenza per i gruppi inglesi e i girls group, il tutto filtrato attraverso le asfittiche atmosfere new wave, un suono che raggiunge la perfezione in “The Queen Is Dead” (1986).
Nel momento stesso in cui il guitar-rock degli Smiths attecchisce, il “nuovo” pop-rock inglese può dirsi sbocciato: James, House of Love Wedding Present e Housemartins sono solo i primi gruppi che ne seguono le traiettorie sonore.
Se i James tenderanno a vivere all’ombra dei loro mentori per poi adattarsi il più possibile alle varie mode che imperverseranno negli anni successivi, dal fenomeno baggy a quello del brit-pop, gli Housemartins modellano in “London 0 Hull 4” (1986) un suono più originale, sorta di fusione tra Morrissey ed Everly Brothers: dallo scioglimento del gruppo nasceranno i Beautiful South, mentre il bassista Norman Cook diventerà uno dei protagonisti del big beat sotto lo pseudonimo di Fatboy Slim).
Debuttano nel 1988 gli House Of Love di Guy Chadwick con un disco omonimo che fa rivivere le melodie Smithsiane e per imprigionarle tra i muri sonori che cominciavano a diffondersi in quegli anni grazie al nascente fenomeno del noise-pop.
Un caso a parte anche i Wedding Present di “George Best” (1987), disco in parte ricollegabile alla scena c-86: l’anno di “The Queen is Dead” vede infatti l’uscita, in allegato alla storica rivista inglese N.m.e., di una cassetta di nome “c-86” , trampolino di lancio per giovani gruppi di belle speranze. Molti di essi rimarranno sconosciuti, ma della partita fanno parte future stelline dell’indie rock come Primal Scream, Pastels e, appunto, Wedding Present.
A livello musicale i gruppi presentati sulla compilation sono legati tra loro da uno stile che riprende il pop-rock melodico degli Smiths e lo riconduce ad un livello elementare, quello degli storici tre accordi dei Ramones: è la nascita di un suono che prenderà vari nomi, da c-86 ad anorak pop, e che confluirà nel cosiddetto twee pop, ad unire per la prima volta gruppi Scozzesi ed Inglesi nella comune ricerca di melodie accattivanti ed immediate.
Ancora una volta è necessario fare un piccolo passo indietro: da sempre alla Scozia si era associata una tradizione melodica molto forte, la stessa che aveva fatto sì che negli anni’60 il folk di Dylan si trasformasse con Donovan in un pop-folk fiabesco: non stupisce quindi che nei primi anni’80 la scena Scozzese, dopo aver respinto l’onda anomala del punk, contrapponesse nei primi anni ’80 al suono della new wave quello, più tradizionalista, di gente come Orange Juice, Josef K ed Aztec Camera, tutti gruppi riuniti sotto l’etichetta storica Postcard.
Sono proprio loro, insieme agli Smiths, i padri putativi della scena twee pop: anche in questo caso c’è un’etichetta-simbolo, la Sarah Records, per cui incideranno, tra gli altri, Field Mice, TalulahGosh ed Heavenly, e che si rivelerà fondamentale per quel suono, che verrà portato avanti in modi e forme diverse da gente come Belle & Sebastian, Gentle Waves e da un’etichetta come la svedese Labrador.
Se il fenomeno twee pop trova terreno fertile nel Regno Unito non mancheranno le eccezioni: da “Jamboree”, del 1988, seconda prova discografica degli americani Beat Happening alle giapponesi Shonen Knife, esempio perfetto di quel suono frizzante e naif, assurte allo status di culto anche in occidente grazie a “712” (1991).
In pochi anni, grazie all’effetto trainante di alcuni gruppi-chiave, come i R.e.m. in America e gli Smiths in Inghilterra, che avevano segnato il ritorno al rock chitarristico con ascendenze ‘60s, ma anche di formazioni che partendo dal punk, come gli Xtc o dall’hardcore, come gli Husker Du, erano stati attratti, pur senza “tradire” le origini, dalle fascinose sirene della melodia pop, si era formato un’incredibile varietà di sotto stili e gruppi, scene musicali ed etichette, che avrebbero costituito l’ossatura dell’indie rock e più in generale della musica alternativa dei decenni a venire.

38 – I revival degli anni ’80 

Se fenomeni degli anni ’80 come synth pop e college-rock guardano parzialmente al passato, recuperando, rispettivamente, sonorità glam e folk-rock, ma filtrando, contaminando e storpiando quel recupero attraverso la lente deformante del fenomeno new wave, quasi contemporaneamente, avviene in altri luoghi e attraverso altri gruppi, un recupero di tradizioni musicali più antiche.
Anche in questo caso però il recupero non può prescindere dagli eventi che hanno segnato il rock nei decenni: nuovi gruppi e suoni sono ormai entrati a far parte del dna musicale americano, dai Velvet Underground a Bob Dylan, dal country-rock alla psichedelia  passando per il Garage, i ’60s sono ormai parte dell’eredità storica del rock americano e quindi anche gruppi che ripropongono le sonorità senza tempo del country o del roots rock non possono che risentire di quelle influenze, più o meno consapevolmente.
L’esempio più indicativo è il fenomeno del cosiddetto Paisley Underground, rivisitazione del jangle pop dei Byrds attraverso il prisma sonoro della psichedelia: è un fenomeno di breve durata, che dura lo spazio di pochi anni, dall’inizio alla prima meta degli anni’80, e coinvolge gruppi come Dream Syndicate, Rain Parade, Green On Red, Three O’Clock e Long Ryders.
Sono i Dream Syndicate ad aprire le danze, con “The Days Of Wine And Roses” (1982): il gruppo è influenzato tanto dai Byrds, quanto dai Velvet Underground (straordinaria la somiglianza del cantato di Steve Wynn con quello di Lou Reed), anticipa R.e.m e Smiths nel ritorno al rock chitarristico, anche se non ne condividerà le fortune artistiche; nel successivo “Medicine Show” (1984) Neil Young diventa l’influenza dominante del gruppo, mentre con “Out of the Grey” (1986) il gruppo sembra perdere quell’aura magica che l’aveva reso immune dai suoni new wave.
Diversa è la rilettura del suono dei Byrds fatta dai Rain Parade, specie nell’esordio del 1983 “Emergency Third Rail Power Trip”, disco che del gruppo di McGuinn recupera la vena più psichedelica, fondendola con l’indolenza Barrettiana, pietra miliare della psichedelia anni’80 avvicinabile idealmente a “Sixteen Tambourines”, disco del 1983 dei The Three O’Clock, in cui, però la psichedelia di riferimento è quella dei Beatles di “Sgt. Peppers”, la vena melodica ancor più sfacciata, più vicini ai Byrds folk-rock (anche se elettrizzati da una certa carica garage rock) i Green On Red di “Gravity Talks” (1983), a quelli country-rock i Long Ryders di “Native Sons” (1984).
Suoni differenti che rendono chiaro come il jingle jangle della chitarra di McGuinn, l’unico elemento a legare tra loro i dischi dei Byrds nelle diverse fasi (folk, psichedelica e country), è per molti versi anche il principale elemento comune dei fenomeni riuniti nella scena del Paisley.
D’altra parte i Long Ryders sono spesso citati come capiscuola del cosiddetto movimento cowpunk, antenato dei primi anni ’80 dell’alternative country, che fa rivivere la tradizione del country attraverso l’abrasività e la violenza del punk: per farsi un’idea ancora migliore del fumoso concetto è sufficiente ascoltare “Lost And Found” (1985) di Jason And The Scorchers, ottimo esempio di questo cozzare tra tradizione e rivoluzione.
Da un abbinamento iniziale simile prendono le mosse anche i Meat Puppets, propendendo però più verso l’hardcore che non il punk e tingendo la miscela di suggestioni psichedeliche, in un disco come “Meat Puppets II“ (1983), uscito per la solita SST: nei successivi “Up On The Sun” (1985) e “Huevos” (1987) il suono dei gruppo subisce una forte evoluzione stilistica, abbandonando in parte la vena hardcore iniziale e approfondendo il versante più psichedelico del proprio suono, fondendolo con l’hard rock dei ZZ Top in alcuni casi, con il folk-rock di Neil Young.
I gruppi del Paisley Underground e i cosiddetti cowpunkers sono solo frammenti del generale rinnovamento vissuto dal country-rock sotto la maschera rassicurante del revival: da una parte c’è la fusione con la psichedelia e il mariachi coniata nel 1988 dai Giant Sand di “Love Songs”, disco peraltro preceduto da una ridda inestricabile di uscite ed esperimenti che vedono il gruppo di Howe Gelb passare da emulo dei gruppi Paisley a leggenda del rock alternativo, dall’altra c’è il country rock acido e scuro dei Thin White Rope di “Exploring the Axis” (1985), un suono ossessivo e lugubre, psichedelico e lirico, prototipo di rock desertico che anticipa nelle atmosfere e nel mood lo stoner rock dei Kyuss e, soprattutto, l’hard rock dei Queens of the Stone Age.
Ma è proprio nella Nashville capitale del country che hanno luogo le più importanti rivisitazioni del country, grazie a gente come Lyle Lovett e Steve Earle: dello stesso anno, il 1986, i rispettivi debutti, opposte le direzioni intraprese per rinnovare la musica della tradizione: lo conduce verso le atmosfere del jazz e del pop l’uno, verso l’heartland rock di Springsteen il secondo.
Il country non è però l’unico suono tradizionale ad essere rivisitato durante gli anni ’80: c’è tutta una serie di gruppi che si rimette sulle orme della Band e dei Creedence Clearwater Revival andando a buttarsi in quell’indefinito calderone di tex-mex, gospel, rhythm’n’blues, boogie, swamp blues e rock’n’roll che è il roots-rock. I primi sono i Blasters, all’esordio nel 1980 con “American Music”, eccellente rivisitazione del più classico rock’n’roll, più eclettici nel gioco di recupero dei suoni classici i Los Lobos di “How Will The Wolf Survive?” (1983), tra country, rock’n’roll, blues, tex-mex e rhythm’n’blues. Dietro, una lista di artisti quali Del Fuegos, Pontiac Brothers, Beat Farmers e Del Lords a condividere anche il breve momento di boom commerciale che della fine degli anni ’80, fenomeno di breve durata che trova il suo picco nella cover di “La Bamba” dei Los Lobos.
Se i revival di country e roots rock sono fenomeni tutt’altro che nuovi nella storia del rock, inedito è il revival garage-rock che dilaga a metà anni ’80, non solo negli Stati Uniti, ma anche nella lontana Europa, non solo Regno Unito, ma anche, svolta piena di conseguenze per gli sviluppi futuri della storia del rock, la penisola Scandinava: così, accanto a gruppi inglesi come Prisoners, Walking Seeds e Barracudas e agli americani Fuzztones, Fleshtones, Mono Men e Chesterfield Kings spiccano i finlandesi Nomads, vera e propria istituzione del garage-rock; a dargli manforte ci pensano gli Svedesi Hanoi Rock, con un hard-rock stradaiolo figlio delle New York Dolls quanto del glam-metal di Kiss e Alice Cooper. Sono i primi presagi della nascita di una scena che culminerà nei tardi anni ’90 con un invasione di gruppi scandinavi che porteranno brillantemente avanti la tradizione musicale locale, miscela di hard-rock sferragliante e garage-rock vintage.
Nel frattempo però, anche dopo la fine del periodo d’oro del revival-garage della prima metà degli anni ’80, grazie ad etichette come Estrus, Symptahy For The Records, Bomp e Crypt il culto di quel suono, (organo farfisa – 3 accordi di chitarra passati attraverso il fuzz – melodie tra Sonics, Stones e Kinks) si manterrà intatto fino ai giorni nostri per poi riemergere col successo di gruppi come White Stripes e Von Bondies.

39 – La neo psichedelia inglese

Se in America il recupero della psichedelia degli anni’60 è legato principalmente al Paisley Underground e a rivisitazioni acide della tradizione country-rock, nel Regno Unito il fenomeno della cosiddetta neo-psichedelia, che si apre con gruppi come Soft Boys, Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes, come tutti i movimenti musicali inglesi dei primi anni’80 deve fare i conti col post-punk.
I primi ad azzardare una fusione, apparentemente fuori luogo, tra psichedelia inglese e new wave sono i Soft Boys di Robyn Hitchcock con “Can Of Bees” (1979), ispiratori della nuova ondata psichedelica inglese dei primi anni ’80; non solo: col successivo “Underwater Moonlight” (1980) rilanciano in tempi non sospetti il jangle-pop anticipando nel tempo sia il college rock dei R.e.m. che i primi gruppi del Paisley.
Altrettanto seminale per la psichedelia inglese, un gruppo di fine anni ’70 di nome The Crucial Three: ne fanno parte Ian McCulloche Julian Cope e quando, sul finire del 1977, il gruppo si scioglie i due vanno a fondare, rispettivamente, Echo & The Bunnymen e Teardrop Explodes, i due gruppi più importanti di questo primo riflusso psichedelico inglese.
I primi debuttano nel 1980 con “Crocodiles”, disco dalla vena psichedelica oscura, più vicina ai Doors che agli zuccherini psichedelici inglesi, con un suono equamente diviso tra i ’60s e i tardi ’70 dei Joy Division. Più vario il suono dei Teardrop Explodes di Julian Cope, la cui insanabile vena melodica contagia e grazia il debutto del 1980 “Kilimanjaro”, mostrando un gruppo in grado di fondere Scott Walker, post-punk e Syd Barrett per ottenere un suono che rappresenta uno dei punti più alti del pop inglese del periodo.
Mentre sull’onda di queste uscite si collocano tanti gruppi minori come Chameleons, Sound e Wah! (formati anch’essi da un ex membro dei Crucial Three) legati ad una visione classica della psichedelia nello stesso momento escono tre esordi destinati a rivoluzionarne il significato stesso: ”Garlands”, del 1982, “Psychocandy”, del 1985 e “Sound Of Confusion”, del 1986, prime prove, rispettivamente, di Cocteau Twins, Jesus & Mary Chain e  Spacemen 3, pionieri di nuove sonorità che nella seconda metà degli anni ’80 andranno a confluire nel movimento shoegaze.
Con l’esordio dei Cocteau Twins si celebra la nascita del dream pop: l’esordio dà solo un assaggio di quel suono, fatto di chitarre riverberate, voci eteree che riecheggiano in uno spazio sonoro alieno, dipinto con pigra indolenza da un tappeto sonoro di sintetizzatori, quasi a portare il suono dei secondi Joy Division dall’inferno al paradiso. Col successivo “Head Over Heels” (1983) il suono del gruppo matura, divenendo allo stesso tempo marchio caratteristico dell’etichetta che li pubblica, la 4AD: il co-fondatore dell’etichetta, Ivo Watts-Russell, formerà lo stesso anno i This Mortal Coil, uno dei gruppi che meglio definisce il suono del cosiddetto pop onirico, all’esordio nel 1984 con “ It’ll End in Tears”.
Più in generale, la 4AD sarà sempre label di riferimento per il genere: sotto la sua egida usciranno, in particolare, i dischi di Dead Can Dance e A.R. Kane. I primi, formati dal duo Brendan Perry-Lisa Gerrard, fondono l’ambient di Brian Eno con il folklore più antico, da quello celtico a quello gotico fino ad arrivare alla musica rinascimentale ed ai canti gregoriani, creando un suono senza tempo che rappresenta il lato più solenne del dream pop; legati agli altri gruppi di scuderia solo dalla comune appartenenza alla 4AD e dalla comune dilatazione del suono gli A.R. Kane: è un loro progetto collaterale quel M/A/R/S/S che darà alle stampe la celebre “Pump Up the Volume” (uno dei primi singoli dance basati interamente su tecniche di campionamento) ed è dalle loro contaminazioni coi Can e con Miles Davis che, sin dal debutto “69” (1988) si può ascoltare un suono alieno per l’epoca, fusione inquietante di dub e dream pop (si ascolti ad esempio “Dizzy”) che anticipa di qualche anno le sonorità del trip-hop di Bristol.
Una versione americana delle atmosfere dilatate e sognanti del pop 4AD è quella data dai Galaxie 500 con “Today” (1988), disco che rielabora l’influenza dei Velvet Underground in uno spazio ovattato e sussurrato che anticipa il suono di quello slowcore che attraverserà come uno spettro i dischi di Codeine e Low, ma anche quelli dei due gruppi che nasceranno dalle ceneri dei Galaxie: Damon & Naomi e Luna.
Diversa la psichedelia di Jesus & Mary Chain e Spacemen 3, gruppi che riprendono ed interpretano in modo diverso la lezione del noise-rock minimale dei primi Sonic Youth (e indirettamente, dei Velvet Underground più mantrici e cacofonici): i primi, al debutto nel 1985 con “Psychocandy”, ne ereditano l’utilizzo sistematico del rumore, impiegando feedback e distorsioni e mettendole al servizio di un noise-pop che riprende magistralmente la facilità melodica dei primi Beach Boys e dei girl groups prodotti da Phil Spector, facendo però rivivere il wall of sound di quest’ultimo sotto forma di una coltre impenetrabile di rumore. È un’intuizione geniale, la conciliazione degli opposti, che genera una vasta platea di proseliti: prima di tutto in Inghilterra, dove i My Bloody Valentine celebrano con “Isn’t Anything” (1988) e col successivo “Loveless” (1991), il matrimonio tra il dream pop di marca 4AD ed il noise-pop dei fratelli Reid: nel ricreare queste sonorità dal vivo i membri del gruppo fanno poco per coinvolgere il pubblico venuto a vederli, assorbiti dall’incedere ipnotico della loro muraglia sonora stanno a testa bassa, immobili, fissandosi la punta delle scarpe: la stessa cosa che faranno, nel giro di un anno, decine di gruppi quali Ride, Slowdive, Swervedriver,Pale Saints, Boo Radleys e Lush che, proprio da questa comune abitudine, prenderanno il nome collettivo di shoegazers. A fornirgli supporto discografico, manco a dirlo, la 4AD.
Ovviamente, se la condotta sul palco era grosso modo la stessa, diverso era il modo di declinare le sonorità “inventate” dai My Bloody Valentine: i Ride di “Nowhere” (1990) combinano le sonorità del non-movimento musicale con il meglio della tradizione pop-rock inglese, rivelandosi i migliori songwriters della scena; fondono invece noise inglese e americano gli Swervedriver di “Raise” (1991) mettendo sullo stesso piatto My Bloody Valentine, Dinosaur Jr e Stooges; sono vicini al lato più sognante dello shoegazing i Pale Saints di “The Comforts of Madness” (1990).
È un suono destinato a durare poco, raggiungendo l’apice a cavallo tra gli ’80 e i ’90, (parallelamente allo sviluppo della scena di Madchester), per essere poi spazzato via dall’ondata del brit-pop: alcuni dei gruppi che ne sono stati protagonisti seguono il movimento nell’oblio, altri, come Push e Boo Radleys, riescono ad adattare il proprio suono alle mutate tendenze musicali, come dimostrato dai rispettivi “Split “(1994) e “Wake Up!” (1995), perfettamente sintonizzati con l’esplosione musicale brit pop.
Mentre in Inghilterra gli esperimenti col noise partono dai fratelli Reid e portano alla nascita del fenomeno shoegaze, in America gruppi come Dinosaur Jr. e Pixies battono altre possibili strade del connubio tra rock e rumore ugualmente importanti per lo sviluppo del rock: se ne riparlerà più avanti…
Anche perché si rischierebbe di tralasciare quella che rappresenta la terza via alla psichedelia inglese della seconda metà degli anni ’80, ovvero quella intrapresa da Jason Pierce coi suoi Spacemen 3 nell’esordio del 1986 “Sound of Confusion” e perfezionata col successivo “Perfect Prescription” (1987) , disco che oltre ad influenzare in parte anche il suono di shoegazers come gli Slowdive, contribuisce a definire il suono del cosiddetto space-rock: qui la psichedelia rivive nel suo aspetto più ipnotico, reiterazione di suoni alieni che è figlia del rock più minimale e allucinato. Dagli United States of America ai Silver Apples, dai Tangerine Dream ai Neu!, dai Velvet Underground ai Chrome, dai Suicide ai Sonic Youth, la tradizione del rock più allucinato, minimale, distorto e futuribile conduce qui, in una sintesi in cui il suono spaziale ha poco a che fare con la fantascienza e molto con l’esperienza lisergica: le chitarre distorte dei Velvet e il synth psicotico dei Suicide vengono riuniti in un rock ipnotico e minimale che costituirà un’influenza fondamentale per tantissimi gruppi, inglesi e non, che proseguiranno a declinare i suoni dello spazio in modi nuovi e imprevedibili, in ambito indie-rock (Six By Seven, Phaser  e Quickspace ), post-rock (Flying Saucer Attack, Godspeed You Black Emperor) e l’elettronica indie di Stereolab e Broadcast, questi ultimi esponenti peraltro di un pop ambientale che riconduce ad un suono unitario Cocteau Twins, Jesus & Mary Chain e Spacemen 3, come aveva già fatto d’altra parte lo shoegaze, a riprova di quanto questi suoni, pur con le loro differenze, siano legati da un mood comune, etereo e sognante.

40 – Scorie noise di fine anni ottanta 

Se dalla metà degli anni ottanta in Inghilterra il rumorismo noise viene piegato alle inflessibili leggi del pop da Jesus & Mary Chain e soci, oltreoceano le intuizioni e gli esperimenti dei Sonic Youth vengono incanalate in direzioni completamente nuove: dal guitar-noise di Dinosaur Jr e Pixies, al rumore dilatato e spaziale degli Yo La Tengo, passando per il garage-noise dei Pussy Galore e della “stirpe” da essi generata.
I Dinosaur Jr di J. Mascis e Lou Barlow, esordiscono a nome Dinosaur nel 1985 con disco omonimo, giocando con i feedback chitarristici e unendo il Neil Young più abrasivo con le scorribande dissonanti dei Sonic Youth: la miscela è ancora acerba, ma lascia intravedere quel suono che viene portato a maturazione già nel successivo “You’re Living All Over Me” (1987), uscito per la storica SST: è un susseguirsi di dischi che segnano la storia dell’indie rock americano, da “Bug” (1988), passando per “Where You Been” (1993) (che data la contingenza storica viene erroneamente associato al movimento grunge in auge in quel periodo) fino ad arrivare a “Without a Sound” (1994): da notare però che da “Bug” in poi, il gruppo si era praticamente trasformato nella one man band di J. Mascis, mentre Barlow aveva lasciato ed era divenuto anti-divo del firmamento lo-fi con gruppi come Sebadoh, Sentridoh e FolkImplosion. Il gruppo di Mascis e Barlow in ogni caso si rivelerà vitale nel porre le fondamenta del guitar-rock degli anni’90, riuscendo nella rara impresa di fondere sonorità ostiche e dissonanti con una vena compositiva che spesso e volentieri fa capolino dalle parti del pop.
Il miracolo riesce, anche se in modo radicalmente differente, pure ai Pixies, anch’essi fondamentali per creare il suono del rock alternativo degli anni’90; il suono del gruppo, fin dall’esordio, pur miscelando influenze note, pare apparso dal nulla: i Violent Femmes e il power pop, l’hardcore contaminato degli Husker Du e la vena folle dei Pere Ubu, il tutto trasfigurato da una sensibilità melodica sbilenca e da un eclettismo sfrenato e sporcato da dissonanze e rumorismi assortiti; il gruppo esordisce nel 1987 con “Come on Pilgrim”, seguono gioielli come “Surfer Rosa” (1988) e “Doolittle” (1989) e il meno convincente “Bossanova” (1990), ultimo disco del gruppo, almeno con organico al completo, che lascia una manciata di dischi, la cui vena pop, sbilenca e fuori fuoco, sarà il leit motiv del pop-rock alternativo degli anni ’90, dai Nirvana di “Nevermind” (che citeranno i Pixies di “Doolittle” come influenza fondamentale durante la lavorazione del disco) ai Pavement, che sapranno fare buon uso degli insegnamenti di Frank Black e compagnia ereditandone anche lo spirito sardonico.
Diverso il discorso per i dischi Yo La Tengo: se qui gli episodi di rumorismo sono sicuramente presenti e raggiungono spesso vertici di violenza inauditi, l’alternanza con episodi vicini al dream pop virato folk dei Galaxie 500 porta quasi a pensare ad una sorta di compendio di tutte le possibili declinazioni (americane e non) del rumorismo indie: il che non stupisce se si tiene conto dei trascorsi da critico musicale del frontman Ira Kaplan. Il gruppo impiega 6 anni per arrivare alla sintesi perfetta del suo suono, esordendo nel 1986 con “Ride The Tiger” e trovando la quadratura del cerchio in “May I Sing With Me” (1992): il capolavoro arriva nel 1997 con “I Can Hear The Hear Beating As One” disco che, mostrando un gruppo sempre più maturo nel suo gioco citazionista, potrebbe tranquillamente fungere da enciclopedia ideale dei diversi stili e sottostili dell’indie rock degli anni’90.
Se Dinosaur Jr, Pixies e Yo La Tengo traghettano definitivamente feedback e dissonanze nel rock chitarristico americano un’operazione analoga per il garage e blues-rock viene portata avanti dai Pussy Galore; fin dall’EP del 1986 “Groovy Hate Fuck” e ancor di più nell’esordio sulla lunga distanza “Right Now” (1987) il suono è un’incredibile ed apparentemente improbabile miscela lo-fi e senza basso di Rolling Stones (periodo “Exile On Main Street”), Captain Beefheart e Sonic Youth (il cui ex-batterista Bob Bert era stato arruolato nel 1987 tra le fila del gruppo): si rivela seminale nel riportare sulla mappa del post punk (inteso nel suo senso più letterale) le sonorità blues.
Non solo, poiché dalle ceneri dei Pussy Galore nasceranno due gruppi che saranno fondamentali per le sorti del rock alternativo: da una parte il chitarrista Neil Hagerty formerà con la tastierista Jennifer Herrema i Royal trux, proseguendo ed esasperando il percorso di destrutturazione del rock-blues Stonesiano e creando, fin dall’esordio omonimo del 1988, una miscela sonora quasi free in cui l’influenza di Captain Beefheart si fa ancora più evidente; il gruppo sarà anche tra i primi ad introdurre la coppia “mista” come line-up ideale per produrre rock-blues, una formula che nel nuovo millennio diventerà piuttosto popolare, dai Kills, che fin dall’esordio s’imporranno come eredi dei Royal Trux, ai più eclettici White Stripes e Fiery Furnaces.
Anche l’ex leader dei Galore, Jon Spencer, fonda con la moglie Christina Martinez, i Boss Hog, gruppo dai ranghi variabili che, prima di divenire una sorta di divenire, nel corso degli anni ’90, una sorta di versione virata pop-soul del punk-blues dei Galore sarà, specie con l’introvabile “Cold Hands” (1990) una sorta di anello di congiunzione tra questi ultimi ed i Jon Spencer Blues Explosion, terzo gruppo di Spencer.
Il gruppo, con “Extra Width” (1993), fa sbocciare ed evolvere le intuizioni dei Pussy Galore; la produzione, gradualmente, da lo-fi si fa vintage, il rock-blues si spruzza di funky, l’elemento noise viene, almeno in parte, dominato: è il passaporto per il suono ultracool di “Acme” (1998); nel mezzo passano “Orange” (1994) e la furia di “Now I Got Worry”(1996), dove il gruppo trova l’equilibrio tra i due estremi sonori raggiungendo allo stesso tempo il capolavoro assoluto.

41 – Il metal degli anni ‘80 

I tardi anni ’70 avevano visto un’esplosione di gruppi inglesi, legati al principio ad un seguito di culto, come Iron Maiden, Motorhead e Judas Priest che, fondendo le sonorità dell’hard rock di Deep Purple, Black Sabbath e Led Zeppelin e velocizzando ed inasprendone i suoni mettono le basi per il trash metal: non solo forgiarono il suono dell’heavy metal alternativo degli anni ’80 ma ne definirono anche l’iconografia, decadente e orrorifica già dalle copertine dei dischi.
Dalla loro lezione partono gruppi come Metallica, Slayer, Anthrax e Megadeath, vale a dire i principali esponenti del thrash  metal americano, fusione di metal inglese e primo hardcore californiano, che rappresenta la risposta a stelle e strisce a quella prima ondata di gruppi inglesi di fine ’70.
Un ruolo fondamentale nella definizione del genere è rivestito dalla sequenza dei Metallica “Kill’Em All” (1983) – “Ride The Lightning”(1984) – “Master Of Puppets” (1986), ma anche da dischi come “Killing is My business” (1985) dei Megadeth di Dave Mustaine (ex Metallica), “Reign in Blood” (1986) degli Slayer e “Spreading the Disease” (1985) degli Anthrax che contribuiscono a fare per tutti gli anni ’80 del trash una delle correnti alternative del metal più floride del decennio.
Da esso derivano generi come black, doom, death, grind e prog metal, solo per citare alcune delle infinite variazioni e declinazioni che il suono dell’heavy metal assumerà durante gli anni’80.
Il black metal esaspera la componente gotica (quindi Sabbathiana) del genere, nei dischi di Venom e Halloween: quando quel suono comincia a subire un’accelerazione ritmica ai limiti della sopportabilità si comincia a parlare di death metal: i dischi di Morbid Angel, Cradle Of Filth ed Entombed segnano la svolta.
Completamente opposta la direzione intrapresa dai gruppi doom metal, a cominciare dai Saint Vitus di “Hallow’s Victim” (1985) che rallentano il suono dei Black Sabbath e lo rendono mantra inquietante ed ossessivo; se l’invenzione di quel suono va assegnata ai Saint Vitus a rendere popolare il genere saranno nei primi anni ’90 gruppi come Cathedral, My Dying Bride e Paradise Lost.
Nel prog-metal, come suggerisce il nome, lo spirito neoclassico del rock progressivo inglese viene invece fatto rivivere da gruppi come Dream Theater, Queensryche e King’s X: una strada antitetica a quella percorsa dai Napalm Death di “Scum” (1987) e dai Carcass di “Reek Of Putrefaction” (1988) che suonando una musica a metà strada tra hardcore e metal, lanciata su velocità sovrumane e animata da un cantato gutturale e inintelligibile, ispireranno incidentalmente anche il passaggio del black al grind metal.
Aldilà della comune discendenza dal thrash ciò che accomuna questi dischi è, come si diceva, il fatto di costituire un’importante alternativa e per molti versi un antidoto al pop-metal più o meno commerciale e da classifica: tra le altre cose gli anni ’80 furono infatti anche gli anni in cui il genere comincia a scalare le classifiche divenendo un suono mainstream come tanti altri. Il cosiddetto pop metal è un fenomeno che musicalmente si rifà principalmente all’hard rock di Aerosmith, Alice Cooper e Ac/dc, il riff presente ma in secondo piano rispetto al ritornello vocale che lo rende musica da stadio e da classifica allo stesso tempo.
La gradazione pop varia di gruppo in gruppo: se dischi come “Pyromania” (1983) dei Def Leppard, aprono al metal più smaccatamente commerciale che porterà nel 1986 al successo del Bon Jovi di “Slippery When Wet” (disco che tra l’altro apre le porte a quella degenerazione del fenomeno che sarà l’hair metal), altri gruppi, come Motley Crue e Twisted Sister in fondo non fanno altro che portare avanti i suoni dell’hard rock: una tradizione che sarà ripresa dalla cosiddetta “street scene” di fine anni ’80, che del suono dei Motley Crue rappresenta la naturale appendice, con gruppi come Guns’n Roses, Faster Pussycat e L.A. Guns a fare da capo branco.
In realtà i Guns’n’Roses non si limitano a proporre hard rock, tornando invece a bagnarsi alle fonti del rock’n’roll più stradaiolo e degenerato e fondendo in un sol colpo le esperienze musicale dei tanti che li avevano preceduti nell’operazione: Rolling Stones, New York Dolls, Aerosmith, Sex Pistols, Ac/Dc e Hanoi Rocks: “Appetite For Destruction” (1987) non è altro che l’ennesimo tassello di un puzzle destinato a non completarsi mai come dimostrato da gruppi che opereranno a cavallo tra ’90 e nuovo millennio come Backyard Babies, Hardcore Superstar e Nashville Pussy, che continueranno a recitare il canovaccio del r’n’r più degenerato. Canovaccio da cui i Guns’n’Roses si smarcano in parte con “Use Your Illusion” (1991) per poi rendere omaggio alle proprie radici nel cover-album “The Spaghetti Incident?” (1993).
Se “Use Your Illusion” segna il definitivo trionfo commerciale dell’hair metal ne rappresenta allo stesso tempo anche il canto del cigno: il 1991 è anche l’anno di “Nevermind” dei Nirvana e di “Blood Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers, di lì a poco sarebbe uscito l’esordio omonimo dei Rage Against The Machine: segnali della nascita di un metal meticcio che copula col punk, il funk e il rap, portando il genere fuori dagli steccati ideologici che si era da sempre imposto e dagli stereotipi che si stavano cominciando ad affermare alla fine del decennio.

42 – L’hip hop 

Tutti sanno che il primo singolo rap della storia è “Rapper’s Delight” della Sugarhill Gang, del 1979: la base sonora è “Good Times” degli Chic , la voce è di Henry “Big Bank Hank” Jackson, scelto personalmente dopo un audizione fuori dalla pizzeria in cui lavorava da Sylvia Robinson, cantante soul e proprietaria del negozio Sugar Hill Records, nonché deus ex machina del pezzo.
La Robinson non inventa nulla, sia ben chiaro, semplicemente ha la folgorante idea di immortalare su vinile quello che nella seconda metà degli anni ’70 era un fenomeno musicale piuttosto diffuso per le vie di New York, il rap, parte fondante della cultura hip hop assieme alla breakdance e all’arte dei graffiti.
Il suono di “Rapper’s Delight” e dei singoli di Kurtis Blow “Christmas Rapping” e “Breaks” è quello che, col senno di poi, sarà definito old school rap: musica tendenzialmente disimpegnata e destinata al ballo, campioni disco e funky e sopra rapping semplice e sulla battuta. Emergono tendenzialmente due figure fisse con la cultura hip hop: l’Mc e il Dj.
La figura dell’Mc era stata per la prima volta pionierizzata in Giamaica dove, con l’incisione di versioni dub dei pezzi rocksteady che consentivano ai Dj di parlare sopra il pezzo si andò affermando sempre di più la figura del toaster, la cui presenza si fa sempre più invasiva: quando egli comincia a parlare in rima seguendo il tempo dei pezzi il rap può dirsi praticamente nato.
Altre figure cardinali per la nascita del rap sono gli slum poets del Bronx, come Gil Scott Heron e i Last Poets, la cui poesia del ghetto segue movimenti ritmici che anticipano anch’essi il genere: non solo, rappresentano i primi esempi del rap politico e socialmente consapevole che troverà nei Public Enemy i primi esponenti.
Dalla Giamaica arriva anche una figura fondamentale per la storia futura dei giramanopole (i turntablists), quel Kool Herc che, una volta trasferitosi nel Bronx inventa nel 1975 il breakbeat circolare che è fondamento ritmico dell’hip hop; ma è Grandmaster Flash (al secolo Joseph Saddler) che fa emergere il Dj come figura fondamentale e centrale del rap, destinato a condividere le luci della ribalta con l’mc e talvolta ad agire anche in missioni musicali solitarie.
Studente di ingegneria elettronica crea nel 1977 il primo mixer per Dj “truccando” un mixer per microfoni e adotta il Technics Sl-1200 come giradischi d’adozione, e con esso inventa tutte le figure base del turntablist: dal cutting (che consiste nel tagliare la canzone sul beat), al back spinning (la tecnica di far girare il pezzo al contrario), al phasing (l’alterazione della velocità del giradischi) e perfeziona la tecnica di scratching: con Grandmaster Flash il Dj diventa virtuoso e raggiunge una posizione di pari dignità all’mc e viene coniato il suono definitivo dell’hip hop, come dimostrato dall’esordio discografico del 1981, “The Adventures Of Grandmaster Flash On The Wheels Of Steel”.
Non pago Saddler nel 1982, con “The Message”, porta la slum poetry nel rap e per la prima volta l’hip hop si rivela fenomeno non solo destinato ai party ma anche strumento ideale per portare avanti quella funzione di denuncia sociale che erano state del folk e del soul: per quanto riguarda il suono del pezzo, si può già parlare di electro.
Il 1982 è infatti anche l’anno di “Planet Rock” di Afrika Bambataa, leader della Zulu Nation e principale artefice di quello che sarà l’altro suono-tipo del rap old school: l’electro, appunto, combinazione di hip hop, funk e Kraftwerk,  il breakbeat meccanico scandito da una Roland TR-808, mc e voci robotiche che si incrociano, svegliando l’interesse della musica nera per l’algido suono della proto-elettronica tedesca. Nei tardi anni ‘80 l’uso dei sintetizzatori nell’hip hop verrà abbandonato e prevarrà la tecnica di campionare i dischi altrui: non solo questa diventerà la pratica dominante in ambito hip hop, ma verrà ben presto adottata anche da tutti glia altri generi di area più o meno elettronica, dalla house al breakbeat.
Se l’electro verrà abbandonata ed entrerà a far parte, con i primi campionamenti di pezzi disco, della tradizione storica dell’hip hop old school i suoni pionierizzati da Africa Bambataa verranno sviluppati da altri e in altri campi, dai primi passi della techno, col suono techno-electro del progetto Cybotron di Juan Atkins, uno dei primi passi della scena techno di Detroit, agli esperimenti col jazz di Herbie Hancock.
I singoli di Sugarhill Gang e Kurtis Blow si rivelano un successo sotto il profilo commerciale e ben presto l’industria dello spettacolo tenta di appropriarsi del fenomeno hip hop: la breakdance nei primi anni’80 è ovunque, dalla cerimonia di apertura delle olimpiadi di Los Angeles al campione d’incassi cinematografico Flashdance e i Wham! vanno in testa alle classifiche con il non esaltante “Wham! Rap”.
L’arrivo dei Run Dmc si rivela salvifico: fin dall’esordio omonimo del 1984 c’è nei tre membri della crew, che saranno definiti “Beatles neri” dai Public Enemy per l’importanza rivestita bella storia dell’hip hop, un invito al mondo dell’hip hop a non svendere e una ridicolizzazione dei tanti mc-fantoccio che calcano la scene a quel tempo, in un pezzo storico come “Sucker Mcs”.
La vera scossa arriva però con “Walk This Way”, primo esempio storico di crossover tra (hard) rock e rap: l’importanza della fusione non è meramente musicale visto che la presenza degli Aerosmith nel pezzo (e nel video) sdogana la crew su MTV che aveva colpevolmente ostracizzato la presenza dei rapper neri nei suoi palinsesti; è l’inizio dell’ascesa commerciale del rap non come fenomeno macchiettistico ripulito dal senso di minaccia dall’industria dello spettacolo bianca quale minacciava di configurarsi, ma come primo caso di esposizione mediatica di massa di una musica fatta e suonata (quasi) esclusivamente da neri.
La musica però attecchisce anche tra il pubblico bianco, anche se deve ancora conquistare il pubblico, cosiddetto, alternativo: a facilitare l’avvicinamento tra i due mondi ci pensa la crew delle Native Tongues che scocca in rapida sequenza quelli che sono i capolavori del primo alternative rap: nel 1988 “Straight Out the Jungle” dei Jungle Brothers, nel 1989 “3 Feet High and Rising” dei De La Soul e nel 1990 gli A Tribe Called Quest di “People’s Instinctive Travels and the Paths of Rhythm”, dischi di hip hop festoso ed ultra-contaminato, a partire dall’incredibile varietà nei campioni .
Due anni più tardi è la volta di “Check Your Head”, terzo disco dei Beastie Boys: il gruppo, partito nel 1987 col crossover hardcore-rap di “Licensed To Ill” e passato nel 1989 attraverso “Paul’s Boutique”, disco eclettico e spiazzante che avvia il culto alternativo del gruppo, arriva con “Check Your Head” ad una folle (e perfetta) miscela di pop, rap, hardcore, metal, bossa e funk, collage sonoro che già fa presagire quella propensione all’eclettismo sconsiderato che animerà alcuni dei migliori dischi degli anni ‘90.
Dello stesso anno di “Licensed to Ill” è l’esordio dei Public Enemy “Yo Bum Rush The Show”: se il suono del gruppo è quasi avveniristico (suoni deep funk, sirene e frammenti sonori spesso irriconoscibili) per quello che era il rap dell’epoca, la prosa è militante e politicizzata, spesso estremistica, elemento centrale anche nel successivo “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back” (1988), con cui il gruppo conquista definitivamente la notorietà: dischi che segnano la nascita dell’hardcore rap, incarnazione del genere aggressiva e priva di compromessi, destinata a trionfare con il gangsta rap dei N.w.a. (Niggers With Attitudine), crew che nel 1988 con “Straight Outta Compton” scrivono il primo atto dell’ascesa della west coast: fino ad allora la cultura hip hop è fenomeno prettamente newyorchese o, comunque, anche quando il fenomeno comincia ad allargarsi, circoscritto all’east coast. La supremazia della costa ovest e del gangsta rap, una volta conquistata, si rivela pressoché irreversibile, almeno per gran parte degli anni’90.
Non solo, presto con gli Arrested Development anche il sud si appresta ad entrare nella mappa: ma si tornerà sull’argomento più tardi…

43 – La techno di Detroit

Nei primi anni ‘80 nella città di Detroit si forma un collettivo di musicisti elettronici che prende il nome di Deep Space Soundworks: ne fanno parte Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson, vale a dire coloro che vengono comunemente indicati dalle cronache musicali come gli inventori della techno..
I tre, ex compagni di college, erano stati folgorati sulla via di Damasco da un programma radiofonico che viaggiava sulle onde radio di Detroit a tarda notte sul finire degli anni ’70: lo show di DJ Charles “The Electrifying Mojo” Johnson che diffondeva via etere pezzi di George Clinton e di artisti come Kraftwerk e Tangerine Dream.
Il primo progetto di Atkins, sotto la sigla Cybotron, si ricollega all’electro newyorchese nel definire un suono che tenta di fondere la tradizione nera del funky con il synth-pop dei Kraftwerk: il suono di un pezzo come “Clear” è spettrale e minimale, in parte riflettendo il clima depresso della città (che nei tardi anni ’70 viveva una pesante crisi economica), in parte derivando della limitatezza degli strumenti elettronici di allora. Ma è un altro pezzo a nome Cybotron, del 1981, “Alleys of Your Mind”, ad essere considerato, insieme a “Sharevari” degli A Number Of Names (sempre di Detroit) primo pezzo techno della storia.
Se il suono dei Cybotron è ancora electro (o meglio, techno-electro) col successivo progetto Model 500, inaugurato dal singolo del 1985 “No UFO’s”, il suono si velocizza, la ritmica funky diviene più elaborata, il suono meno pionieristico e più coinvolgente, a segnalare la rapida evoluzione del genere.
Mentre Atkins pionierizza il suono della techno, creando sonorità futuristiche ed algide, Derrick May, dal canto suo, comincia un’attività di Dj che lo mette in contato con il suono della house che si sta formando contemporaneamente al Warehouse di Chicago: fin da subito l’incontro tra le due scene innesca un gioco frenetico di reciproche influenze. Della house May riprende la ritmica in 4/4 e molte sonorità caratteristiche, a partire dai celebri archi sintetici, tanto che i pezzi da lui prodotti tra il 1987 e il 1989 sotto lo pseudonimo di Rhythm Is Rhythm come “Nude Photo” e “Strings of Life” verranno, a causa di un suono meticcio difficile da incasellare e ancora in evoluzione, considerati indifferentemente capolavori della house come della techno.
Kevin Saunderson, dal canto suo, dopo una lunga serie di progetti sotto diversi pseudonimi, tra cui Tronik House, Reese, E-Dancer ed Essaray, lungo i quali prende forma una techno dalla ritmica pesante e ossessiva (anch’essa comunque fortemente influenzata dal suono di Chicago), trova il successo con il progetto Inner City, basato su una collaborazione con la vocalist house Paris Grey: il singolo ”Big Fun” verrà inserito nella seminale compilation del 1988 “Techno: The New Dance Sound of Detroit”che darà un nome al fenomeno e lo lancerà in Inghilterra, tanto da far balzare il singolo in questione in cima alle classifiche.
Nel momento in cui la techno perde il suo carattere underground ed entra nel mainstream si frammenta in una miriade di stili diversi, accomunati da una tendenza ad allontanarsi dai suoni della house a cui si era accostata e sovrapposta coi lavori di May e Saunderson.
In pratica è proprio nel momento in cui la techno afferma la sua identità che comincia anche a frammentarsi: da una parte c’è chi, come Jeff Mills, si dedicherà a preservare e mantenere vivo il suono minimale della techno Detroitiana, dall’altra ci saranno artisti come Moby ed Orbital che porteranno gli album techno nelle classifiche pop.
Più in generale si innescherà una lunga serie di evoluzioni e rotture col passato, (una su tutte quella che porterà dalla techno hardcore alla jungle e da questa al 2 step), in una giungla di stili e sottostili che rifletteranno la generale tendenza della musica elettronica a subire continue metamorfosi e ibridazioni, divenendo uno dei campi di gioco più eccitanti della musica degli ani ’90.

44 – La house e Madchester

Nei tardi anni ’70, secondo quel principio che è fisiologico di ogni boom commerciale, arrivato al suo picco il fenomeno disco era ormai vittima di un forte rigetto e mentre i dj rock incitavano a bruciare i propri album disco,  il fenomeno tornava a fiorire a livello underground: tra i locali che aprono, in sequenza, dal 1978 in poi, vi sono il Paradise Garage di New York con Larry Levan come dj resident, il Warehouse di Chicago con Frankie Knuckles (da cui il genere deriva il suo nome) e lo Zanzibar, in New Jersey, con Tony Humphries.
Per la genesi della house è il locale di Knuckles a rivelarsi seminale, oltre che la città di Chicago in generale: il club è piccolo e tendenzialmente passa disco tradizionale, ma poiché il materiale a disposizione è meno vasto che in passato, tocca al dj movimentare le cose, giocando col mixer e rinforzando il beat con l’aggiunta di una drum machine: il passo dal semplice remix di tracce preesistenti alla creazione di pezzi propri, perlopiù generati elettronicamente, è breve e segna la nascita del suono house, erede elettronica della disco, beat in 4/4, generato normalmente da una drum machine Roland 909 e una linea di basso sintetica in primo piano (generata normalmente con una Roland TB-303).
Il primo pezzo house della storia, “Your Love” di Frankie Knuckles è del 1984 e se nel 1985 i singoli house sono ancora rari, nel 1986 c’è una vera esplosione di hit del genere da “Can You Feel It” di “Mr Fingers” a “Do It Properly” di Adonis.
Tra gli artefici di questo fenomeno c’è un D.J. come Ron Hardy, resident al Music Box, le cui piste sono un vero e proprio banco di prova per testare le potenzialità dei pezzi sul dancefloor: luogo bazzicato anche da Larry Sherman, proprietario dell’unica pressa di vinili della città e di lì a poco fondatore della Trax Records, etichetta seminale per la diffusione del genere.
Il suono delle uscite Trax (insieme a quelle della DJ International), è destinato a diventare “il” suono della house di Chicago, a sua volta, per tutti gli anni ’80, sinonimo di house tout court: in realtà in club come il Paradise Garage di Levan e, soprattutto, lo Zanzibar di  Humphries veniva portato avanti un percorso sonoro parallelo, più legato alla tradizione disco, mantenendo a lungo viva la pratica del remix dei vecchi vinili: presto sarebbero usciti i primi singoli di questa variante della house, più legata alle origini soul e disco, definita garage house (e tale definizione genererà l’equivoco secondo cui ad inventare quel suono sia stato Larry Levan).
Il primo singolo del genere è ‘Off The Wall’ , di Paul Scott, del 1985, le prime etichette a supportare lo stile sono Supertonics, Easy Street ed Ace Beat e verso il 1987 quel suono della comincia ad emergere definitivamente, grazie a singoli come “Without You “di Touch e “Let’s Work It Out” di Exit.
Nel frattempo a Chicago, sempre nel 1987, un altro seminale D.J. del posto, Dj Pierre, sotto lo pseudonimo di Phuture, inventa, armeggiando con un Roland TB-303, quel suono allucinato e lisergico che deriva dal variare ritmico dei filtri di risonanza del sintetizzatore, che appare per la prima volta nel suo singolo “Acid Tracks” e che segna la nascita dell’acid house, il fenomeno che caratterizza l’ascesa della house nel Regno Unito.
Un fenomeno reso possibile da alcuni eventi catalizzatori verificatisi negli ultimi due anni tra cui: la conversione dell’Hacienda di Manchester da locale dedicato al northern soul a club  house (cambiamento che lo renderà centrale per il fenomeno di Madchester) e l’apertura del Delirium a Londra (primo locale inglese dedicato alla house), un tour dei principali D.J. ed interpreti house americani, tra cui Frankie Knuckles, Fingers Inc. e Adonis, la pubblicazione del primo singolo house inglese della storia (“Carino” di T-com).
Aldilà di tutto gran parte del merito della diffusione della house (e della techno) nel Regno Unito va attribuita alle radio pirata che sdoganano suoni che non sarebbero mai potuti passare attraverso i circuiti nazionali: tra i primi pezzi passati c’è “Move Your Body” di Marshall Jefferson, singolo seminale che con il suo lussureggiante sfondo sonoro di archi e piano inventa di fatto la deep house, sottogenere dal tempo rallentato e dal suono vellutato che ben presto comincia a sostituire o affiancare ai suoni generati elettronicamente campioni prelevati da jazz e soul.
E’ un pezzo di Jim Silk, “Jack Your Body”, a catapultare la house verso la vetta della classifiche inglesi nel 1987, lo stesso anno in cui la celebre “Pump Up The Volume” dei M-A-R-S-S, pezzo interamente basato su samples, si mantiene alla numero uno per tre settimane.
Altrettanto seminali si rivelano i Soul II Soul, gruppo che fin dal 1988, anno d’uscita del primo singolo “Fairplay” viene allo scoperto con una miscela sonora indefinibile di dub, house e soul che per la prima volta fa intravedere le possibilità di un’elettronica inglese non derivativa ma originale e radicalmente differente da quello che si produceva oltreoceano, un’intuizione che si rivelerà seminale per lo sviluppo di stili come trip hop e drum’n’bass.
Nel frattempo il successo della house oltremanica fa si che essa, in particolare attraverso città come Londra e Manchester, diventi centro propulsivo e produttivo del genere a livello mondiale; si produce soprattutto acid house, comunque: “ReleaseYour Body” di Bang The Party e “Voodoo Ray” di A Guy Called Gerald sono le prime hit, ma anche la punta dell’iceberg di un fenomeno più ampio che, nel tentativo di emulare celebri club all’aperto di Ibiza come l’Amnesia, vede Paul Oakenfold organizzare a Londra lo Spectrum, primo party centrato sul consumo di ecstasy, per poi trasferirsi all’Hacienda di Manchester, dove nel 1988 si celebra la “summer of love”, cui seguirà nel 1989 la Love Parade di Berlino, il più grande evento dance della storia della musica nonché apice della rave culture.
Nel momento stesso in cui il fenomeno acid house raggiunge l’apice, con l’uscita di pezzi epocali come “Pacific State” degli 808 State (di cui fa parte lo stesso Gerald Simpson che aveva già firmato “Voodoo Ray”) e “What Time Is Love” dei Klf, e con la nascita dell’iconografia storica del genere, quella dell’onnipresente smile, succede un fatto ancora più importante: l’anno è il 1989 e per la seconda volta il mondo del rock e della dance si avvicinano.
Era già successo nei primi anni ’80 con la svolta dance dei New Order e la nascita del synth pop, ma se in quel caso gli effetti si erano fatti sentire soprattutto sul mondo del pop, questa volta sarà il rock cosiddetto alternativo ad uscirne radicalmente cambiato: a fare da ponte tra i due mondi troviamo alcuni gruppi seminali come Stone Roses, Happy Mondays e Primal Scream: sono gruppi che esaltano la componente psichedelica insita nell’acid house e la coniugano con la tradizione rock, (specie quella inglese degli anni ’60).
Gruppi peraltro diversissimi tra loro: gli Stone Roses, al debutto omonimo nel 1989, proseguono lungo la tradizione storica di Beatles, Kinks e Smiths, ma innestano le proprie ballate pop su loop ritmici di batteria e basso prelevati di forza dall’elettronica anni’80, come testimoniato da un pezzo come “Fools Gold”, probabilmente il momento più meticcio dell’intero disco.
Dove nei Roses prevale l’elemento rock, l’ago della bilancia si sposta prepotentemente verso la dance in “Bummed” (1988) degli Happy Mondays: il disco si basa su un uso massiccio di samples, una tecnica che, introdotta dall’hip hop, si stava imponendo sempre di più anche in ambito house (dai primi esperimenti dei M/A/R/R/S, ai dischi dei Klf, fino ad arrivare alla “nuova” house di Todd Terry).
Tra i due estremi si colloca una serie di bands che si formano e cominciano ad incidere sulle orme di questi due gruppi come Inspiral Carpets e Charlatans, dando vita al cosiddetto fenomeno baggy, che prende il nome dagli abiti larghi di moda al tempo.
Un altro gruppo, gli scozzesi Primal Scream, fino allora artefici di un noise pop non memorabile, con l’aiuto del produttore Andy Weaterhall firmano un disco, “Screamadelica” (1991) che riesce nell’impossibile compito di fondere psichedelia, acid house e Rolling Stones, chiudendo simbolicamente l’era del baggy, ormai giunta al capolinea a causa dei problemi creativi e personali dei sui protagonisti, e traghettandola verso gli anni ’90. Se il gruppo cambierà pelle un’infinità di volte, tornando all’elettronica nel 2000 con “XTRMNTR”, l’ondata dance-rock di Manchester si rivelerà un enorme influenza sul decennio successivo: da una parte la sua sintesi tra pop-rock dei ‘60s e Smiths sarà il trampolino di lancio per il movimento brit pop di metà anni ’90, dall’altra quell’avvicinamento tra mondi antitetici (della dance e del rock) si consoliderà sempre di più, creando un reciproco interesse tra i due universi che toccherà il suo apice col calderone meticcio del Big Beat.
Ma mentre a Manchester il rock si fonde con l’acid house, altre piccole rivoluzioni prendono piede a cavallo tra i due decenni: comincia a muovere i primi passi l’euro-dance, versione imbastardita e commerciale della house destinata a scalare le classifiche negli anni ’90 con artisti come 2Unlimited e Ace Of Base, l’acid house viene scalzata dal suo ruolo di colonna sonora dei rave party dalla techno hardcore (techno che assimila il breakbeat di scuola hip hop e il cui bpm viene sparato a velocità stellari) e dalla trance (techno ultramelodica nata dalle contaminazioni con l’euro-pop, caratterizzata da tappeti sonori sintetici e dal caratteristico crescendo a metà canzone).
Nel frattempo, negli Stati Uniti, culla originaria del genere la deep house diviene sempre più sinonimo di house di Chicago, mentre termini come garage house o jersey sound cominciano ad essere utilizzati per definire il suono della house di New York: se ne riparlerà più avanti…

45 – Industrial Metal

Il movimento baggy non è l’unico a celebrare, a fine anni ’80, l’improbabile matrimonio tra rock ed elettronica: nel 1988, anno della Summer Of Love di Manchester, esce “The Land Of Rape And Honey”, disco destinato a coniare un suono nuovo che prenderà presto il nome di industrial metal. A firmarlo sono i Ministry, gruppo di Chicago che fonde le ritmiche marziali e i suoni concreti dei Cabaret Voltaire e li sposa a riff chitarristici e ad un cantato di scuola metal: l’esperimento funziona, i due generi si alimentano delle rispettive psicosi soniche e il risultato è, se possibile, ancor più lugubre e minaccioso della somma delle parti.
Non sono però i Ministry a portare l’ibrido al successo di pubblico, bensì Trent Reznor, titolare della (quasi) one-man band Nine Inch Nails, all’esordio nel 1989 con “Pretty Hate Machine”: il disco viene ignorato alla sua uscita, ma nel giro di qualche anno diventa fenomeno di culto e quando nel 1994 esce the “Downward Spiral” il fenomeno esplode anche a livello commerciale. Se la voce si sparge così in fretta e così massicciamente il merito va assegnato alla lettura straordinaria del genere fatta da Reznor: senza rinunciare alle asperità sonore che sono alla base dell’industriale, anzi, esasperandone le distorsioni e la brutalità, egli riesce a creare un suono travolgente, che fonde il tiro ritmico della techno hardcore con una vena melodica irresistibile, che gioca sul contrasto, inserendo brevi momenti di quiete all’interno del maelstrom di rumore che anima i dischi.
L’influenza di questi dischi sul metal (e non solo) sarà enorme: Neurosis, Marilyn Manson, Fear Factory, Godflesh, Orgy, Coal Chamber sono solo alcuni dei gruppi che durante gli anni ’90 prendono le mosse dalle intuizioni musicali di Ministry e Nine Inch Nails. Diversissima è comunque la rilettura di quei suoni che viene data dai gruppi di cui sopra: quello dei Neurosis, all’esordio nel 1992 con “Souls At Zero”, è un industrial applicato al death metal più intransigente ed ostico, che raggiunge il suo apice con “Through Silver in Blood” (1996); altra fusione di death metal ed industriale è quella coniata dai Fear Factory, all’esordio nel 1992 con “Soul Of A New Machine”. Opposto è il percorso artistico di Marilyn Manson, all’esordio proprio per la label Nothing di Reznor nel 1994 con “Portrait of an American Family”: ben presto, fondendo le intuizioni sceniche di Bowie ed Alice Cooper, Manson creerà un glam metal spruzzato di industriale, basando in gran parte le sue fortune su una fortunata (dal punto di vista commerciale) miscela di satanismo ed ambiguità sessuale che trionfano nel disco del 1998 “Mechanical Animals”.
Un discorso a parte meritano pure i Coal Chamber, all’esordio omonimo nel 1997, cui segue nel 1999 l’ottimo “Chamber Music”, gruppo dalle sonorità molto vicine ai Korn e a quel nu-metal che sarà centrale per lo sviluppo del metal cosiddetto alternativo di fine anni ’90 e che nasce dall’ennesima, azzardata fusione: quella tra metal ed hip hop. Se ne riparlerà tra poco…

46 – Cantautori degli anni ’80 

La figura del cantautore, nata negli anni ’60 e cementatasi negli anni ’70 con un graduale slittamento dai temi politici a quelli intimisti di autori come James Taylor e Jackson Browne prosegue anche negli anni ’80 (e la si ritroverà, ovviamente, anche nei decenni successivi). Un fenomeno singolare caratterizza però questo decennio ed è la straordinaria esplosione di talenti femminili: di matrice folk (Suzanne Vega, Barbara Maninng e Tracy Chapman), country (Indigo Girls, Lucinda Williams e Victoria Williams), dream  pop (Sarah McLachlan ed Enya), folk celtico (Loreena Mc Kennit), blues (Michelle Shocked e Melissa Etheridge)  e urban (Sade e Neneh Cherry).
L’esordio del 1989 di Neneh Cherry, “Raw Like Sushi”, è probabilmente il più innovativo del mazzo, poiché nelle sue atmosfere narcotiche e trascinate si possono intravedere le prime avvisaglie di quel suono che di lì a qualche anno verrà definito trip hop: non è un caso che l’arrangiamento sia affidato ad un personaggio-chiave per la nascita di quei suoni, quel Nelee Hopper che ha già militato nel Wild Bunch, palestra anche di Massive Attack e Tricky.
Alle atmosfere narcotiche della Cherry ne subentrano altre, più sognanti, nei dischi di Sarah McLachlan, artista che, se raggiunge il capolavoro con “Fumbling Towards Ecstasy” (1993), fin da subito si pone come l’anello mancante tra Kate Bush e la Tori Amos più eterea. Riportano invece il folk in auge Suzanne Vega e Tracy Chapman: la prima erede fin dall’esordio omonimo del 1985 di quel suono sussurrato che è nato vent’anni prima con Leonard Cohen, la seconda al debutto (e capolavoro) nel 1988, in grado di conciliare una certa vena intimista con una denuncia sociale a tutto campo della decadenza economica e sociale dell’America di Bush Senior.
Inclassificabile e seminale si rivela poi Sinead O’Connor, all’esordio nel 1987 con “The Lion And The Cobra”, disco che svolazza tra hip hop, hard rock, dream pop e ballate celtiche, creando un suono atmosferico e immediatamente riconoscibile che raggiunge la perfezione nel successivo “I Do Not Want What I Haven’t Got” (1990). Figura pop inconsueta, la O’Connor si pone come figura antitetica a quella di Madonna nella perseveranza con cui impone un’immagine quasi asessuata di sé per far trionfare la propria figura artistica senza distinzioni sessuali o sessiste di sorta ed andare aldilà dello stereotipo della donna-oggetto: volontà di emancipazione che sarà fondamentale per cantanti degli anni ’90 come Liz Phair, Courtney Love ed Alanis Morisette.
La musica di Michelle Shocked e Phranc, la prima all’esordio nel 1986 con “The Texas Campire Tapes”, la seconda, un anno prima, col disco “Folksinger”, viene associata alla corrente anti-folk, movimento musicale politicizzato ed anti-reaganiano che nel corso degli anni ’80, alla lezione di Dylan associa l’esperienza musicale del punk. Vengono spesso inseriti nello stesso contesto anche Roger Manning (esordio omonimo per SST nel 1988) e il Billy Bragg di “Life’s A Riot” (1983) e soprattutto “Talking With the Taxman About Poetry” (1986), miscela di invettive politiche dylaniane e di suoni ruvidi che paiono quasi riecheggiare i Clash. Si tratta di una corrente musicale legata in gran parte alla particolare circostanza musicale e politica dell’epoca, ma la stessa attitudine musicale la ritroveremo anche durante gli anni ’90 nel punk-folk di quella che può essere per molti versi ritenuta come l’erede spirituale del movimento: Ani Di Franco.
C’è poi tutta una serie di artisti che intraprendono la carriera solistica dopo aver fatto parte di gruppicardine della scena post-punk e new wave come Julian Cope (Teardrop Explodes), Robyn Hitchcock (Soft Boys), David Thomas (Pere Ubu), Stan  Ridgway Wall Of Voodoo), Sting ( Police) e Barry Adamson (Magazine e Bad Seeds). Se in alcuni casi gli ex-frontman proseguono (seppur con ovvi aggiustamenti stilistici) il discorso musicale cominciato con i gruppi d’appartenenza, come avviene nel caso di Cope, Hitchcock e Thomas, in altri casi il distacco comporta una svolta artistica più netta: così Sting dal punk-reggae dei Police passa ad un pop-rock colto e raffinato contaminato di jazz, classica e world music, mentre Barry Adamson si mette sulle orme di John Barry ed Ennio Morricone, componendo colonne sonore per film noir immaginari. Inclassificabili sono Daniel Johnston e Momus: il lo-fi del primo, immortalato in gran parte su cassette registrate in casa come “Hi How Are You” (1981) e “Yip/Jump Music” (1983), si colloca in quella strana zona d’ombra che vede il talento musicale incontrarsi con la follia, dove già siedono Brian Wilson, Syd Barret e Roky Erickson. Momus è invece autore di una musica che è synth pop solo nell’apparenza (e nella strumentazione), ma in realtà segue la tradizione di quel pop barocco e melodrammatico iniziato con Jacques Brel, proseguito attraverso Scott Walker e che negli anni’90 rifiorirà attraverso i dischi di Divine Comedy, Jack e Tindersticks.

47 – Dal grunge al nu metal 

Se gli anni ’90 segnano definitivamente il crollo delle barriere stilistiche e degli steccati storici tra stili, il metal è probabilmente il genere che più di tutti porta su di sé i segni di questo cambiamento: il fenomeno grunge è solo una prima avvisaglia della rivoluzione imminente. Le origini del non-movimento di Seattle risalgono alla metà degli anni ’80, per la precisione al 1985, anno dell’esordio discografico dei Green River, seminale band di cui fanno parte futuri membri di Pearl Jam e Mudhoney: il disco in questione è “Come On Down” e già ha dentro di sé tanti dei semi che germoglieranno di lì a poco nella rigogliosa scena cittadina.
Da una parte ci sono due fan dichiarati degli Iron Maiden come il bassista Jeff Ament ed il chitarrista Stone Gossard (futuri Pearl Jam), dall’altra un vocalist come Mark Arm (futuro Mudhoney) che si prodiga il più possibile per far rivivere lo spirito di Iggy Pop; il risultato è uno strano ibrido tra hard rock e garage punk, una fusione ancora acerba che prefigura il vero elemento distintivo e denominatore comune della scena grunge: una fusione illecita ed inedita di punk e metal che apre la strada ad un’infinita serie di ibridi durante il decennio seguente. Il connubio eretico tra i due generi si ripresenta un paio d’anni dopo con “Gluey Porch Treatments” dei Melvins, fenomeno anomalo di gruppo post-punk dedito a ricreare le atmosfere tetre e minacciose dei Black Sabbath.
Quando nel 1988 esce la raccolta “Sub Pop 200” i ranghi  del movimento di Seattle sono già praticamente completi: Mudhoney, Nirvana, Screaming Trees e Soundgarden sono tutti presenti all’appello a dar lustro ad una scena cittadina che non è mai stata così eccitante: basta tuttavia un rapido ascolto per rendersi conto di quanto le sonorità di questi gruppi siano radicalmente diverse tra loro. I Soundgarden, all’esordio lo stesso anno con “Ultramega OK”, si rivelano il ponte ideale tra il mondo del metal e quello  dell’hardcore: il loro suono riprende gli scuri riff Sabbathiani ed il cantato di Chris Cornell più di una volta porta a fare il nome di Robert Plant, ma la struttura dei pezzi è asciutta, essenziale e poco concede agli onanistici virtuosismi del metal,baciata piuttosto da una forte vena psichedelica che ritroveremo anche nei dischi successivi del gruppo, da “Louder Than Love” (1990) a “Superunknown” (1994), il capolavoro del gruppo.
Vena che scorre ancora più forte attraverso i solchi dei dischi degli Screaming Trees di Mark Lanegan nel 1988 al terzo disco con “Invisible Lantern” (uscito per SST): il loro suono è una versione, solo leggermente indurita, del garage-rock più psichedelico degli anni ’60; il percorso artistico del gruppo non è però destinato a fermarsi lì e quando, nel 1991, esordiscono per la Epic il suono ha già subito una forte virata verso roots e folk, svolta che verrà approfondita da Lanegan lungo una formidabile carriera solista cominciata a metà anni ’90 dopo lo scioglimento del gruppo. Tutt’altro tipo di garage è quello che circola nei dischi dei Mudhoney, decani della scena di Seattle per i quali viene forgiato il termine grunge e primo vero successo della seminale Sub Pop: al discreto esordio omonimo del 1989 segue l’ottimo “Every Good Boy Deserves Fudge” (1991), miscela folle di generi e stili che non si allontana però mai troppo dalle coordinate centrali del suono del gruppo, rilettura in chiave metal del garage punk di Stooges ed Mc5.
Ma la sintesi più formidabile di stili e sonorità arriva con i Nirvana: fin da “Bleach” (1989) ma ancor di più in Nevermind (1991) il gruppo di Kurt Cobain da vita ad un suono che fonde Black Sabbath (via Melvins), il power pop più hard (stile Cheap Trick), l’alternative di origini hardcore di gruppi come Meat  Puppets ed Husker Du e il noise-rock dei Pixies, riuscendo nella straordinaria impresa di suonare pop: un pop abrasivo, violento, ma comunque abbastanza accattivante da far crescere in maniera smisurata il culto del gruppo nel giro di due anni, facendo di “Nevermind” una svolta epocale per la musica alternativa: il grunge diventa fenomeno commerciale miliardario, gli allora misconosciuti gruppi citati da Cobain vengono riscoperti e studiati (dai Sonic Youth ai Melvins, dalle Raincoats ai Meat Puppets) consacrando e facendo emergere definitivamente quell’universo musicale indie che si è lentamente formato durante gli anni’80: è la nascita dell’alternative rock anni’90. L’uscita di “Nevermind” avviene per la Geffen e segna l’esplosione commerciale del genere: un primo accenno c’è già stato un anno prima, quando l’A&M ha messo sotto contratto i Soundgarden, mentre gli Screaming Trees firmano per la Epic. Il boom commerciale è solo la punta dell’iceberg (commerciale) di un fenomeno (musicale) che, come si è visto, affonda le sue radici nei tardi anni ’80: tuttavia, nel momento in cui i gruppi di Seattle si trovano, quasi per caso, a dominare le classifiche americane il “blasfemo” incontro tra punk e metal viene automaticamente legittimato ed il metal tradizionale (e tradizionalista) si trova di fronte al fatto compiuto, assistendo al tramonto di steccati ideologici e stilistici decennali.
Molto vicini musicalmente all’universo metal tradizionale gli Alice In Chains di “Dirt” (1992), con una miscela musicale che gira sempre dalle parti di Sabbath e Stooges ma in cui la componente metal tende a prevalere, sia nel cantato sia nelle atmosfere gotiche che permeano il disco. L’unico gruppo a poter rivaleggiare in popolarità con i Nirvana sono comunque i Pearl Jam: la band, nata dalle ceneri di Green River e Mother Love Bone, fin dall’esordio del 1991 “Ten” crea un suono che riconcilia il grunge con il rock più tradizionale, specie quello di Neil Young, smussando le asperità punk dei Nirvana e quelle metal di Soundgarden ed Alice in Chains e rendendo il grunge universale; non stupisce quindi che Vs. (1993), secondo disco del gruppo, venda un milione di copie in una sola settimana, segnando l’apice commerciale di un genere che allo stesso tempo si avvicina alla sua fine. Di lì ad un anno una serie di eventi, dalla morte di Cobain all’apparizione di suoi emuli come i Bush, lontani anni luce dall’universo underground di Seattle in cui il grunge era germogliato, lasciano presagire la fine di un’epoca.
Se l’onda anomala di Seattle è destinata a frantumarsi in mille pezzi, gli effetti del suo passaggio cominciano a farsi sentire da subito: non solo per gli infiniti cloni di Cobain e compagnia che cominciano ad invadere le frequenze di Mtv e ad abitarle con assiduità più o meno costante per gran parte degli anni’90, (dai Bush ai Silverchair, dai Creed ai Days Of The New), ma anche per la scossa che quel ciclone ha dato non solo al metal quanto piuttosto alla musica alternativa in generale.
Se il grunge è il più importante fenomeno di massa dei primi ’90 altre piccole schegge impazzite cominciano ad incastrarsi, rivelandosi pezzi di un mosaico musicale che nel giro di pochi anni sarà definito crossover, un termine passpartout ad indicare le infinite fusioni ed ibridazioni cui sarà sottoposto il metal durante i ’90: c’è la comparsa di un suono metal scurissimo e fortemente influenzato dall’hardcore in “Vulgar Display Of Power” dei Pantera (1992); c’è il metal psichedelico e contaminato dei Jane’s Addiction di “Ritual De Lo Habitual” (1990) e dei Tool di “Undertow” (1993) e del capolavoro Aenima (1996); c’è il rap-metal: è del 1989 “The Real Thing” dei Faith No More di Mike Patton, tra i primi dischi a miscelare metal e rap, del 1991 è “Bring The Noise”, pezzo nato dall’incontro tra Anthrax e Public Enemy (seguito ideale dell’esperimento di un lustro prima che aveva avuto come protagonisti Aerosmith e Run DMC), soprattutto c’è, nel 1989, la trionfale ascesa commerciale dei Red Hot Chili  Peppers  con Mother’s Milk.
La componente rap nella musica del gruppo è comunque meno rilevante rispetto all’elemento funk, vero protagonista di un crossover musicale che affonda le radici nell’esordio omonimo del 1984, uscito sotto l’egida di George Clinton in persona, continuazione del discorso cominciato dai gruppi p-funk ad inizio anni ’80. Se il discorso musicale del gruppo si evolve col passare degli anni, passando dal funk-hardcore degli inizi al metal-funk evoluto di “Mother’s Milk”, altri si affiancano al gruppo nell’operazione di sintesi fra generi: dai già citati Faith No More ai Fishbone di “Truth And Soul” (1988), disco in cui il funk è solo un tassello di un puzzle musicale intricato che incasella nel suo rock meticcio anche soul e ska, fino ad arrivare ai Primus di “Frizzle Fry” (1990), crossover quasi Zappiano per varietà e vastità delle influenze.
Se nella musica di questi gruppi il cocktail vede prevalere, come si diceva, l’elemento funk su quello rap, la proporzione si inverte nell’esordio omonimo del 1992 dei Rage Against The Machine, che da gruppi come Red Hot e Faith No More discendono direttamente, fondendo le coordinate metal-funk con l’invettiva politica di gruppi come Mc5 e Public Enemy: il suono del gruppo è duro ed abrasivo ma il successo è immediato, probabilmente anche grazie a quel clima d’apertura mentale che si instaura nei primi anni del boom grunge, costituendo una tappa fondamentale lungo la strada che conduce alla nascita del crossover metal-rap.

Altrettanto fondamentale è l’uscita, nel 1993, della colonna sonora di “Judgement Night”, interamente strutturata su incontri-scontri tra crew hip hop e gruppi metal ed hardcore, a spianare la strada a quello che sarà uno dei dischi più influenti dei ’90: l’esordio omonimo, del 1994, dei Korn. Il disco è una sintesi perfetta e scurissima dei tanti spunti offerti e delle tante sperimentazioni avvenute in ambito metal nel periodo a cavallo tra ’80 e ’90: la cacofonia dell’industriale, il crossover dei Faith No More, la chitarra di Morello, si fondono in un suono “nuovo” su cui troneggia la voce psicotica di Jonathan Davis e le chitarre livide di Shaffer e Welch. Il disco, nonostante la bassa esposizione mediatica, diventa un successo e quando dopo l’ottimo “Life Is Peachy” (1996), il gruppo pubblica a fine ’90 “Follow the leader”, nel titolo prende semplicemente atto della folta schiera di seguaci che si è formata: Deftones, Coal Chamber, Limp Bizkit, Incubus,  Orgy, System Of A Down, Glassjaw e P.o.d. sono solo alcuni dei gruppi che, negli anni successivi prendono le mosse dalle sonorità del gruppo, ognuno, ovviamente, apportando varianti sul tema portando questa forma di crossover, cui sarà dato il nome di nu-metal, a dominare le classifiche (oltre che la scena metal stessa).
A dire il vero la nomea di discepoli dei Korn ai Deftones è sempre andata un po’ stretta: il gruppo, all’esordio nel 1995 con “Adrenaline”, più probabilmente si rifà alle stesse coordinate musicali del gruppo di Davis, Faith No More su tutti. Ma all’equazione musicale vanno aggiunti altri elementi che portano il suono del gruppo, specie in “Around The Fur” (1997), a distinguersi dagli altri gruppi dell’arena nu-metal: da una parte i Deftones paiono proseguire idealmente lungo la strada intrapresa dai gruppi grunge più spiccatamente metal (Soundgarden ed Alice In Chains su tutti), dall’altra c’è l’ombra sonora di gruppi come Pantera e Tool, a creare un suono ed un percorso artistico individuale che li porterà nel 2000 al relativo ammorbidimento di “White Pony”.
Più in generale, anche per i gruppi che realmente dal suono dei Korn discendono, le varianti sono infinite: gli Orgy con “Cancyass” (1998) creano una strana fusione di nu-metal e synth pop mentre in “Everything You Wanted to Know About Silence” (2000) il suono dei Glassjaw sembra fare capolino dalle parti del rock ultradepresso dei Radiohead; tra i due dischi si colloca cronologicamente l’esordio omonimo del 1998 dei System Of A Down, in cui il gruppo riesce brillantemente a far risaltare nel tessuto del proprio crossover la matrice folcloristica armena. Ma sono i Limp Bizkit che, nel 1997, con un disco come “3 Dollars Bill ‘ya”, dal suono più marcatamente hip hop, traghettano definitivamente il genere nel mainstream rendendolo presenza fissa dei palinsesti di Mtv: dove un gruppo come i P.o.d. arriva in vetta alle classifiche pur preservando le asperità del genere, altri, come i Sevendust, conducono il nu-metal per mano verso i rassicuranti lidi del pop.
Ma mentre il crossover scala le classifiche, dietro le quinte altri portano avanti quanto seminato dal grunge, in particolare il recupero dell’hard rock acido dei primi anni ’70; quando escono “Spine of God” (1991) dei Monster Magnet , e “Blues For the Red Sun” dei Kyuss (1992) il termine stoner non esiste ancora ma le sue sonorità sì: recupero dell’hard rock più dilatato e lisergico, metal desertico attraversato da un fuzz insostenibile di chitarra e da un basso cavernoso, che fa rivivere i suoni di Black Sabbath, Blue Cheer e Hawkwind. Quando, nel 1996, i Kyuss si congedano con l’esplicito titolo “…And the Circus Leaves Town”, il genere può dirsi nato e le fila degli adepti a quel suono si stanno già ingrossando: tra loro spiccano i Fu Manchu (dal cui split nasceranno i garage-stoners Nebula), Atomic Bitchwax e gli Sleep, questi ultimi decisi ad esasperare il suono dilatato e ipnotico del genere arrivando, nel 1999, a pubblicare “Jersualem”, sorta di suite stoner della durata di un’ora circa.
Direzione opposta a quella intrapresa dai Queens of the Stone Age, gruppo fondato dal chitarrista Josh Homme, dal batterista Alfredo Hernandez e dal bassista Nick Olivieri in seguito alla diaspora dei Kyuss (che porta anche alla nascita degli Unida, gruppo dell’ex-vocalist del gruppo John Garcia): se l’omonimo debutto del 1998 ed il successivo “R” (2000), già integrano e spingono il suono stoner iniziale in direzioni nuove, è con “Songs for the Deaf” (2002) che il gruppo trova la quadratura del cerchio: il disco è una specie di bignami dell’hard rock (e non solo): dai Cream all’hard rock dei Led Zeppelin, dal grunge (tra le fila del gruppo militano ora Dave Grohl e Mark Lanegan) allo stoner (ma non mancano spunti garage punk e folk).
Lo scioglimento dei Kyuss non è l’unico evento da ricordare del 1996. Lo stesso anno escono, infatti, due dischi seminali: il primo è “Roots” dei Sepultura, gruppo che arriva con questo disco alla fine (e all’apice) di un percorso che l’ha condotto dal trash metal di “Morbid Visions” (1986) ad un suono che recupera le origini tribali amazzoniche (il gruppo è brasiliano) e che apre la strada a formazioni, come Puya e Cafè Aucuba, che scaldano le scure atmosfere metal con le proprie ascendenze latine.
L’altro disco-chiave del 1996 è “Supershitty to the Max” degli  Hellacopters, disco che annuncia l’invasione di gruppi scandinavi alle porte: il gruppo segue idealmente la tradizione degli svedesi Hanoi Rock e porta avanti quella sintesi di garage ed hard rock che sarà uno degli elementi comuni di un fenomeno vastissimo che, come si diceva, ha come epicentro la penisola scandinava. Fenomeno importante che rappresenta anche uno dei primi segnali di quella rinascita del rock’n’roll che esploderà nel nuovo millennio: se ne parlerà più avanti…

48 – Dal postcore all’emo

Col termine postcore ci si riferisce ad una variante (o meglio, un’evoluzione) dell’hardcore che vede la struttura relativamente lineare del primissimo hardcore californiano e di quello Washingtoniano crescere per complessità ed influenze; il suono non si addolcisce, tutt’altro, ma muta in modi imprevedibili: le ritmiche si spezzano, le sequenze melodiche vanno oltre i soli tre accordi, le dinamiche dei pezzi sono turbate da contrasti continui tra momenti di relativa quiete ed esplosioni di rumore. Non c’è comunque una formula, ma una serie di formazioni che vanno a costituire un suono del tutto nuovo che si rivelerà di enorme influenza per innumerevoli gruppi noise, emo o post rock.
I primi passi verso la nascita di questa sorta di hardcore progressivo sono, da una parte, i dischi dei Minutemen, autori di un hardcore meticcio contaminato da jazz, funk e folk mai più eguagliato, dall’altra due gruppi di Chicago come i Naked Raygun di “Throb Throb” (1985) e i Big Black di “Atomizer” (1986): bands che spingono il tasso di aggressività dell’hardcore a livelli mai sentiti prima, captando allo stesso tempo influenze noise e metal ed introducendo poliritmie e dissonanze. I Big Black sono capitanati da Steve Albini, figura-chiave per lo sviluppo del noise in tutte le sue possibili varianti e declinazioni, non solo come chitarrista e vocalist del gruppo menzionato (e degli Shellac poi) ma anche in veste di produttore e/o tecnico del suono: Pixies, Breeders, Jon Spencer Blues Explosion e i Nirvana di “In Utero” (1993) sono solo alcuni dei gruppi che passeranno sotto le sue esperte mani.
Cambiando scena e spostandoci nella Washington del movimento straight edge troviamo invece gli Embrace di Ian Mac Kaye (ex Minor Threat) e i Rites Of Spring di Guy Picciotto: non solo i due andranno di lì a poco a formare il gruppo che del postcore rappresenta il simbolo (ed uno dei punti più alti), cioè i Fugazi, ma ai primi è attribuita l’invenzione dell’emocore, genere che da metà anni’90 diventerà uno dei filoni principali del rock cosiddetto “alternativo”. A metà anni ‘80, infatti, Mac Kaye abbandona, almeno in parte, i toni gridati dei Minor Threat e comincia a cantare, mette un freno ai tempi affannosi dell’hardcore e v’introduce un contenuto emozionale che non è più soltanto semplice sfogo di rabbia, così come testimoniata nella raccolta postuma omonima del 1987, pubblicata dalla sua Dischord.
È un suono che ritroviamo anche nei dischi dei Rites Of Spring (un vinile omonimo del 1985 e, anche qui, una raccolta postuma del 1991, “End on End”, sempre edita dalla Dischord): fattore emozionale altissimo e testi introspettivi che li rendono complici nell’invenzione del genere. Quando nel 1987 Mac Kaye e Picciotto si uniscono sotto la sigla Fugazi l’evoluzione del loro suono (e di quello dell’hardcore in generale) prosegue ulteriormente: i primi album a uscire a loro nome sono la raccolta dei due EP del gruppo (“13 Songs”) e l’album “Repeater” (1990): se è il gruppo nel complesso a brillare, l’attenzione viene catalizzata dalle invenzioni e dalle schermaglie ritmiche di Joe Lally e Brendan Canty (basso e batteria), che introducono nell’hardcore la complessità ritmica del post-punk più frenetico.
Il suono del gruppo non si cristallizzerà mai, andando ad avvicinarsi, almeno in parte, alla forma canzone, conciliando però tale passaggio con sperimentazioni sonore sempre nuove, tenendo sempre in primo piano il contrasto tra calcolo cerebrale e sfogo emozionale, tra momenti di quiete ed esplosioni soniche, in una formula che trova uno dei suoi momenti più felici in “Red Medicine” (1995), disco in cui il gruppo trova il suo equilibrio perfetto. Accanto ai gruppi di Chicago e Washington menzionati, un altro si rivelerà fondamentale per le evoluzioni future del postcore e del rock cosiddetto alternativo: sono gli Squirrel Bait, di Louisville, solo due album all’attivo (un EP del 1985 e un album del 1987, “Skag Heaven”) ed un suono che se ricorda da vicino nelle sonorità i più famosi Husker Du, ingloba d’altra parte scorie progressive che germoglieranno nei gruppi che i due chitarristi del gruppo andranno a formare. Brian McMahan, infatti, fonderà gli Slint, mentre David Grubbs entrerà nei Bastro: non due gruppi qualsiasi, bensì i due pilastri su cui si costruiranno le fondamenta del cosiddetto post rock, di cui si parlerà più tardi.
Se questi gruppi spianano la strada a nuove possibilità, non tardano ad affacciarsi sulla scena gruppi intenzionati ad esplorarne le diverse sfaccettature: sulle orme dei Naked Raygun e dei Big Black si mettono formazioni come Helmet, Jesus  Lizard, Shellac (guidati sempre da Steve Albini), Chavez ed Unsane, giusto per citarne alcuni, gruppi accomunati da un noise-core dalle forti tendenze metal. Gli Helmet di Page Hamilton, debuttano nel 1991 con ”Strap It On”, un suono abrasivo che è una sorta di via di mezzo tra Black Flag, Big Black e Sonic Youth e arrivano col successivo “Meantime” (ancora una volta Albini alla produzione) al successo commerciale e alla piena realizzazione musicale.
Dovendo però trovare un vero erede dei Big Black il primo nome che viene alla mente sono i Jesus Lizard di “Head“ (1990),  dove Albini partecipa ancora una volta in veste di produttore: il suono del gruppo è una sintesi stridente e abrasiva di industriale, hardcore e metal che raggiunge il suo apice nel successivo “Goat”, del 1991. Più propriamente hardcore il suono degli Unsane, gruppo proveniente da quella New York che, dai Velvet Underground  agli Swans, passando ovviamente per i Sonic Youth, aveva dato i natali al suono noise, ma in cui si era anche affermato un suono hardcore particolarmente duro ed intransigente, con gruppi come Gorilla Biscuits e Sick Of It All: due fenomeni che nell’esordio omonimo del 1991 del gruppo trovano una sintesi perfetta quanto brutale.
Se il noise-core, più legato all’influenza dei gruppi di Chicago, costituisce il versante più distruttivo del postcore, altri gruppi ne sviluppano il lato più progressivo, lo stesso che caratterizza il suono dei Fugazi: il gusto per la tensione, per il contrasto, per le ritmiche fratturate e ricomposte e il desiderio di contaminarsi sono tutti elementi che accomunano gruppi come The Nation of  Ulysses, Jawbox, Shudder To Think (che peraltro incidono tutti proprio per la Dischord di Ian McKaye). I primi del lotto, al debutto nel 1991 con “13-Point Program to Destroy America” creano un’incredibile miscela di hardcore, garage, funk e gospel (che loro definiscono gospel ye-ye): un’intuizione che aggiorna agli ’90 la lezione del p-funk sposandola ai suoni di Detroit e che ispirerà molti dei gruppi in auge nel decennio successivo, tra cui Les Savy Fav, Hives e soprattutto International Noise Conspiracy; sciolte le fila del gruppo il leader Ian Svenonius svilupperà ulteriormente questi suoni, prima coi Make-Up e più tardi coi Weird War.
Dove i Nation Of Ulysses sposano post hardcore e negritudine i Jawbox mantengono invece il baricentro musicale della propria musica a metà strada tra Washington e Chicago fin dal debutto del 1991 “Grippe”, anticipando gruppi come Unwound e Quicksand; le coordinate musicali non cambiano, ma il suono fa più maturo nel terzo disco del gruppo, “For Your Own Special Sweetheart” (1994), uno dei primi dischi postcore ad uscire su major (cosa che non verrà particolarmente apprezzata dai fan che giudicheranno la cosa un tradimento alla filosofia punk, in un copione già visto migliaia di volte dai tempi dei Clash). Sempre nel 1994 e sempre su major arrivano al loro disco migliore gli Shudder To Think, con “Pony Express Record”, disco in cui la vena progressive del post rock raggiunge picchi assoluti, fusione di hardcore, metal, jazz e indie che è equamente divisa tra pop e sperimentazione.
Ma il 1994 è anche l’anno in cui germoglia un altro dei tanti semi piantati a Washington a fine anni’80: in “Diary”, debutto dei Sunny Day Real Estate, vengono infatti sviluppate le intuizioni  di Embrace e Rites Of Spring, rielaborandone i suoni e le atmosfere introspettive e definendo l’emocore una volta per tutte: il suono è ammorbidito rispetto a quello dei gruppi citati e qua e là si fanno anche sentire influenze grunge (il disco esce per la Sub Pop, peraltro), ma mantiene quel contrasto tra calma e quiete e quella vena introspettiva e melanconica che erano e restano elementi distintivi del genere; genere che con questo disco emergerà dall’underground in cui fino a quel momento aveva sedimentato per diventare fenomeno musicale di dominio pubblico: sono le basi per un successo che porterò l’emo a divenire uno dei terreni più battuti dal rock alternativo della seconda metà dei ’90.
L’ascesa del genere da lì in poi è rapida e costante ed è agevolata dall’esplosione commerciale di punk-pop ed hardcore melodico di metà anni ‘90: Braid, Texas Is The Reason e Promise Ring sono tra i primi, seguono a ruota Mineral, Jets To Brazil, Get Up Kids, Rainer Maria e Jimmy Eat World, tutti gruppi che si allontanano sempre di più dalle asperità del postcore e che ne accentuano in parte la sopita vena pop. Così, se nel debutto del 1995 dei Braid “Frankie Welfare Boy Age Five” il suono è tutt’altro che radio friendly, cosparso di stop&go spiazzanti e di virate dissonanti, nel capolavoro del gruppo, “Frame & Canvas” (1998), la vena pop brilla nitidamente. Insieme ai Braid, a popolarizzare l’emo contribuiscono comunque abbondantemente gruppi come Jimmy Eat World, Promise Ring e Get Up Kids, i primi con un suono che rilegge gli Weezer in chiave emo, gli altri due autori di due dei più bei dischi dell’intero panorama emo: “30° Everywhere” (1996) e “Something to Write Home About” (1999), rispettivamente.
La virata in senso pop dell’emo non è pero fenomeno universale come dimostrano i texani At The Drive In: in un percorso che incomincia nel 1996 con l’esordio “Acrobatic Tenement”, più postcore che emo, arrivano nel 2000 ad un disco che è contemporaneamente loro canto del cigno ed apice artistico: si tratta di un disco emo in senso lato, tanti sono gli spunti e le idee contenute, dalla struttura imprevedibile e dall’impatto emotivo devastante. Il percorso sonoro su cui si spingeranno dopo lo scioglimento del gruppo Cedric Bixler and Omar Rodriguez  (rispettivamente voce e chitarra del gruppo) con i Mars Volta sarà ancora più libero e contaminato, e fonderà con la matrice hardcore la psichedelia, il metal ed il free jazz, coronando in “De-Loused in the Comatorium” (2003) e “Frances the Mute” (2005) quella spinta verso il progressive che il post-core ha sempre fatto, pudicamente, intravedere.

49 – Dal gangsta rap al nu soul 

Come si è visto in precedenza, per tutti gli anni ’80 la capitale dell’hip hop indiscussa è sempre stata, fin dall’inizio, New York e, più in generale, l’east coast: lì ha preso vita il cosiddetto suono old school, forma primordiale di rap coniata da figure seminali come Grandmaster Flash e Afrika Bambataa; da lì provengono etichette come Def Jam e Tommy Boy attorno alle quali graviteranno gran parte dei rappers della cosiddetta età dell’oro dell’hip hop: Run Dmc, Eric B & Rakim, LL Cool J, i Beastie Boys, (primi bianchi a cimentarsi col genere anni prima di House Of Pain ed Eminem), il collettivo Native Tongues; lì, attraverso Public Enemy e Boogie Down Productions (KRS-One e Scott La Rock), si sviluppano le prime forme di hardcore rap, versione integralista e brutale dell’hip hop, nelle liriche e nei suoni.
I Boogie Down Productions di “Criminal Minded” (1987), in particolare, che posano armati sulla copertina del disco, sono tra i primi a mostrare la faccia più aspra dell’hip hop, senza l’intento moralistico dei Public Enemy, ma semplicemente tracciando un resoconto spaventoso della vita nel Bronx. Sono le radici del gangsta rap, il genere che porterà alla ribalta il rap della costa ovest: il primo è Ice-T, nel 1987, con “Rhyme Pays”, ideale gemello “occidentale” di “Criminal Minded” nel descrivere la vita di South Central, ghetto nero di Los Angeles. Segue ”Straight Outta Compton” (1989) disco dei N.w.a. che parte da dove i dischi di Ice-T avevano lasciato e rincara la dose, aumentando ulteriormente la dose di brutalità e violenza.
Ben presto il gangsta rap diventa un vero e proprio filone, di enorme successo commerciale peraltro, marcato in gran parte dalla sapiente produzione di Dr. Dre: non solo “DoggyStyle” di Snoop Doggy Dog (1993) e “All Eyez On Me” di 2Pac (1996), ma anche “Slim Shady Lp” (1999), esordio di Eminem che vedrà per la prima volta un rapper bianco portare avanti la tradizione dell’hardcore rap, massimizzando, come sempre è successo nella storia della musica, gli incassi e spostandone nel frattempo le coordinate da Los Angeles a Detroit. D’altra parte, non tutto il rap prodotto in California (e dintorni) è necessariamente gangsta: da qui provengono anche campioni del rap più commerciale e pop come Mc Hammer  e Coolio e degli eroi del rap alternativo come i Cypress Hill, all’esordio omonimo nel 1991.
Ribaltando il discorso, non tutto il gangsta viene necessariamente dalla California: l’esordio del 1993 del Wu-Tang Clan “Enter the Wu-Tang” riporta l’attenzione sull’east coast, riprendendo il discorso hardcore rap interrotto anni prima da Public Enemy e Eric B & Rakim, con una simbologia e con sonorità originalissime e lontanissime dall’iconografia gangsta; se gran parte dei nove componenti del collettivo diventerà celebre, in particolare GZA-Genius, RZA, Ol’ Dirty Bastard e Method Man il gruppo spalanca d’altra parte le porte per l’ascesa di rapper come Nas, Jay-z, Busta Rhymes e Notorius B.i.g.: quest’ultimo, in particolare, con “Ready to Die” (1994) conia quella che può essere visto come la risposta della costa est al gangsta della costa rivale, in un disco che sposa le cronache brutali ormai di rito con sonorità più morbide, a tratti quasi pop, e che fa emergere la Bad Boy, etichetta personale di Puff Daddy ( ora noto come P. Diddy).
È lui il principale artefice di quel suono un po’ leccato, al confine con l’urban, che segna tutte le uscite della sua etichetta: da “Faith”, esordio di Faith Evans del 1995 al suo “No Way Out” (1997), passando per “Harlem World”, esordio del 1997 di Mase; un suono che incontra immediatamente un incredibile successo commerciale e che frutta a Puff Daddy e alla sua cricca miliardi, ma che viene aspramente criticato dai fan dell’hip hop, tanto da divenire una delle cause scatenanti di quel ritorno alle radici (quindi ai suoni dell’old school) che si registrerà a fine anni ’90, prima a livello underground, poi anche nelle produzioni mainstream.
Tornando al gangsta, è da notare come esso incontri anche i favori del pubblico giamaicano, da anni legato ad un genere come  il dancehall che, per molti versi, ne ha anticipato di anni le atmosfere (esattamente come i toasters avevano anticipato il rap). Dancehall che, per la cronaca, nel 1985 va incontro ad una piccola rivoluzione: quando quell’anno Wayne Smith utilizza per la prima volta come base per il suo singolo “Under Me Sleng Teng” una  tastieraina Casio al posto del solito disco dub/rocksteady, decine di produttori seguono il suo esempio, spinti anche dai vantaggi economici che quella scelta comporta (permettendo di sostituire una vasta collezione di dischi con un semplice strumento elettronico): è così che, a metà anni ’80, il dancehall diviene elettronico, incontrando il favore delle generazioni più giovani e da esse eredita il suo nuovo nome, raggamuffin, termine che sta ad indicare in Giamaica la gioventù di Kingston.
Di lì a poco il genere comincia ad includere le tecniche di campionamento dell’hip hop mentre i contatti tra i due mondi, come si diceva, si saldano: negli anni ’80 Yellowman collabora con i Run Dmc e pochi anni dopo, il suo erede Shabba Ranks, ne segue le orme unendo le sue forze a Krs-one formalizzando, di fatto, il crossover tra ragamuffin e rap.
Il disco che ospita la collaborazione, “As Raw as Ever” (1991) è un successo e fa di Ranks il più popolare cantante dancehall del mondo, mentre la sua miscela musicale spalanca le porte ad artisti come Shaggy e Sean Paul, che negli anni successivi trovano il successo con un crossover ancora più spinto e commerciale. In direzione opposta si muovono coloro che portano avanti la tradizione più controversa (per il forte contenuto razzista e omofono) del dancehall e la rivestono con l’immaginario gangsta: cantanti come Mad Cobra, Ninjaman, Capleton e Buju Banton. Sennonché, a metà anni ’90, gran parte di loro si converte alla dottrina rasta, affiancandosi ad artisti come Sizzla e Tony Rebel sulla strada della predicazione sociale e religiosa: spicca Buju Banton, che, folgorato sulla via di Damasco e portato sulla retta via dall’uccisione di due amici, passa dal gangsta-ragga di “Voice of Jamaica” (1993) ad un “Til Shiloh” (1995) imbevuto di dottrina rasta. Il crossover tra rap e dancehall viene portato avanti più tardi anche da crew come Ward 21 e T.o.k. , questi ultimi autori del super meticcio “My Crew, My Dawgs”, disco che ben esemplifica lo strano ibrido di queste nuove leve, ispirate da crew americane come Wu-Tang Clan e Nwa e cresciute con Mtv ascoltando Shaggy e Boyz II men.
Di tutt’altro tipo la contaminazione tentata da artisti come Gang Starr, Brand Nubian, Digable Planets, Us 3 e Roots, tutta gente impegnata attivamente nel combinare jazz e rap: se la formula del jazz-rap tende ad essere sempre la stessa (ritmiche hip hop combinato con l’utilizzo di campioni di musica jazz), diversi sono i risultati ottenuti. I primi a tentare la fusione sono i Gang Starr, duo composto da Guru e Dj Premiere, che esordisce con “No More Mr. Nice Guy” (1989) per arrivare alla piena maturazione di quel suono meticcio nel 1991 con “Step in the Arena“; di lì a poco Dj Premiere diventa il produttore più importante della costa est (passano sotto le sue mani Krs-one, Notorius B.i.g., Nas, Jay-z e Mos Def), mentre Guru produce “Jazzmatazz” (1993), uno dei dischi più riusciti e raffinati dell’intera scena jazz-rap. Lo stesso anno esce un altro capolavoro del genere: “Reachin’ (A New Refutation of Time and Space)”, disco firmato da quei Digable Planets che proprio dai Gang Starr prendono le mosse e che meglio di ogni altro definiscono il significato di rap alternativo per gli anni ‘90. Del 1993 è anche “Organix”, esordio dei Roots: autori, qualche anno dopo, con “Things Fall Apart” (1999), di un disco che è un punto d’approdo importante per l’hip hop virato jazz e più in generale per l’hip hop più sofisticato: all’interno del disco compaiono in veste di ospiti alcune delle stelle più fulgide dei tardi anni ’90 come Mos Def, Erykah Badu e Jill Scott, tra i principali artefici del ritorno dell’hip hop alle sue origini soul ed old school.
Tra il 1993, anno d’uscita di “Organix” ed il 1999, anno di “Things Fall Aparts”, passano sei anni che contano come secoli per la storia dell’hip hop, vista la quantità di eventi chiave per il rap alternativo…
Nel 1993 viene fondata la Solesides, etichetta autogestita da alcuni Dj e produttori californiani tra cui  troviamo  Latryx, Blackliciuos e Dj Shadow: la neonata label esordisce proprio con una sua uscita, “Entropy”, presto ristampata per conto della Mo’ Wax di James Lavelle, principio di una carriera folgorante che lo vede brillare nell’esplorazione del cosiddetto hip hop astratto, fenomeno più che altro legato al generale boom del downbeat degli anni’90, di cui si parlerà poi. Per quanto riguarda la label cui egli fa capo, la Solesides, essa si rivela una delle prime e più seminali etichette a dedicarsi ad una rigenerazione dell’hip hop che passi da una parte attraverso un abbandono degli eccessi del gangsta rap e un ritorno alle fonti del suono old school, dall’altra attraverso un’esplorazione stilistica ambiziosa ed inedita, che prosegue anche dopo il 1997, quando, cambiato il nome dell’etichetta in Quannum Projects il collettivo di artisti californiani da vita al progetto corale Quannum (partecipano Dj Shadow insieme a membri di Blackalicious e Latryx) sotto il cui nome uscirà nel 1997 lo splendido “Quannum Spectrum” che ospita tra i suoi solchi, tra gli altri, i Jurassic 5 (autori nel 2000 di uno splendido disco di hip hop old school come “Quality Control”) ed El-P.
Quest’ultimo, a sua volta, è uno degli artisti di punta di un’altra seminale etichetta del rap underground: la Definitive Jux, label per cui escono artisti come Cannibal Ox, Aesop Rock e Rjd2, che con “Dead Ringer” (2002) prosegue la tradizione del collage sonoro di cui Dj Shadow è maestro e la riporta in territorio hip hop e lontano dalle indolenze del downbeat; da notare che lo stesso Shadow, quello stesso anno, uscendo con the “Private Press”, segue in parte lo stesso percorso.
Accanto a Def Jux e Quannum altre due etichette si rivelano fondamentali per l’hip hop più sperimentale: l’inglese Big Dada e l’americana Rawkus. La prima è la succursale hip hop della seminale Ninja Tune, una delle etichette di punta dell’hip hop astratto degli anni ’90; per la Big Dada escono, tra gli altri, Ty, Roots Manuva e New Flesh, protagonisti insieme  agli Herbaliser (che peraltro incidono proprio per la Ninja Tune) dell’hip hop inglese, controparte stralunata e sbilenca di quello americano che trova proprio in dischi come “Run Come Save Me” dei Roots Manuva (2001) e “Blow Your Headphones” degli Herbaliser (1997) i suoi momenti più interessanti. Nel decennio successivo agli artisti della Big dada si aggiungerà gente come The Streets e Dizzee Rascal ad unire le rime hip hop con le aritmie del 2 step: lo vedremo più avanti …
Per la Rawkus escono invece artisti come Company Flow, Pharoahe Monch ed il progetto Black Star, che nel 1998 unisce Mos Def e Talib Kweli, due promettenti rapper newyorchesi che meglio d’ogni altro contrappongono un’elegante rielaborazione del suono old school all’hip hop barocco e patinato di Puff Daddy e compagnia, una traiettoria che entrambi porteranno avanti brillantemente anche nelle rispettive carriere soliste.
A segnare tappe importanti nell’evoluzione dell’hip hop all’avvento del nuovo millennio non contribuiscono però solo le etichette indipendenti. Nel 1994 con “Southern playalist icadillac muzik” debuttano gli Outkast e, anche se ancora acerbi, già se ne possono intravedere tutte le potenzialità: i due hanno una sensibilità melodica mai sentita in un disco hip hop ed un suono che fonde il soul degli anni ’70 con un funky che là nel sud pare crescere sugli alberi. Si, perché gli Outkast sono solo la punta dell’iceberg di quel movimento hip hop del sud che, inaugurato nel 1986 dai 2 live crew di “2 Live Crew Is What We Are” con un hip hop danzabile e interamente incentrato sul sesso, troverà il suo primo capolavoro nel 1992 con gli Arrested Development di “3 Years, 5 Months & 2 Days in the Life Of… “.
La crew ha anche il merito di mettere sulla mappa del rap la città di Atlanta, dove, di lì a poco, si formerà il collettivo di produttori Organized Noize, vale a dire coloro che stanno dietro alla quasi totalità dei dischi della Goodie Mob e degli stessi Outkast: i primi fanno il botto con l’esordio del 1995 “Soul Food”, disco che è un’importante riconferma della validità ed unicità musicale della scena hip hop del sud, mentre gli Outkast, dal canto loro, arrivano al capolavoro nel 2000 con “Stankonia”, bissando tre anni dopo con “Speakerboxxx/The Love Below”, disco che in realtà raccoglie sotto la sigla Outkast gli esordi solisti dei due componenti, Dre e Big Boi, vere e proprie giostre sonore che traggono ispirazione da decenni di musica nera con una particolare inclinazione per il funk progredito di George Clinton, le contaminazioni delle Native Tongues e la lezione musicale del Prince dei tempi d’oro.
È del 1997 l’uscita di un altro disco fondamentale per gli sviluppi futuri dell’hip hop: “Supa Dupa Fly”, di Missy Elliott, disco che segna l’exploit come produttore di Timbaland, da lì in poi dietro ai lavori di affiliati come Aaliyah, Jay-Z e, appunto, Missy Elliott ma anche di star di grosso calibro dell’hip hop come Snoop Doggy Dog e Nas; sempre nel 1997 esordisce in coppia con Magoo firmando l’ottimo “Welcome to Our World”: hip hop post-moderno il suo, che snobba spesso e volentieri i samples, generando un suono molto elettronico ed asciutto che diviene suo marchio di fabbrica e che ritroviamo anche in Justified, disco solista del 2002 dell’ex N-Sync Justin Timberlake.
La parte del leone in cabina di produzione nel disco in questione la fa comunque Pharrell Williams, l’unico produttore, sotto la sigla Neptunes (condivisa col compare Chad Hugo) a poter competere con Timbaland nell’arte della produzione:  i Neptunes partono producendo Ol’Dirty Bastard, Jay-z e Busta Rhymes per poi passare al pop da classifica di Nelly, Britney Spears e N-Sync e ad una mini-diva dell’ r&b alternativo come Kelis. Ottimi saggi dell’abilità e dell’enorme fantasia nel missaggio e nella scelta dei suoni sono anche due dischi del 2003 come “The Neptunes Present… Clones”e “In Search of… “, disco uscito sotto lo pseudonimo di N.e.r.d. che fonde mirabilmente, a conferma dell’estro creativo del duo, funk, urban, R&b, rock e Stevie Wonder.
Proprio quest’ultimo, si rivela un’influenza un enorme sul cosidetto nu-soul, fenomeno di riscoperta da parte di artisti legati alla scena hip hop e urban del soul classico di gente come Marvin Gaye,Bill Whiters, Prince e, appunto, Stevie Wonder; se “Brown Sugar”, esordio del 1995 di D’Angelo è un ottimo manifesto di quel suono, ad esso seguono dischi splendidi come l’esordio di Maxwell “Maxwell’s Urban Hang Suite” (1996) e “Baduizm” esordio del 1997 di Erykah Badu: dove D’Angelo riprende Wonder e Prince, la Badu risale direttamente alla fonte del soul, citando il jazz di Billie Holiday e Nina Simone.
Fondamentale per la divulgazione di quei suoni si rivela, nel 1998, “The Miseducation of Lauryn Hill”, esordio solista dell’ex-cantante dei Fugees che porta il nu-soul in classifica, seguito a ruota dalla Macy Gray di “On How Life Is”: timbro da cantante jazz d’annata e un urban molto melodico e trascinante che rivela un’altra sfaccettatura di questo processo di riscoperta del soul.
Da lì in poi è un susseguirsi di dischi diversissimi tra loro che portano però sempre più di frequente a pronunciare quella parola magica: da “Who Is Jill Scott?: Words and Sounds, Vol. 1”, esordio del 2000 di Jill Scott baciato da melodie ed arrangiamenti raffinatissimi e jazzati, la poesia della Scott al centro, spesso propensa a sconfinare nello spoken puro, al debutto di India Aire, “Acoustic Soul” (2001), su cui incombe l’ombra di Stevie Wonder, passando per una schiera foltissima di artisti come Musiq, Peven Everett, Marlon Saunders e Amp Fiddler, solo per citare alcuni tra coloro che, ricongiungendo l’urban, versione del soul aggiornata all’era dell’hip hop, con la sua storia, seguono un processo parallelo ai rapper che vanno a bagnarsi nelle acque dell’old school, volgendosi al passato per poter trovare nuove strade per il futuro…

50 – Techno Hardcore, Techno Ambient e Drum’n’Bass

Per capire l’esplosione di generi e stili che sul finire degli anni’80 e per tutti gli anni’90 (e oltre) coinvolge non solo la techno, ma più in generale tutti i settori dell’elettronica, prima fra tutti la house, è necessario fare alcune considerazioni preliminari. È necessario, infatti, rendersi conto che per tutti gli anni’80 lo sviluppo di techno e house avviene in parallelo: da una parte le limitazioni tecnologiche dall’altra i forti legami tra i pionieri della techno di Detroit e i primi Dj house di Chicago hanno reso i confini tra i due generi piuttosto labili, tanto che un singolo come “Strings Of Life” di Rhythm is Rhythm, pur essendo opera di un pioniere della techno è considerato un classico di entrambi i generi.
Non solo, come si è già detto fino al 1988, anno della storica compilation “Techno! The New Dance Sound Of Detroit”, il genere non ha nemmeno un nome: è sul finire degli anni’80, quando la techno comincia a fratturarsi in una raggiera di stili diversi che, per assurdo, il genere trova una sua identità. Le ragioni di tale diaspora stilistica sono molteplici: da una parte c’è l’evoluzione della tecnologia che consente agli artisti una maggior libertà creativa, dall’altra c’è la natura decentrata dello sviluppo del genere che non è legato al formato ingombrante dell’album e alla diffusione radiofonica (che si tratti di radio mainstream o college radio) e televisiva, o almeno non solo, poichè le evoluzioni dell’elettronica prendono piede e forma principalmente sul campo, nei rave e nei club sparsi per l’Europa. Si, perché ad accentuare la frammentazione del genere si aggiunge la perdita  parziale della centralità musicale di America e Regno Unito: se anch’essi si riveleranno fondamentali per gli sviluppi del genere, sulla mappa musicale spuntano la Germania e l’Olanda prima, la Francia poi.
I primi passi vengono mossi alla fine degli anni ‘80, nel pieno del fenomeno acid house (stile musicale emblematico di quella sovrapposizione tra house e techno di cui si diceva, trovandosi in una dimensione sonora che sta esattamente a metà strada tra techno ed house): in quegli anni cominciano ad incidere gli LFO ed i Klf (Kopyright Liberation Front), artisti che intraprendono strade molto diverse, destinate però di lì a poco ad incontrarsi. I primi pionierizzano un suono che costituisce la risposta inglese alla primissima techno di Detroit, con samples di vocoder e breaks elettronici che rimandano agli esperimenti di Afrika Bambataa e Cybotron: il debutto su Lp del 1991, “Frequencies” è pubblicato in Inghilterra dalla Warp di Sheffield, etichetta fondamentale per la diffusione di questa prima forma di techno minimale e retrò, scarna e lo-fi definita bleep techno, sorta di punto d’incontro tra la techno di Detroit, la prima house di Chicago, l’acid house e le musiche dei videogiochi anni ’80.
Con il logo Warp escono anche i singoli di Tuff Little Unit, Tricky Disco e Nightmares On Wax, dischi che inventano il concetto stesso di IDM, (Intelligent Dance Music), non genere che andrà ad identificare tutta quell’elettronica destinata non necessariamente e non tanto al ballo, quanto all’esplorazione del lato più creativo e sperimentale del genere. Non è un caso che la Warp sia tra le prime etichette di elettronica a dare risalto anche al formato dell’LP: se il già citato “Frequencies” degli LFO e “A Word of Science” dei Nightmares on Wax, entrambi del 1991, sono tra i primissimi, l’anno successivo esce “Bytes” dei Black Dog, uno dei dischi fondamentali per la nascita della techno ambient. Per capire come ci si arriva è necessario però fare un passo indietro…
Nel 1990 Bill Drummond e Jimi Cauty, già sotto la sigla the JAMS pionieri dell’arte del campionamento, firmano con il moniker Klf il disco “Chill Out”, primo esempio assoluto di ambient house: un suono alieno che aggiorna all’era dei samples Brian Eno e che, pur non incontrando i favori commerciali del grande pubblico si rivela seminale nella sua intuizione. Prima di fondare i Klf Cauty ha collaborato, anche se per poco tempo, con Alex Patterson sotto la sigla Orb: nome che Patterson mantiene, quando decide di pubblicare “Adventures Beyond the Ultraworld”, album del 1991 che codifica definitivamente il genere; una house rallentatissima, abitata da spettrali layer sintetici e da effetti sonori spaziali che fondono l’ambient di Brian Eno con la musica cosmica dei Tangerine Dream.
Sono sonorità che ben presto vengono messe al servizio del chill out, accompagnando il sorgere del sole in una sala apposita dell’Heaven di Paul Oakenfold, la Land of Oz, ma che allo stesso tempo pongono le basi per lo sviluppo futuro della techno ambient, attraverso dischi seminali come il già citato “Bytes” dei Black Dog, “Selected Ambient Works 85-92” di Aphex Twin e “Incunabula” degli Autechre, del 1993 e “Lifeforms” dei Future Sound Of London, del 1994. Dischi in cui le atmosfere ambientali sono ricreate e riviste attraverso il gusto sonoro di casa Warp, ripercorse da suoni e strumenti elettronici appartenuti alla prima era dell’elettronica, combinate con un gusto per melodie minimali e gentili: un suono che prosegue sui solchi più sperimentali della techno e pone le fondamenta per gli scenari glitch di fine decennio.
Mentre tra Londra e Sheffield vengono poste le basi per la creazione di un suono techno d’avanguardia, in Germania,  a Francoforte e Berlino, sempre sul finire degli anni ’80, si battono strade radicalmente diverse: due DJ in particolare, Sven Vath e Kid Paul, creano due etichette fondamentali come Eye-Q e Tresor. La prima si rivela centrale, attraverso singoli come “Energy Flash” di Joey Beltram, “The Ravesignal” di CJ Bolland e “L’Esperanza” dello stesso Vath, per lo sviluppo del suono della trance, stile che fonde techno ed euro dance con un suono fatto di ipnotiche linee melodiche tracciate dai synth (he esasperano la ripetitività della techno detroitiana), una ritmica che gira sempre sui soliti 4/4 di house e techno ma che al culmine del pezzo collassa nel cosiddetto breakdown in cui la ritmica esplode per poi crollare di colpo e riprendere col solito 4/4, il tutto su un tappeto lussurioso di archi su cui si innestano le linee melodiche tracciate dai pad atmosferici e dalle occasionali voci.
Proprio questa accentuata componente melodica ed atmosferica, che deriva in parte dall’influenza dell’euro dance e che diventa fin da subito uno degli elementi caratteristici del genere, diviene il punto d’incontro con la house, dando vita a quel progressive che comincia a circolare in Inghilterra a metà anni ’90: suono atmosferico e ipermelodico che comincia a spuntare nei dischi di Bt, Robert Miles, Paul Van Dyk e Atb. A cavallo tra i due decenni, la trance è uno dei generi di maggior successo commerciale della scena elettronica inglese e produttori come Sasha, Pete Tong e Dj Tiesto svettano in testa alle classifiche dei Dj anglosassoni.
Se la strada intrapresa dalla EyeQ di Sven Vath pone le fondamenta per la variante più melodica del suono della techno, l’opposto si può dire per la Tresor di Kid Paul, per la quale escono nei primi anni ’90 i dischi di seminali produttori di Detroit come Jeff Mills e Drexciya, (oltre che del pioniere Juan Atkins), che, insieme a illustri concittadini come Robert Hood, Richie Hawtin (alias Plastikman) e l’ex assistente di May, Carl Craig, si rivelano tra i più strenui e rigorosi seguaci di un suono che si rifà alla techno detroitiana più spoglia e primitiva e che prenderà il nome di techno minimale.
Se nei pezzi usciti a nome Cybotron e Model 500 il suono era scarno in gran parte per motivi tecnici, a causa cioè delle limitazioni imposte dalla tecnologia dell’epoca, le produzioni di Mills e soci lo sono per una scelta consapevole, un antidoto alle infinite fusioni e commercializzazioni del suono techno degli anni’90, che passa per la strada del ritorno alle radici (una pratica non nuova nella storia della musica): non si tratta comunque di fotocopie degli originali o di revivalisti, quanto piuttosto di artisti che decidono di proseguire il percorso cominciato dieci anni prima, alcuni esasperandone la crudezza e l’aggressività (come il primo Jeff Mills) altri (come il Plastikman di “Musik”) inacidendone le sonorità.
Germania ed Inghilterra non sono le uniche nazioni europee a rivelarsi cruciali per l’evoluzione della techno. Nel 1989, infatti, ad esse si affianca l’Olanda nella creazione di una sua personale colonna sonora per i rave; se a Manchester imperversa l’acid house e a Berlino si diffonde il suono della trance, a Rotterdam e a Londra comincia a prendere vita una forma di techno molto più aggressiva e brutale: la techno hardcore, versione anfetaminica della techno originaria, dal bpm accelerato ai limiti della ballabilità.
Il suono della techno hardcore di Rotterdam, definito gabba, è il più feroce e viaggia intorno alle 200300 battute per minuto, (il record è, però, dell’inglese Moby che raggiunge risultati quasi comici con le 1000 battute per minuto di “Thousand”): un suono, documentato da singoli e compilation e coniato da produttori come Paul Elstak e The Mover, che presto comincia ad essere associato al movimento  naziskin, (un po’ come successo con l’oi! inglese dieci anni prima), caricando di significativi negativi un genere che comunque non tarda a fare proseliti in Scozia e, soprattutto, in Germania. Proprio da lì proviene un artista come Alec Empire che, fondendo i tempi inumani del gabba con l’abrasività sonora dell’industriale, conierà a fine anni ’90 quello che egli stesso definirà digital hardcore.
Rispetto al gabba lo spettro stilistico dell’hardcore inglese si rivela più variegato. Fin dai primissimi anni ’90, ad un hardcore più contaminato che integra breakbeat di scuola hip hop e influenze ragga in singoli come “Poing” di RTS”, “On a Ragga Tip” di SL2’s e nei pezzi dei primi Prodigy (che firmeranno nel 1992 uno dei rari LP della scena, “Experience”), se ne affianca un altro, dalla corporalità frenetica, nei pezzi di produttori come Slipmatt e Hixxy & Sharkey: si tratta dell’happy hardcore, versione quasi caricaturale dell’hardcore techno originale, bpm esasperato, velocissime melodie tracciate da synth o da piano e sopra voci dal pitch impazzito che paiono uscite dai cartoni dei chipmunks, destinato ad ottenere un suo seguito di culto.
Ma sarà soprattutto il primo filone, quello che incrocia le sue strade con i suoni giamaicani più oscuri, non solo ragga ma anche dub, a segnare la storia della musica elettronica degli anni’90 evolvendosi di lì a poco nel fenomeno jungle. Il nome deriva dal locale in cui cominciano a prendere piede i primi esperimenti d’ibridazione, il londinese Jungle, appunto, e viene speso la prima volta per definire i singoli di etichette come Kickin’ e Shut up & Dance: breakbeat, ritmi sincopati e frenetici, atmosfere lugubri ed oscure derivati dalla produzione dub che tracciano un immaginario filo di congiunzione con il suono del trip hop che nello stesso periodo comincia a circolare per Bristol. Pezzi come “Excorcist” e “The Bee” di The Scientist e “Hurt You So” di Johnny L (uscito per la Xl Recordings) sono i timidi passi iniziali di quel suono, mentre 4Hero e Grooverider ne sono i primi fuoriclasse, artefici delle prime sperimentazioni di fusione tra hardcore e breaks: nel momento in cui Wax Doctor comincia ad inserirvi linee di basso dense e scurissime, il genere è praticamente nato.
Quando escono i lavori di Ed Rush e LTJ Bukem e si cominciano a moltiplicare le uscite della seminale Moving Shadow il gap con il suono tradizionale dell’hardcore è ormai abissale e ben presto jungle e happy hardcore si rivelano antitetici; la distanza tra i due generi si accentua ulteriormente quando artisti come LTJ Bukem, Grooverider e Photek cominciano ad allargare, sulla base delle premesse stilistiche della jungle, lo spettro delle sperimentazioni: è qui che si comincia a parlare di drum’n’bass, ad indicare con un termine catch-all una raggiera di suoni quanto più diversificata. Nel 1995, con l’uscita di “Timeless” di Goldie il genere emerge dall’underground ed esplode a livello commerciale; non solo: è con lui che incomincia un percorso di contaminazione col soul e col jazz portato avanti col collettivo (e con l’omonima etichetta personale) Metalheadz, di cui fanno parte, tra gli altri, Fabio, Kemistry and Storm ed il solito Grooverider. Quest’ultimo inoltre è considerato uno degli inventori del cosidetto hardstep, drum’n’bass dai breaks granitici e dal basso martellante, genere portato brillantemente avanti da produttori come Aphrodite, Capone e Ganja Kru. Più in generale  la drum’n’bass comincia a vivere una sorta di diaspora stilistica che porta all’esplosione di una girandola frenetica di sottogeneri…
Si va dal darkside, variante gotica e quasi industriale della drum’n’bass, lanciata da artisti come Scorn e Unabomber, al jazzstep, nato con i lavori di Alex Reece, ritmiche e campioni be-bop, scale jazz, fiati e strumenti acustici, suono che raggiunge il suo apice col seminale “New Forms”, prodotto da Roni Size col collettivo Reprazent nel 1997, drum’n’bass atmosferica e raffinatissima in cui ai suoni campionati si affiancano gli strumenti suonati. Si va dall’illbient (letteralmente ambient malato), discendente cupo e ambientale della drum’n’bass, nato a Brooklyn a metà anni’90 attorno alla figura di Dj Spooky, esordiente nel 1996 su Asphodel (etichetta centrale per il genere) con “Songs of a Dead Dreamer”, al drill’n’bass, versione esangue e spastica della drum’n’bass, divenuta topolino da laboratorio, sezionata e rimontata al computer da artisti come Squarepusher (“Feed Me Weird Things” del 1996), Aphex Twin (“Richard D. James Album”sempre del 1996), Animals On Wheels ed Amon Tobin: produttori che portano la d’n’b lontano dalle piste da ballo e la spingono in territorio IDM. Più in generale la drill’n’bass rappresenta uno dei primi esempi di jungle sperimentale: incursioni avanguardistiche tra i ritmi sincopati della drum’n’bass proseguiranno con Third Eye Foundation, Spring Heel Jack e Twisted Science.
A fine anni’90 il successo commerciale si è ormai ridimensionato ed il genere, ormai divenuto una specie di reincarnazione techno del progressive, diviso tra le sperimentazioni jazzistiche dei produttori neri e gli slanci avanguardistici di quelli bianchi, sembra arrivato al capolinea. Ad inizio millennio comincia invece a sorpresa una rigenerazione di quei suoni, cullata dalle accoglienti braccia dell’underground, che passa per strade diverse: dalle contaminazioni con la musica latinoamericana di Dj Marky (che rivela al mondo l’eccitante scena d’n’b brasiliana) e di due veterani della scena jungle come Shy Fx & T-power che riportano la drum’n’bass sulle piste con “Set It Off” (2002), ad High Contrast, artista di punta della Hospital Records, che in True Colors fonde jungle e 2step; tutti segnali che portano a parlare, dal 2001 in poi di una rinascita della drum’n’bass.
Ancora più marcata è l’evoluzione del genere nel momento in cui, nei primi anni del nuovo millennio, si trasfigura nel cosiddetto broken beat: un suono che si sviluppa a West London, che prende i ritmi sincopati della drum’n’bass, li frattura ulteriormente e li fonde con raffinati tappeti di tastiere di scuola soul jazz memori di Roy Ayers ed Herbie Hancock. Seminale si rivela una compilation come “2000 Black: The Good Good” (vetrina musicale dell’etichetta 2000 Black, appunto, centrale con Co-op, People ed Ubiquity per lo sviluppo di questi suoni), seguono dischi come “Creating Patterns” (2001) dei 4 Hero che tracciano un collegamento ideale tra jazzstep e broken  beat, Download This” (2001) dei New Sector Movements e soprattutto “Sweet And Sour” (2002) del progetto Focus (dietro la cui sigla si cela il produttore Phil Asher), prime espressioni di una scena ancora vergine sotto il profilo commerciale: tuttavia la messa sotto contratto da parte della V2 dei Bugz in the Attic (collettivo che raduna mezza scena di West London), con la conseguente uscita della raccolta di remix “Got The Bug” nel 2004, lascia presagire possibili scenari differenti per il futuro…

51 – Il downbeat

Le radici del fenomeno musicale battezzato dalla rivista inglese Mixmag “trip hop” affondano nella metà degli anni  ’80, quando a Bristol si crea un collettivo di Dj che prende il nome di Wild Bunch: si tratta essenzialmente di un soundsystem con una forte predilezione per l’hip hop, il dub e, più in generale, la battuta lenta (il downbeat), vale a dire tutto ciò che ha un numero di battute per minuto inferiore alle 120. L’organico del collettivo varia ma tra le sue fila passa gente come 3D, Mushroom e Daddy  G,  Tricky, Smith & Mighty e Nelee Hopper, vale a dire tutti i protagonisti della primissima ondata del trip hop: i primi tre, nel 1987, formano i Massive Attack ed escono nel 1991 col primo Lp, “Blue Lines”; è il disco che inventa il genere, con un suono che per molti versi risulta ancora acerbo, ma in cui tutte le caratteristiche tipiche del genere sono già presenti: la matrice dub, la vena melanconica dei pezzi e le atmosfere oscure da subito marchio di fabbrica delle produzioni musicali di Bristol.
Quando nel 1994 i Massive Attack danno un seguito al loro esordio, quel suono è ormai diventato fenomeno musicale a sé e il trip hop sta già regalando i suoi primi capolavori: da “Dummy” dei Portishead (di cui fa parte quel Geoff Barrow che in “Blue Lines” figurava tra i produttori) a “Maxinquaye” di Tricky (ex Wild Bunch che ha collaborato su entrambi gli album di Daddy G e compagnia), passando per l’esordio di Smith & Mighty, Bass Is Material. Nel frattempo un altro ex Wild Bunch, Nelee Hopper, lavorando dietro le quinte come produttore, si rivela altrettanto vitale per la diffusione di quelle atmosfere uggiose: già arrangiatore in quel “Raw Like Sushi” di Neneh Cherry che ha anticipato di due anni buoni la nascita del trip hop, Hopper sviluppa ulteriormente quelle sonorità lavorando con artisti come Soul II Soul, Bjork (su “Debut” e “Post”), la Madonna di “Bedtime Stories”, Sneaker Pimps ed Everything But The Girl, curriculum impressionante che ne fa (con Howie B) produttore-chiave per lo sviluppo di un genere che è peraltro al 50% creazione di produttori ed ingegneri del suono.
Identificati nella battuta lentissima, nell’uso ed abuso delle tecniche di produzione del dub e nelle atmosfere claustrofobiche i tratti comuni che legano insieme i dischi (perlopiù inglesi) dell’epoca, è necessario prendere atto di come nel calderone siano stati inseriti gruppi diversissimi tra loro: se le matrici reggae e soul sono molto forti soprattutto nei lavori di Massive Attack e Smith & Mighty, i lavori solisti di Tricky confermano quelle teorie che vedono nel trip hop la risposta inglese ad un genere radicalmente americano come l’hip hop, persino in un disco come “Nearly God” (1996) in cui chiama a raccolta, accanto alla fida vocalist Martina Topley Bird, artisti che con l’hip hop nulla hanno a che fare come Bjork, Neneh Cherry e l’ex-Specials Terry Hall.
Un discorso a parte meritano i Portishead, che fondono il dub dei Massive Attack con le atmosfere noir delle colonne sonore di Lalo Schifrin, John Barry ed Ennio Morricone: un primo segnale d’interesse ed apertura verso un universo sonoro, quello delle colonne sonore anni ’60-’70, fino allora trascurato dal mondo del rock (parola qui usata nel senso più vasto del termine) che avrà enorme seguito durante gli anni’90. È con i Portishead che i suoni del trip hop vengono definitivamente divulgati, specie in quell’America che fino allora si è mostrata restia verso di essi, ed è in seguito al successo di “Dummy” che la stampa inventa l’etichetta “trip hop” per definire quei suoni: da lì in poi si susseguono sempre più numerosi i gruppi che flirtano in chiave pop con il genere, come Sneaker Pimps, The Aloof e Morcheeba.
Ma mentre il genere prospera e vede crescere il suo successo a livello di mainstream, arenandosi ben presto nelle secche di un canovaccio che comincia ad essere ripetuto alla nausea, inizia a prendere forma una corrente sotterranea che conduce il genere in territori inesplorati, anche grazie alla spinta di due etichette  inglesi come la Mo’ Wax di James Lavelle e la Ninja Tune. La prima si rivela al mondo nel 1994 con la compilation “Headz”, nella cui scaletta sono allineati artisti come Attica Blues, La Funk Mob, Howie B ed il giovane Dj californiano Dj Shadow, autore nel 1996 di quell’“Endtroducing…” che rende popolare un suono che col trip hop condivide le atmosfere scure e la lentezza esasperata, ma che si rivela fin da subito radicalmente diverso…
Interamente basato su samples e vinili, strumentale, atmosferico, le radici saldamente affondate nell’hip hop ed il giramanopole a dominare la scena, a dargli un nome ci pensa, una volta tanto, proprio uno dei suoi principali artefici: Dj Cam, autore di “Substances” (1996), che per definire il suo suono parla di abstract hip hop. Una definizione che calza a pennello non solo per il capolavoro assoluto “Endtroducing…”, ma anche per gran parte delle uscite di casa Mo’ Wax, in particolare “Strictly Turnablized”(1994) di Dj Krush e l’ambiziosissimo progetto U.n.k.l.e., in cui sono coinvolti sia Dj Shadow sia il boss d’etichetta James Lavelle, che con “Psyence Fiction” (1998) vedrà incontrarsi fautori dell’hip hop astratto e protagonisti dell’indie rock come Thom Yorke dei Radiohead e Badly Drawn Boy.
Altrettanto fondamentale si rivela un’etichetta come la Ninja Tune, fondata da Jonathan Moore e Matt Black, due Dj che sotto lo pseudonimo di Coldcut hanno cominciato a pionierizzare il taglia e cuci fin dal lontano 1987 e che si sono già fatti un nome come produttori e remixer (ma anche come autori del più famoso mix album della storia: “70 Minutes of Madness”, del 1996). Col logo Ninja Tune escono, a definirne solo in parte le imprevedibili coordinate sonore, “Hed Phone Sex” (1995) di Funky Porcini e “A Recipe For Disaster” (1995) di Dj Food (altro pseudonimo per Black e Moore), mentre altri protagonisti del genere come Irresistibile Force e Dj Vadim si aggiungono a fine decennio ad arricchire le uscite di un’etichetta che brilla per la totale assenza di regole delle sue uscite.
Così, dove il capolavoro di Dj Shadow è una miscela maestosa e inclassificabile di generi e stili, frutto della ricerca continua da parte del Dj di vinili oscuri e dischi minori, oltre che della sua prodigiosa abilità nel mixarli, il catalogo Ninja tune è una passerella indemoniata di dischi diversissimi e imprevedibili che vanno dall’hip hop folle ed eccentrico degli Herbaliser alle irresistibili facezie sonore di Mr Scruff, dischi accomunati solo dalla presenza, più o meno fissa, del breakbeat di scuola hip hop.
Oltre al cosiddetto hip hop astratto esiste però un’altra categoria di dischi che, pur essendo imparentati col trip hop per il suono dub, le atmosfere drogate ed il ritmo indolente cominciano ad essere etichettati col generico termine di downtempo, categoria generica che serve più che altro a prendere atto delle evoluzioni stilistiche che comunque li separano dal downbeat bristoliano…
I tempi sono leggermente più spediti, le ritmiche più vivaci, il suono è più atmosferico, facendo sì che esso diventi colonna sonora ideale per aperitivi e che venga spesso e volentieri inglobato nel calderone chill out, la scena è più cosmopolita (i Dj cardine della downtempo sono austriaci, tedeschi, italiani e francesi oltre che inglesi ed americani), le influenze sono esotiche e contaminate: nella musica dei Thievery Corporation viene inglobata la musica indiana, in quella di Kruder & Dorfmeister la bossa, in quella del Gotan Project il tango, più tardi compare il kletzmer nei dischi degli Oi Va Voi ed il flamenco in quelli di Federico Aubele, mentre nell’esordio del 1996 dei Sukia a rivivere sono le atmosfere  dell’exotica di Les Baxter ed Esquivel.
Non solo: Barry, Schifrin e Morricone, già menzionati  dai Portishead quale influenza fondamentale, vengono campionati, citati musicalmente e remixati dai produttori downtempo nell’ambito di un processo di rivalutazione delle musiche minori degli anni ’60 e ’70 (dall’exotica all’easy listening, dalle colonne sonore Blaxploitation a quelle dei film italiani di serie-b) di cui si parlerà più avanti, ma di cui bisogna essere, almeno in parte coscienti per capire come dai toni lugubri del trip hop iniziale si sia passati al suono etno-chic dei tardi ’90. Un suono che troviamo nei dischi dei Thievery Corporation, nelle “K&D Sessions” (1998), raccolta dei remix degli austriaci Peter Kruder e Richard  Dorfmeister, ma anche nei dischi di produttori  come Jazzanova e Beanfield, esponenti di quel sottostile della downtempo che prende il nome di nu-jazz.
Si tratta in realtà di un movimento trasversale che attraversa diverse correnti dell’elettronica, dalla downtempo dei gruppi di cui sopra, appunto, alla deep house jazzata dei Faze Action, che prosegue idealmente il discorso cominciato nei tardi anni ’80 da artisti come Stereo MC’s, James Taylor Quartet e Galliano, tra i principali esponenti di quella miscela di hip hop, jazz e funk che andava sotto il nome di acid jazz e che è stata portata al successo a metà anni ‘90 in forme più commerciali da artisti come Brand New Heavies, Jamiroquai ed Incognito.
Come l’acid jazz, il nu-jazz è una non scena, eppure una sua ossatura può essere ricercata nelle uscite della seminale etichetta tedesca Compost, del cui rooster fanno parte artisti come Minus 8, Trüby Trio, A Forest Mighty Black, Kyoto Jazz Massive, oltre ai già citati Jazzanova e Beanfield, con uscite che da sole assommano tutti i pregi e difetti della scena: si tratta infatti di produttori che attraverso l’uso di campioni di jazz e bossa riescono ad ottenere un suono molto elegante ma allo stesso tempo tendono ad una certa, pericolosa uniformità, legata all’utilizzo di questi suoni più come spezia per profumare i suoni che come elemento fondante della costruzione sonora.
Per questo vanno salutati con interesse artisti come Bugge Wesseltoft o il collettivo Jaga Jazzist, che del jazz non si limitano a campionare i suoni, ma ne adottano invece l’approccio esecutivo, arrivando a suonare le apparecchiature elettroniche con la stessa perizia e con lo stesso estro improvvisativo adottato dai musicisti jazz nel suonare gli strumenti tradizionali.

52 – Riot grrrls, corporate punk e garage punk 

Gli anni ’90 saranno ricordati dai posteri principalmente per l’inaspettato successo di massa del punk nelle classifiche americane: tuttavia ad aprire il decennio è un fenomeno più underground legato all’area di Olympia e ad un’etichetta come la Kill Rock Stars, per cui nel 1992 esce EP senza titolo prodotto da Ian Mac Kaye e firmato dalle Bikini Kill. È uno dei primi dischi a lanciare il movimento femminista delle ragazze riottose (le riot grrrrls): il gruppo musicalmente fonde il punk-rock più grezzo delle Slits con la new wave dei Pretenders e di lì a poco rilancia con “Yeah Yeah Yeah Yeah”, split album equamente diviso con le albioniche Huggy bear, altre esponenti di spicco del movimento di cui fanno parte anche Bratmobile, 7 Year Bitch, mentre più marginalmente legate al fenomeno sono L7 e Babes in Toyland, musicalmente più vicine al metal ed al grunge che non al punk; tutti gruppi comunque accomunati dalla centralità nei testi di temi scottanti e strettamente legati alla sfera femminile quali lo stupro, la violenza domestica, la disparità sociale tra maschio e femmina.
Se il filone si rivela di breve durata, esso è segnato in ogni caso da ottimi dischi come “Spanking Machine” delle Babies In Toyland, “Bricks Are Heavy” delle L7 e “Pussy Whiped” delle Bikini Kill e dalle ceneri del movimento si generano frutti molto interessanti: da una parte le vere eredi del movimento si rivelano essere le Sleater Kinney, gruppo di Olympia nato dallo scioglimento di due gruppi già parte della scena post-femminista come Heavens to  Betsy ed Excuse 17, all’esordio omonimo nel 1995 e dietro a dischi strepitosi come “Dig Me Out” (1997) e “One Beat” (2002); dall’altra l’ex leader delle Bikini Kill Kathleen Hanna, dopo lo scioglimento del gruppo nel 1998 ed un album uscito lo stesso anno sotto lo pseudonimo Julie Ruin, esordisce nel 1999 col trio Le Tigre, affidandosi ad una sorta di disco-punk di stampo new wave per lanciare i suoi slogan, aprendo la strada a gruppi dal femminismo beffardo come Chicks on Speed e Peaches, come si vedrà più avanti.
Ora è meglio tornare alla metà degli anni’90, in particolare al 1994: anno che è normalmente ricordato nelle cronache rock per la morte di Cobain, evento che segna simbolicamente la fine dell’era d’oro di Seattle. Tuttavia il 1994 è anche l’anno in cui, per la prima volta dalla sua nascita il punk raggiunge la vetta delle classifiche americane: le ragioni di questa svolta vanno in parte ricercate nel generale scossone dato proprio dal grunge al gusto medio del pubblico, ma sono comunque legate anche all’irresistibile vena pop dei due dischi che di questo piccolo evento sono protagonisti, vale a dire “Smash” degli Offspring e “Dookie” dei Green Day. Dischi peraltro legati ad etichette e a scene musicali radicalmente diverse…
Gli Offspring escono per la Epitaph di Brett Gurewitz dei Bad Religion e portano avanti la storica tradizione californiana dell’hardcore melodico, risalente ai primi anni ’80: con il singolo “Come Out And Play”, pezzo che deve la sua fortuna anche ad una certa assonanza col suono dei Nirvana, raggiungono un’esposizione che fino a qualche anno prima sarebbe stata impensabile per un gruppo punk, facendo poi il bis con “Self Esteem” e arrivando infine in cima alle classifiche di vendita con “Smash”, cosa che frutta una piccola fortuna all’indipendente Epitaph. Etichetta ed influenze sono diverse per i Green Day, gruppo cresciuto sotto l’egida della Lookout Records!, la cui esplosione commerciale corona una formula di pop-punk che prosegue la più storica delle tradizioni punk, quella cominciata con i Ramones nel 1976, proseguita con Buzzcocks, Undertones e Stiff Little Fingers e portata brillantemente avanti a Berkeley durante gli anni ’80 da gruppi come Mt.T Experience e Screeching Weasel: una tradizione che trova nei Green Day eredi più che degni e “Dookie”, disco dell’esplosione commerciale, li vede in particolare stato di grazia.
Offspring e Green Day non sono comunque gli unici gruppi punk ad emergere a sorpresa dall’underground: un anno dopo è la volta dei Rancid di “And Out Come The Wolves” (1995), con un suono che è una sorta d’incrocio tra Clash e Specials, lungo una traiettoria sonora già inaugurata dal vecchio gruppo di Tim Armstrong e Matt Freeman: gli Operation Ivy.
Il successo del gruppo, tra l’altro, fa esplodere a livello commerciale il fenomeno dello ska-core, terza ondata di revival dello ska, inaugurata nel 1990 dai Mighty Mighty Bosstones di “Devils Night Out”, per assurdo l’unico gruppo che non riesce a beneficiare del boom de genere, e dai già citati Operation Ivy: sull’onda del successo dei Rancid emergono poi altri gruppi, come No Doubt, Goldfinger e Dancehall Crashers e Sublime, mentre le contaminazioni con lo ska diventano un luogo comune di molto hardcore melodico, da quello dei Nofx a quello dei Less Than Jake. Particolarmente meticci si rivelano Sublime e No Doubt: i primi trovano l’equilibrio ideale nell’omonimo disco postumo del 1996 in cui brilla un crossover totale di reggae, hip hop, ska e hardcore che li eleva, anche grazie al talento del cantante Brad Nowell, un gradino sopra gli altri; i No Doubt invece, baciati nel 1995 dal successo commerciale di “Tragic Kingdom”, sono fin dall’inizio autori di uno ska fortemente influenzato dalla new wave più melodica, tendenza sempre più evidente anche nei dischi successivi.
Se Green Day, Offspring e Rancid rappresentano i gruppi di maggior successo commerciale dell’esplosione punk di meta anni ’90 altri gruppi storici attivi da anni come Bad  Religion, Pennywise, Down By Law e Nofx vedono in ogni modo il loro seguito crescere drasticamente: i Nofx, in particolare, proprio nel 1994 arrivano al capolavoro con “Punk In Drublic”, declinando il loro hardcore in tutte le salse, citando oi! e ska-core e viaggiando allegramente tra hardcore melodico e pop-punk. Fat Mike, cantante e bassista del gruppo, di lì a poco fonderà la seminale Fat Wreck Chords, label che ospiterà alcuni dei migliori gruppi di hardcore melodico degli anni ’90, come No Use For A Name e Lagwagon.
Gruppi che escono allo scoperto in una fase in cui il punk ha già cessato d’essere fenomeno da alta classifica: il boom dura, infatti, solo due anni e quando i Green Day danno un seguito a “Dookie” con “Insomniac” l’accoglienza del pubblico si è già raffreddata. Tuttavia quei suoni sono ormai entrati nelle ossa (e nelle orecchie) del pubblico americano: se da una parte l’hardcore si è ormai conquistato un suo posto di nicchia nel mercato discografico non mancheranno, in futuro, incursioni di gruppi punk dalle parti alte della classifica, dal punk-pop calligrafico di Blink 182 e Sum 41 al piccolo exploit dei Green Day nel 2004; inoltre l’apertura del grande pubblico verso quei suoni si rivelerà determinante per il successo universale di un genere come l’emocore, naturalmente predestinato ad entrare nelle grazie dei fan dell’hardcore melodico.
Si terranno invece sempre saldamente lontani dalle classifiche i New Bomb Turks, gruppo che porta avanti quella tradizione garage punk che discende direttamente dagli Stooges: dove i Mudhoney fondono garage ed hard rock, il gruppo di “Destroy Oh-Boy“ (1993) e del capolavoro del 1998 “At Rope’s End“ porta avanti quel discorso in ambito hardcore. Non saranno comunque i soli a traghettare il suono del garage-rock e di Detroit attraverso i ’90: da una parte gruppi come Supersuckers ed Humpers fanno rivivere il genere attraverso la tradizione più punk, dall’altra Mono Men, Oblivians e Makers fanno rivivere la leggenda del primo  rock’n’roll e del garage-rock anni’60, quello di Sonics e Wailers,con, alle spalle, etichette underground dedite a quei suoni come Estrus e Sympathy For The Records.
Non meno seminale si rivelerà la Crypt che nei primi ’90 pubblica “Outta Here” dei Gories (1992) e la In The Red, per conto della quale nel 1998 esce “Horndog Fest” dei Dirtbombs: entrambi i gruppi fanno capo alla seminale figura di Mick Collins vero centro gravitazionale di una scena di Detroit viva e scalciante, da cui s’innescherà, all’inizio del decennio successivo, un’esplosione su scala nazionale inaspettata di garage e blues che ricorda molto da vicino quella vissuta dall’hardcore nei ’90. Se ne riparlerà più avanti…

53 – Brit pop

Quando si parla di brit pop, normalmente ci si riferisce ad un fenomeno che vive il suo momento d’oro tra il 1993 e il 1997, negli anni cioè in cui in America imperversano grunge ed hardcore melodico: un fenomeno che vede le classifiche inglesi dominate da un’orda di gruppi anglosassoni, il cui tratto comune, pur nelle notevoli differenze, è proprio il forte legame con le radici british.
L’intera esperienza pop inglese, dai gruppi della prima e seconda british invasion ai suoni più pop della new wave e del post punk (Xtc, Madness, Specials, Jam e Wire in particolare), passando per le esperienze del glam di Bowie e Roxy Music, vengono felicemente sintetizzate da questi gruppi e sposate con il pop-rock degli Smith e con la psichedelia degli Stone Roses; allo stesso tempo anche dal punto di vista visivo questi gruppi ripresentano sul palco una visione più classica della rock band, seppellendo così sia visivamente sia musicalmente l’animo etereo del movimento shoegaze: non a caso gruppi come Boo Radleys e Lush, che a quella corrente appartenevano, effettuano a metà anni ’90 una brusca virata stilistica , abbandonando in parte il dream pop ed i feedback alla My Bloody Valentine ed abbracciando strutture musicali più tradizionalmente pop.
I prodromi del brit pop possono essere ravvisati già nell’omonimo debutto del 1990 dei La’s, gruppo college-rock che riesce brillantemente a portare avanti il percorso musicale degli Smiths fondendolo con armonie vocali e melodie pop che sembrano prese di forza dai dischi di Beatles, Hollies e Kinks. Altrettanto importante è un disco del 1993 come “Wild Wood” di Paul Weller in cui, tra citazioni di Traffic e Small Faces, prende il via quella corrente tradizionalista del rock inglese che sarà l’anima più granitica del fenomeno, portata avanti da gruppi come Ocean Color Scene (il cui chitarrista collabora proprio in “Wild Wood”), Shed  Seven, Bluetones,Cast e, soprattutto, Oasis.
Proprio loro sono i protagonisti, anche attraverso il celebre stratagemma mediatico della rivalità con i Blur, della stagione d’oro del brit pop: debuttano con “Definitely Maybe” (1994), principale responsabile, insieme all’esordio omonimo del 1993 dei Suede e a “Parklife” dei Blur (1994), dell’esplosione mediatica del fenomeno e del ritorno definitivo del guitar pop tradizionale nelle classifiche. Sono tre dischi diversissimi che rispecchiano tre diversi sottostili: il disco degli Oasis, come si diceva, si colloca nel revival del rock inglese più tradizionale, ma aggiorna la lezione di Kinks, Beatles e Who alle suggestioni psichedeliche dei gruppi di Madchester (Noel Gallagher era stato il tecnico delle chitarre degli Inspiral Carpets) e ad una certa asprezza di scuola glam. È una formula revivalista, ma riuscitisssima, che tende però a sclerotizzarti con le uscite successive: così, se “(What’s the Story) Morning Glory?” (1995) è un ottimo disco, “Be Here Now” del 1997 incarna in sé molti dei limiti del movimento, ripetendo per l’ennesima volta il solito, usurato canovaccio. Se gli Oasis sono destinati ad appannarsi con la fine degli anni ’90 (come gran parte del movimento) la vena “tradizionalista” sopravvivrà brillantemente alla fine della stagione d’oro del brit pop continuando ad abitare, con stili e modalità diverse, i dischi di gruppi  come Embrace e Seahorses prima, Travis, Shack e Seahorses poi.
Viaggiano su coordinate differenti i presunti rivali degli Oasis, vale a dire i Blur di “Parklife”, il cui suono è una bizzarra miscela di pop ‘60s, Kinks e Small Faces su tutti e new wave inglese primi anni’80, in particolare gruppi come Madness, Jam ed Xtc. Non sono gli unici a citare la new wave, peraltro, se si considera che un gruppo cardine di quell’epoca come i Blondie risulta punto di riferimento assoluto per tutta una serie di gruppi femminili che esplodono nella fase d’oro del fenomeno per poi, nella maggior parte dei casi, tramontare con esso: gruppi come Elastica, Sleeper ed Echobelly su tutti. Sono più virati invece verso il pop-punk gruppi come Supergrass ed Ash: artefici di una bizzarra e strepitosa miscela  di Buzzcocks, Madness e Bowie i primi su “I Should Coco” (1995), fautori di un suono a metà strada tra power pop e punk-pop i secondi con “1977” (1996).
Si staccano ben presto invece dai suoni della new wave, almeno in parte, proprio quei Blur che ne hanno inaugurato il revival, dimostrando, al contrario degli Oasis, una straordinaria attitudine a cambiare ed evolversi: così, se “The Great Escape” segue le coordinate sonore del disco precedente, nel 1997, quando il brit pop sta iniziando a mostrare i suoi limiti, con un abile colpo di reni il gruppo si svela in tutto il suo eclettismo con un disco (omonimo) leggermente più cupo dei precedenti, che si diverte a citare, tra gli altri il grunge, il lo-fi e il Bowie berlinese, iniziando un percorso sorprendente che proseguirà con “13” (1999) e “Think Tank”(2003).
Il terzo gruppo-chiave del brit pop, che tra l’altro ne apre le danze nel 1993 con l’esordio omonimo, sono i Suede, gruppo che riprende l’estetica sonora di protagonisti del glam come Bowie, Roxy Music e T. Rex, e la sposa, ancora una volta, con lo spirito romantico degli Smiths e con atmosfere barocche che fanno rivivere lo spirito di Scott Walker e che ritroveremo in gruppi affini come Pulp, Auteurs e Divine Comedy. A portare avanti la corrente neo-glam pensano gruppi come Placebo e Mansun: i primi, all’esordio col disco omonimo del 1996, esasperano il gioco dell’ambiguità sessuale ed inaspriscono i suoni in una miscela di T. Rex e noise-rock americano (Nirvana, Smashing  Punpkins  e Pixies): una formula che matura ulteriormente col capolavoro “Without You I’m Nothing” (1998); i Mansun, dal canto loro, in “Attack of the Grey Lantern” (1996) sintetizzano passato remoto, prossimo e presente del glam, vale a dire Bowie, Duran Duran e, appunto, Suede.
Rock tradizionalista, revival della new wave e neo-glam sono  termini schematici che ci permettono, con qualche forzatura, di trovare il bandolo della matassa nell’intricatezza di un fenomeno che nel giro di pochi anni produce una vera e propria valanga di band. Alcuni di esse, tuttavia, sono davvero difficili da catalogare: ad esempio gruppi come i gallesi Gorky Zycotic Myncy e Super Furry Animals, che, insieme alle Catatonia mettono il Galles sulla mappa del pop. I primi, con dischi come “Bwyd Time” (1995) e “Barafundle” (1997), si divertono a saltellare dall’inglese al gaelico, unendo nel frattempo la verve eclettica e stralunata di Kinks e Kevin Ayers con il meglio del folk inglese: Fairport  Convention, Donovan e Nick Drake su tutti. Altrettanto eccentrici risultano i Super Furry Animals di “Fuzzy Logic” (1996), affini per molti versi a Blur e Supergrass nelle atmosfere e nei suoni, ma in grado di aggiungere al suono una certa verve psichedelica di marca Barrettiana.
L’elemento lisergico è ancora più spiccato nei dischi dei Verve, tra i migliori nel portare avanti il discorso dello shoegaze negli anni ’90, in particolare nell’esordio del 1993 “A Storm in Heaven”: nel successivo “A Northern Soul” (1995) per descrivere il suono del gruppo si può già parlare di psichedelia tout court, dove alle atmosfere oniriche e spaziali si lega una spiccata sensibilità pop destinata a maturare nel terzo ed ultimo disco del gruppo, il capolavoro “Urban Hymns” (1997) uno dei dischi-simbolo del passaggio dal brit-pop al suo “post” .
La stessa sensazione che si ha ascoltando i dischi dei Radiohead: il gruppo di Oxford, partito nel 1993 con “Pablo   Honey”distinguendosi già dai suoi contemporanei nonostante il suono ancora acerbo per i ripetuti ammiccamenti al rock americano di R.e.m. e Nirvana, compie con “The Bends”(1995) e “O.k. Computer”(1998) un miracolo che riesce di rado nella storia del rock: prendere influenze note ed ottenere un risultato che non è una semplice somma delle parti, ma un suono alieno e (nel suo piccolo) rivoluzionario. Impresa riuscita pochi anni prima a gruppi come Pixies e Nirvana, tra le principali influenze, insieme a formazioni inglesi come Pink Floyd e Suede, del gruppo di Thom Yorke, vocalist che fonde la vena calda di Morrissey con l’epica degli U2 e la verve lirica di Jeff Buckey, straordinario artista americano che con “Grace” (1994) da vita in questi anni ad un ambizioso disco che coverizza Nina Simone e Leonard Cohen, oscilla tra folk, jazz e soul e cita il padre Tim ed il Van Morrison di Astral Weeks.
La vena malinconica e le voci allo stesso tempo spettrali e angeliche di Buckley e dei Radiohead si estendono come una gigantesca ombra su gran parte del pop-rock (non solo inglese) a venire: Doves, Coldplay, Autumns, Muse, Elbow, Starsailor e Veils sono solo alcuni dei gruppi che ne ripropongono la vena sofferta, ognuno a modo suo…
Se i Doves, con “Lost Souls” (2000) e “The Last Broadcast” (2002) creano degli splendidi bignami del brit pop attraverso pezzi che citano brillantemente Radiohead, Oasis e Verve, trovando comunque il tempo di coverizzare i King Crimson di “Moonshine” e di affiancarsi al leader degli High Llamas Sean O’Hagan su “Friday’s Dust”, i Coldplay di “Parachutes” (2000) rileggono il pop dei Radiohead sotto una luce meno malinconica ed in chiave più tradizionale e divengono fenomeno da classifica col secondo disco “A Rush of Blood to the Head” (2002); i Muse, dal canto loro, fin dall’esordio del 1997 “Showbiz” e ancor di più nel successivo ”Origin of Symmetry” (2001) fondono  mirabilmente Nirvana e  Radiohead, esasperando i toni tragici e le sonorità drammatiche di questi ultimi e portandone le intuizioni sonore originarie a lambire il metal ed il progressive; lo spettro di Buckley aleggia invece in “Love Is Here” (2002) e “Silence Is Easy” (2004)  degli Starsailor: dischi che confermano ancora una volta quanto ingombrante sia l’eredità musicale di Radiohead e Buckley nell’epoca del post brit pop.
Fatto evidente fin dai tardi anni ’90, tanto che quando  nel 2000 i Radiohead si trovano a dover dare un seguito all’osannato “O.k. Computer” decidono di esorcizzare le tensioni e spiazzare i fan optando per la svolta stilistica di “Kid A”, disco in cui la voce di Yorke scompare e riappare triturata e vocoderizzata, persa tra sonorità che ricordano da vicino la techno sperimentale di Aphex Twin e Autechre e che li conducono in una dimensione sempre più distante dal brit pop, quella dell’indie electronic.

54 – Indie rock dal lo-fi al sadcore

Se c’è un termine che ricorre per tutti gli anni ’90 a definire le uscite indie ed il loro suono quello è lo-fi (letteralmente bassa fedeltà), ad indicare prima di tutto un sound povero e scalcinato a livello di produzione, ma finendo spesso con l’essere associato anche una certa attitudine, slacker e cervellotica. Sarebbe un’assurdità attribuire agli anni ’90 la nascita del suono lo-fi: quel suono, per cause di forza maggiore, segna in pratica tutte le registrazioni pre-sixties e continua a serpeggiare nei dischi garage-rock e in molti dischi punk dei tardi ’70, divenendo semplicemente un sinonimo di registrazione povera e fai-da-te; e proprio la mentalità del do-it-yourself nata col punk e l’esplosione del college rock americano favoriscono la comparsa sulla scena di una schiera sempre più nutrita di indie rockers che registrano il proprio materiale su 4 tracce analogici: emblematico è il caso dei Guided By Voices, che per tutti gli anni ottanta accumulano valanghe di materiale casalingo che nessuno, fino ai primi anni’90, ha interesse a pubblicare, per poi raggiungere il successo nel 1995 con “Bee Thousand”.
L’ascesa dell’estetica lo-fi (intesa come scelta più che come necessità), ma anche di una certa vena compositiva equamente divisa tra spirito naif ed amore per la dissonanza, è lenta ma costante: i prodromi di quel pop stralunato ed obliquo possono essere intravisti già in un disco del 1980 come “Colossal Youth” degli Young Marble Giants e nelle prime uscite ufficiali (arrivate dopo una lunga serie di introvabili EP), di gruppi come i neozelandesi Chills e Clean, rispettivamente “Brave Words” (1989) e “Vehicle” (1990) che ne rivelano la bizzarra miscela musicale di filastrocche pop e rumore, psichedelia e folk, accostamenti improbabili che fanno tornare alla mente quelli sperimentati nei ’60 dai Velvet Underground.
Gruppo che viene spontaneo nominare anche ascoltando i Pavement di “Slanted & Enchanted” (1992), insieme  ai Sebadoh di Lou Barlow principali responsabili della nascita del culto per quei suoni: il grande merito della formazione di Stephen Malkmus è la capacità di rilanciare il discorso musicale del college rock per gli anni ’90 portando allo stesso tempo avanti il suono del noise-rock di gruppi come Pixies e Dinosaur Jr., ottenendo un risultato musicale che non equivale alla semplice somma delle parti; “Slanted & Enchanted” è un disco che si diverte a fratturare le melodie, in cui si passa in pochi secondi dalla filastrocca alla dissonanza, dalla cacofonia alla pace bucolica del country: pop col coito interrotto che matura e si ripulisce solo un poco nel successivo “Crooked Rain, Crooked Rain” (1994), disco uscito quando il culto del lo-fi (e dei Pavement) è già ampiamente diffuso.
Complici sonori di Malkmus e soci sono, fin dall’inizio, i Sebadoh dell’ex-bassista dei Dinosaur Jr Lou Barlow che trovano con “III” (1991), come suggerisce il titolo terzo capitolo nella discografia del gruppo, una formula musicale che porteranno avanti per tutti i ’90; il disco è parente alla lontana dell’esordio dei Pavement nella bassa qualità delle registrazioni e nella propensione per una forma-canzone vicina alla filastrocca, la cui quiete melodica è disturbata da feedback e dissonanze, ma vanta una struttura più lineare, lontana dal dadaismo compositivo del gruppo di Malkmus.
Se Pavement e Sebadoh risultano essenziali per diffondere le sonorità lo-fi a livello indipendente, altrettanto fondamentali per sancirne la circolazione a livello mainstream si rivelano dischi come “Exile in Guyville” di Liz Phair (1993) e “Mellow Gold”  di Beck (1994): la prima firma un disco che ripercorre nella struttura il celebre “Exile on Main St” degli Stones e costruisce nel frattempo, insieme alla P.j. Harvey di “Rid Of Me” (1993), un’estetica forte di cantautorato femminile che si imporrà, in modo più o meno marcato, per tutti gli anni ’90 e oltre, nei dischi di cantautrici come Fiona Apple, Cat Power e Nina Nastasia. Ancor più influente si rivela Beck, con un suono che fin dall’inizio frulla con disinvoltura hip-hop, country, blues, folk, noise rock, pop e psichedelia, funk, urban, lounge e pop Brasiliano, simbolo perfetto dell’ansia contaminatrice e onnivora del decennio in corso, la stessa che porterà nel corso decennio ad infiniti crossover tra generi e faciliterà la riscoperta dei filoni musicali più oscuri.
La discografia stessa di Beck è attraversata da questo spericolato spirito sperimentale e filologico: se nell’esordio su indolenti ritmiche hip hop si snodano psichedelia, folk, country e blues, col successivo “Odelay” (1996) alla formula musicale si  aggiungono jazz, easy listening e soul; quest’ultima componente tende ad avere la meglio in “Midnite Vultures”(1999), disco in cui la musica nera viene declinata in tutte le sue forme: dal rhythm’n’blues di marca Stax al solito hip hop, passando per il funk di Prince. Lo-fi soprattutto nella veste sonora dei primissimi dischi e nella verve indolente e stralunata che definisce la cosiddetta estetica slacker, il collage sonoro di Beck, gemello di quello creato dai Beastie Boys da “Paul’s Boutique” (1989) in poi, diviene fonte d’ispirazione per innumerevoli atti indie: da chi, come Alabama 3, Scott 4 e i Gomez di “Bring It On” (1998) ne riprende più o meno pedissequamente la commistione di groove hip hop e blues tradizionale dei primi dischi, a chi invece ne eredita lo spirito ecumenico: Bran Van 3000, Beta Band e tutto il giro della Grand Royal, etichetta personale dei Beastie Boys per cui escono Luscious Jackson, Money Mark e Buffalo Daughter .
Dovendo cercare il cuore dell’indie rock lo-fi bisogna però guardare altrove, volgendosi a gruppi più o meno chitarristici che sviluppano nel decennio a venire quell’idea di pop postmoderno, obliquo e sconnesso, resa popolare da Sebadoh e Pavement: artisti come Guided By Voices, Built To Spill, Silkworm, Magnetic Fields, Quasi e Creeper Lagoon. Gruppi comunque diversissimi tra loro, si badi bene: i Built To Spill brillano in dischi che rappresentano la fusione perfetta  di Pavement,  Sebadoh e Dinosaur Jr, dal secondo disco “There’s Nothing Wrong with Love” (1994) passando per “Perfect From Now On” (1997) e per il capolavoro del 1999 “Keep It Like a Secret” ,dimostrazione perfetta del teorema del lo-fi pop: passare attraverso un suono spoglio e primitivo ed una vena noise mai sopita per ottenere un suono pop irresistibile.
Un suono simile abita l’esordio dei Quasi “R&B Transmogrification”  (1997): il duo, composto da Sam Coomes e da Janet Weiss  (batterista delle Sleater Kinney), si differenzia però recuperando melodie senza tempo che riportano alla mente i Beatles psichedelici, i primi Pink Floyd ed i Flaming Lips più lineari. Fuori dal tempo sono anche i dischi dei Magnetic Fields, one-man band che fa perno sulla figura geniale di Stephin Merritt: erede ideale di un filologo del pop come Van Dyke Parks , Merritt sostituisce la pompa cameristica di quest’ultimo con un bricolage lo-fi che anima una lunga serie di dischi partita con “Distant Plastic Trees” (1991) e culminata col capolavoro del 1999, “69 Love Songs”, monumentale triplo disco che passa in rassegna più di 50 anni di pop, dal Tin Pan Alley a Phil Spector, dal doo wop ai Beach Boys, da Burt Bucharach all’ambient pop, dal country al folk, esercizio enciclopedico che è perfettamente in linea con la riscoperta del pop classico che prende piede in quegli anni e di cui si parlerà più avanti.
Una conseguenza immediata del successo di culto di Pavement e compagnia è che l’amore per la melodia disturbata ed il pop sbilenco diviene sinonimo stesso di indie: lo ritroviamo negli esperimenti elettronici di produttori tedeschi  come Tarwater e Schneider Tm, ma anche in un’infinità di dischi a cavallo tra i ’90 e il nuovo millennio ad opera di gruppi come Modest  Mouse, Hymnie’s Basement, Omaha Records, Grandaddy ed Unicorns, tutti artisti che si crogiolano nel celebre binomio “genio e sregolatezza”.
I primi, in dischi come “The Lonesome Crowded West “ (1998) e “Moon & Antarctica”(2000) incrociano  brillantemente Pavement  e roots-rock, confondendo le carte con abbondanti scorie emo, mentre i Grandaddy su “Under the Western Freeway” (1997) e “The Sophtware Slump” (2000) trovano in un pop bucolico e vintage una sorta di via intermedia tra Pavement e Flaming Lips. Questi ultimi sono un riferimento cardinale anche per gli Unicorns di “Who Will Cut Our Hair When We’re Gone?” (2004) che ne rileggono la bizzarra lezione psichedelia dando allo stesso tempo un ideale seguito ai suoni del cosiddetto movimento Elephant 6.
Per capire di cosa si tratta facciamo un passo indietro: con questo nome si indica un collettivo di gruppi che durante gli anni’90 rilegge in chiave lo-fi il versante più pop della psichedelia (Beatles, Beach Boys e Pink Floyd Barrettiani su tutti) coniugandolo, almeno all’inizio, con una muraglia di suoni e rumori che non può che riportare alla mente il wall of sound di Jesus & Mary Chain. Ne fanno parte Olivia Tremor Control, Apples in Stereo, Neutral Milk Hotel, Elf Power, Of Montreal e, più tardi, Ladybug Transistor ed Essex Green: gruppi che, insieme a Quasi, Magnetic Fields e Guided By Voices, rappresentano il lato più pop del lo-fi e che allo stesso tempo testimoniano il progressivo slittamento dell’indie-pop dalle asperità sonore della prima metà del decennio verso eleganti suoni orchestrali e cameristici.
“Fun Trick Noisemaker”, esordio del 1995 degli Apples In Stereo, filtra Beatles, Love e Brian Wilson attraverso un rumoroso wall of sound, coordinate sonore che ritroviamo anche in “Dusk at Cubist Castle”,(1996) degli Olivia Tremor Control, quasi una riscrittura in chiave noise e lo-fi del “White Album” Beatlesiano. Più americani nel suono i Neutral Milk Hotel che con “In the Aeroplane Over the Sea”(1998), ben rappresentano la transizione sonora cui si accennava: da una parte permangono occasionali capatine di rumorismo, dall’altra si assiste ad un timido inserimento di fiati ed altri elementi cameristici.
La transizione si completa con i Ladybug Transistor di “Albemarle Sound” (1998) e gli Essex Green di “Everything is Green” (1999), dischi in cui la vena orchestrale di Burt Bacharach, George Martin e Brian Wilson e il fascino del pop barocco hanno definitivamente la meglio sulle tentazioni noise, in perfetta linea con una tendenza di fine decennio che coinvolge decine di artisti diversissimi tra loro, come Belle&Sebastian, Divine  Comedy e  Decemberists.
Ovviamente l’apporto degli anni’90 al suono psichedelico non si esaurisce ai dischi del collettivo Elephant 6, anzi: nel corso del decennio prendono piede infinite riletture del genere che ne esplorano risvolti diversi e a tratti contrastanti. Centrali risultano innanzitutto due gruppi come Flaming Lips e Mercury Rev. I primi, attivi fin dalla metà degli anni’80 arrivano nel 1993 al primo capolavoro, quel “Transmissions from the Satellite Heart” che inaugura la fase più pop del gruppo e che sarà ispirazione non solo per gruppi già menzionati come Elf Power e Grandaddy, ma più in generale per tutto la corrente neo-psichedelica,  dai Dalgados ai Secret Machines.
Una psichedelia, la loro, che ricongiunge e fonde quanto di meglio detto in campo psichedelico nel corso dei decenni: il noise-pop, la psichedelia inglese dei primi anni ’80 dei Soft Boys e la vena stralunata di Syd Barrett sono filtrati e plasmati in un suono unico e personale dal genio di Wayne Coyne. Il gruppo porta a compimento nel 1999 la sua vena più pop con “The Soft Bulletin” e nel concept “Yoshimi Battles the Pink Robots”: album preceduti dal folle “Zaireeka”, disco quadruplo che richiede un ascolto simultaneo di tutti e quattro i volumi, ennesima dimostrazione del genio eccentrico del gruppo.
Gruppo in cui milita brevemente come chitarrista Jonathan Donahue, frontman dei Mercury Rev, gruppo all’esordio discografico nel 1991 con “Yerself Is Steam”: anche qui traspare una certa fascinazione per il pop, dissimulata solo in parte da colate di rumore bianco ed estatici momenti ambientali; nel successivo “Boces” (1993) il suono comincia a subire delle mutazioni e qua e là cominciano a spuntare suoni orchestrali. Sono i primi passi di un’evoluzione che li porterà nel giro di qualche anno ai fasti sinfonici di “Deserter’s Songs” (1998), sontuoso capolavoro pop del gruppo: alla regia di questa evoluzione c’è il bassista Dave Fridmann, responsabile anche della svolta pop dei Flaming Lips di “Soft Bulletin”.
Esce un anno prima di “Deserter’s Songs”, “Ladies and Gentlemen We Are Floating in Space”, disco del 1997 degli Spiritualized dell’ex-Spacemen 3 Jason Pierce: anche qui i muri di chitarra sono rimpiazzati da muri orchestrali e il suono è arricchito di contaminazioni, ma dove i Mercury Rev spostano definitivamente l’ago della bilancia sul versante pop, gli Spiritualized accentuano l’elemento spirituale del dream pop, contaminandosi col gospel e mantenendo una struttura circolare e ripetitiva.
Si tratta di uno dei tanti dischi che proseguono gli spunti del dream pop e dello shoegaze negli anni’90, insieme con quelli di Verve, Kingsbury Manx, Phaser, Secret Machines e Radio Dept.: solo alcuni dei gruppi che riprendono quei suoni, seppur con modalità radicalmente diverse. Se nell’omonimo debutto dei Kingsbury Manx, del 2000, Ride e Slowdive si sposano col folk di Simon&Garfunkel e Byrds e con la psichedelia naif di Syd Barrett, in un disco come “Now Here Is Nowhere” dei Secret Machines (2004) si va a finire sul versante opposto dello spettro sonoro, fondendo shoegaze inglese, primi Flaming Lips e kraut-rock e riscoprendone la vena più ipnotica; nel mezzo si collocano i Radio Dept. di “Lesser Matters” (2003), sintesi perfetta dello spirito psichedelico inglese di fine anni ’80: Cocteau Twins e Jesus and Mary Chain, My Bloody Valentine, Slowdive e Ride convivono amabilmente tra i solchi di questo disco, rivisti però con la freschezza e l’immediatezza melodica del twee pop.
C’è poi tutta una serie di gruppi che portano avanti il filone psichedelico muovendosi su coordinate musicali diversissime che si vanno a ricollegare alle origini rock di quei suoni: gruppi come Warlock, Jupiter Affect, Brain Jonestown Massacre, Bees ed Outrageous Cherry; anche in questo caso, muovendosi tra un estremo e l’altro dello spettro sonoro, troviamo da una parte un gruppo come i Brian Jonestown Massacre di “Take It from the Man!” (1996), dove l’ossessione per i Rolling Stones è filtrata attraverso la lezione del garage rock, dall’altra una formazione come i Bees ecumenici e calligrafici di “Free the Bees” (2004) che giocano a smontare e rimontare, tra gli altri, i dischi di Byrds, Zombies e Neil Young con un agio ed una disinvoltura che spingono quasi a cedere all’illusione che negli ultimi trenta e passa anni nulla sia accaduto.
A fare da contraltare al florilegio psichedelico degli anni’90 c’è un movimento musicale dalle caratteristiche antitetiche che si sviluppa ad inizio decennio nei dischi di artisti seminali quali American Music Club, Smog e Red House Painters. Il suono di questi gruppi è quanto di più lontano si possa immaginare dalle sontuose architetture, noise ed orchestrali, di gruppi come Apples In Stereo e Mercury Rev, spesso limitato a semplici melodie di piano o chitarra, il tono depresso ed il passo trascinato, la veste lo-fi, poiché tale forma rudimentale ben si sposa con i suoni spogli e le architetture semplici che caratterizzano il genere: per descriverlo viene usato il termine sadcore.
Tra i primi a disegnare quei suoni ci sono gli American Music Club di Mark Eitzel, con dischi come “Engine” (1987), “Everclear” (1991) e “Mercury” (1993), dove Costello e Nick Cave sembrano suonare con i Joy Division come backing band ed in cui il roots rock diviene un mezzo come un altro per rilasciare le confessioni più intime e disperate.
Una strada seguita nei primi anni’90 anche dai Red House Painters di Mark Kozelek, non a caso il gruppo preferito da Eitzel: per la 4AD esce nel 1992 “Down Colorful Hill”, (in realtà una raccolta di demo del gruppo), seguono due dischi veri e propri, omonimi, nel 1993, in cui il gruppo si spinge ancora oltre nella ricerca di un suono spoglio e nell’utilizzo delle canzoni quale strumento per le proprie più intime confessioni di quanto non avessero fatto gli stesse American Music Club, fungendo da ispirazione per decine di gruppi affini come Idaho, Early Day Miners, Sophia e Spain. C’è però, nella musica dei Red House Painters, anche una certa ripetitività di fondo, un andamento mantrico, un passo lento e indolente e un riverbero ovattato che conducono il folk dalle parti del dream pop, come già prima avevano fatto i Galaxie 500 di “On Fire“ (1989) e soprattutto i Codeine di “Frigid Stars” (1990), dove tutto si dilata ulteriormente: i tempi, la voce, il suono distorto della chitarra, tanto che si comincia a parlare di slowcore, in pratica il dream pop degli anni ‘90, folk dal passo lentissimo e trascinato che verrà sviluppato da gruppi  come Low, American Analog Set,Ida, Bedhead e Radar  Bros prima, Movietone, Savoy Grand, Seekonk e Rand & Holland poi.
Fin da subito sulla massa spiccano i Low, all’esordio nel 1995 con “I Could Live in Hope”: da quel disco in poi non sbagliano praticamente un solo colpo arrivando al capolavoro nel 2001 con “Things We Lost in the Fire” e rivoluzionando poi il proprio suono con maggiori aperture al rock in “The Great Destroyer” (2005), culmine di un percorso sonoro che li ha progressivamente portati dal suono mantrico degli inizi ad una maggior ricchezza melodica, a mostrare il volto più pop dello slowcore; un ruolo peraltro condiviso con i Radar Bros, soprattutto in virtù del terzo disco del gruppo, quel “And the Surrounding Mountains” (2002) che sposa il passo indolente dello slowcore con melodie zuccherine e commoventi che lo conducono lontano dal cosiddetto sadcore.
Che è e resta un non-genere, rivelandosi più che altro come un mood, malinconico e agrodolce, che è croce e delizia dei dischi di Elliott Smith fin dall’esordio del 1994 “Roman Candle”, disco che ne rivela la straordinaria miscela di Beatles, Simon&Garfunkel e  Nick Drake; a distanza di tre anni arriva il capolavoro “Either/Or”(1997) dove  l’influenza Beatlesiana è ancora più forte: Smith dai fab four riprende l’incredibile perizia melodica e la sposa con arrangiamenti in chiave lo-fi, suonando tutti gli strumenti da solo e ottenendo risultati mai più eguagliati, né da Smith stesso né dai primi seguaci che compariranno sulla scena, come Jason Anderson e Jeff Hanson.
In uno spazio intermedio tra la ricchezza melodica di Smith e le melodie spesso minimaliste dello slowcore si colloca una lunga serie artisti che comprende Shannon Wright, Hayden, Shearwater, Smog e Cat Power. Come Elliott Smith, Shannon Wright suona tutti gli strumenti (chitarra, piano, violoncello, organo e batteria) da sola nel debutto del 1991 “Flightsafety”, arrivando a tratti a ricordarne anche il suono, più spesso accentuando però quella vena ipnotica e ripetitiva, asciutta e sommessa, che popolava i dischi di Nick Drake.
Anche nel debutto del 1995 di Cat Power, “Dear Sir”, l’influenza di Drake si fa sentire, insieme con quella di Laura Nyro e di Liz Phair, artista per cui, ad inizio carriera, Chan Marshall ( vero nome della cantante) aprirà alcuni concerti: il salto di qualità lo fa con “Moon Pix” (1998), disco in cui si fa affiancare dai due Dirty Three Mick Turner e Jim White e col successivo “You Are Free” (2002) dove il suo suono si diversifica ulteriormente.
Seminale si rivela Bill Callahan (alias Smog) nel ridefinire il folk nell’epoca del lo-fi, con una serie di dischi che da “Forgotten Foundation” (1992) a “Red Apple Falls” (1997) lo vede passare da un pop-rock psichedelico e amatoriale ad una splendida fusione di folk e country che concilia il sussurro distaccato di Nick Drake con il cantato distratto di Lou Reed, trovando nella dimensione acustica la quadratura del suo suono e portando avanti quel folk intimista che era stato di Cohen e poi, appunto, di Drake e che verrà portato avanti negli anni successivi da artisti come Hayden e Shearwater.
Intimismo è un termine che diviene eufemistico quando si va a parlare degli Arab Strap di “Philophobia” (1998), concept album in cui la fine di una relazione importante viene passata al microscopio e sezionata, una canzone dopo l’altra; se l’effetto è voyeuristico il suono è quasi un prolungamento di quello degli Smog, alternanza di minimalismo e spunti melodici quasi classici, cantato strascicato, ritmo indolente: ma qui siamo in Scozia, le radici country sono lontane, ed il cantante Aidan Moffat si fa accompagnare dal polistrumentista Malcolm Middleton e dalla sua drum machine, a creare una sorta di folk elettronico: le differenze sono ancora più evidenti in “The Red Thread” (2001) dove il gruppo scopre le carte e rivela molte più affinità col pop morboso dei Pulp che con quello desolato di Callahan, a rappresentare l’ennesima variante di un modo sconsolato e desolato di concepire il folk che segna buona parte delle produzioni degli anni’90.

55 – Dal post rock al glitch pop

Il termine post rock è utilizzato per la prima volta dal critico di The Wire Simon Reynolds per definire quello strano oggetto musicale che è “Hex” dei Bark Psychosis, gruppo inglese fortemente influenzato dai seminali Talk Talk di “Laughing Stock”: l’anno è il 1994, di u.f.o. musicali come quello ne sono già usciti parecchi negli ultimi tre anni ed ancora di più ne appariranno dopo che, nel 1996, col culto che si sviluppa attorno a “Millions Now Living Will Never Die” dei Tortoise il genere diviene uno dei filoni di punta del cosiddetto rock alternativo.
Si parla di genere, ma mai come in questo caso appare più appropriato il termine di famiglia di generi, visto che, anche solo con riferimento alla manciata di dischi menzionati poc’anzi, ci si trova di fronte a lavori radicalmente diversi per sonorità ed influenze. Il motivo è semplice: il termine post rock è, per molti versi, un termine-ombrello sotto il quale viene radunato gran parte del rock sperimentale degli anni ’90, un enorme calderone musicale in cui vengono fuse e messe a frutto tutte le varianti più progressive e coraggiose, presenti e passate, dell’epopea musicale rock: il suono primitivista di Red Krayola e Captain Beefheart, il folk progressivo di John Fahey, il free jazz di Ornette Coleman, il post bop di John Coltrane, il jazz rock avanguardistico del Miles Davis di “Bitches Brew”, l’avanguardia di Reich, La Monte Young e John  Cage, il progressive tedesco di Can, Neu! e Faust, l’ambient di Brian Eno, il dub, il noise rock dei Sonic Youth, il  primo  postcore  di Chicago e Wahington e suoni ancora in piena evoluzione come  quello della techno sperimentale (ed ambientale) di Aphex Twin e Autechre e quello del glitch.
Questo il complesso quadro di riferimento per capire un fenomeno che ha in ogni modo una sua articolazione precisa, sia in senso cronologico sia geografico: anzi, la forte polarizzazione di questi gruppi attorno a scene, città ed etichette rende più facile la soluzione dell’intricato puzzle. Per questo si parlava poco fa di famiglie di generi e stili, in cui le varie discendenze, più o meno nettamente distinguibili tra loro, sono legate da collaborazioni e da reciproche influenze: c’è il post rock chitarristico che si sviluppa a Louisville, quello ibrido e jazzato di Chicago, quello impregnato di new wave di New York, quello elettronico ed ambientale inglese e infine quello, vicino all’IDM, tedesco; successivi saranno fenomeni come il post rock canadese e le multiformi mutazioni del glitch pop. A queste micro-scene corrispondono seminali etichette di riferimento, le americane Thrill Jockey, Quarterstick, Touch And Go e Kranky, l’inglese Too Pure, la tedesca Kitty Yo, la canadese  Constellation, accanto ad etichette come Tomlab, Morr ed Hefty che si rivelano vitali per lo sviluppo del suono glitch pop.
Se, comunque, fosse strettamente necessario andare a cercare un luogo di nascita per il fenomeno la scelta ricadrebbe necessariamente su Louisville, dove si formano gli Squirrel Bait, seminale gruppo postcore di cui fanno parte, tra gli altri, i chitarristi David Grubbs e Brian McMahan: il primo va a formare di lì a poco i Bastro, il secondo entra negli Slint, gruppo che con soli due Lp all’attivo, “Tweez” (1989) e “Spiderland” (1991), definisce il suono del post rock chitarristico americano.
Il secondo disco del gruppo si rivela particolarmente seminale, con un suono che è figlio dei Sonic Youth nelle continue  alternanze tra quieto minimalismo e scoppi di feedback chitarristico e del John Fahey più mantrico, una struttura libera e aperta che riecheggia le improvvisazioni dell’acid rock e del jazz e un’attitudine cerebrale affine a quella dei gruppi progressive anni ’70: in altre parole è il disco che segna la nascita del post rock. A conferma di quanto sia intricato il gioco di rimandi dell’indie rock anni ’90 è curioso che a scattare la foto di copertine del disco sia un certo Will Oldham, pilastro dell’alternative country nei cui Palace militeranno per breve tempo proprio due ex Slint dopo lo scioglimento del gruppo: McMahan and Brashear.
Più tardi sempre McMahan si riunirà per breve tempo ad un altro ex Slint, David Pajo, andando a formare i For Carnation, gruppo che proseguirà nei tardi anni ’90 il discorso cominciato quasi dieci anni prima con gli Slint, proprio negli anni in cui le intuizioni musicali di quel gruppo seminale raggiungono il riconoscimento dell’intero mondo indie rock.
Il merito di questo riconoscimento generale, come si diceva, va in gran parte a “Millions Now Living Will Never Die “dei Tortoise, gruppo di punta della scena di Chicago: vi troviamo, come chitarrista, proprio David Pajo, a conferma di quanto questo chitarrista sia stato centrale per lo sviluppo di quei suoni.
Un’altra figura-chiave della scena musicale di Louisville è l’ex Squirrel Bait David Grubbs che dopo lo scioglimento del gruppo ritroviamo nei Bitch Magnet e nei Bastro. Questi ultimi sono ancora vicini ai suoni postcore dell’ex gruppo di Grubbs, declinato, però, nella sua accezione più noise; un noise che però in “Sing the Troubled Beast” (1990), terzo ed ultimo disco del gruppo comincia a fratturarsi e ad aprirsi verso timidi accenni melodici: un’evoluzione che sarà portata definitivamente a compimento con il progetto successivo di Grubbs, quei Gastr Del Sol che del post rock rappresentano uno dei gruppi di punta. Accanto a Grubbs, pianista, cantante e chitarrista, troviamo il bassista Bundy K.
Brown ed il batterista John McEntire: fin dall’esordio del 1993, “The Serpentine Similar”, i suoni sono già distanti dalle esperienze musicali hardcore e noise del passato, figli se mai degli Slint più mantrici, di cui esasperano la struttura libera dei pezzi, avvicinandosi ulteriormente alle sperimentazioni  di Fahey e all’avanguardia, classica e jazzistica. Intuizioni fondamentali per l’evoluzione del post rock che sono sviluppate ulteriormente nel successivo “Crookt, Crackt, or Fly” (1994), disco segnato dall’abbandono di Brown e dall’arrivo di Jim O’Rourke, artista originario di Chicago, appassionato di musiche sperimentali e di improvvisazione, che aveva già collaborato con artisti come Keith Rowe e Faust: il connubio tra i due si rivela particolarmente fertile e porta il gruppo in territori inesplorati e a capolavori come “Upgrade & Afterlife” (1996) e “Camoufleur” (1998), incredibile calderone musicale di pop, jazz e avanguardia. Resta in organico il batterista John Mc Entire, la cui attenzione è però in gran parte monopolizzata dal progetto a cui nel 1994 si è unito con Brown: quei Tortoise cui già si è accennato varie volte e di cui si parlerà a lungo più avanti.
Prima di lasciare Louisville è necessario però fare un accenno ad un altro gruppo di quell’area che, prendendo spunto anch’esso dalle sonorità degli Slint, ne sviluppa in modo personalissimo le intuizioni: stiamo parlando dei Rodan, autori di un solo disco, “Rusty” (1994), che definisce quel suono tipico del post rock americano che verrà definito più tardi math rock: un suono fratturato e minimalista, innestato su strutture ritmiche complesse, ambientale ed astratto, in cui il contrasto tra i momenti di quiete e i feroci attacchi di feedback diviene ancor più lacerante. Secondo una tradizione che sembra essere una sorta di luogo comune distintivo del post rock anche lo scioglimento dei Rodan porta alla nascita di una fitta progenie di gruppi: il chitarrista Jeff Mueller va a formare i June Of ’44, con cui porta brillantemente avanti il discorso musicale cominciato col gruppo precedente, contaminando però maggiormente il suono del gruppo con l’aggiunta di strumenti elettronici e cameristici e trovando il capolavoro con “Four Great Points” (1998). L’elemento cameristico diviene predominante nei dischi del complesso fondato dall’altro chitarrista del gruppo, Jason Noble: i Rachel’s, il cui capolavoro “Selenography” (1999), è scaldato da suoni di piano, viola e clavicembalo.
Il suono del math rock viene portato brillantemente avanti anche da altri gruppi che, come i Rodan, esasperano la complessità strumentale e la componente cerebrale delle intuizioni degli Slint: uno fra tutti i Don Caballero di “For Respect” (1993), gruppo strumentale che poggia in gran parte sull’inventiva e sul virtuosismo del batterista Damon Che; il cantante del gruppo, Ian Williams, fonderà più tardi gli Storm & Stress, gruppo con sede condivisa tra New York e Chicago al debutto omonimo nel 1997 che spinge il post rock in territori ancora più avanguardistici, alle soglie di una sorta di indeterminismo musicale, composizioni apparentemente prive di struttura melodica e ritmica che vanno oltre le fantasie più sfrenate di Captain Beefheart e Red Krayola.
Sempre da Chicago proviene un gruppo dalle influenze musicali radicalmente diverse: si tratta dei Tortoise, l’unico gruppo a poter rivaleggiare con gli Slint in quanto ad influenza per le future sorti del genere, che conduce tra le insidiose acque del progressive, da una parte riprendendo, nel tentativo di fusione col jazz, il discorso interrotto trenta anni prima dai Soft Machine, dall’altra aggiornando quel suono alla lezione di gruppi progressive tedeschi come Can e Neu e alle atmosfere ovattate del dub.
In questo il gruppo si rivela fin dall’inizio affine alle sperimentazioni del post rock inglese, che aveva iniziato a gingillarsi con dub e kraut rock dai primi anni del decennio, e alla scena elettronica più cerebrale: non a caso il gruppo sottoporrà i propri pezzi ai remix di gente come Oval, Luke Vibert e Spring Heel Jack esponenti di punta, rispettivamente, di glitch, hip hop astratto e drum’n’bass sperimentale. La cosa è d’altra perfettamente in linea con le intenzioni dei due fondatori originari del gruppo, Doug McCombs e John Herndon, rispettivamente basso e batteria, che lo avevano fondato fin dall’inizio con l’intenzione di seguire le orme del celebre duo dub Sly & Robbie.
Il suono del gruppo, già promettente nell’esordio omonimo del 1993, decolla nel 1996, dopo l’arrivo del chitarrista David Pajo, con “Millions Now Living Will Never Die”, disco che, come si è detto, fa scoppiare il caso post rock nelle cronache indie: pezzo-cardine del disco è “Djed”, lunga suite di venti minuti in cui la fusione tra dub, kraut, elettronica ed indie rock raggiunge la sua forma perfetta. La vera mente dietro al suono del gruppo è comunque John McEntire, che già col disco precedente si scopre anche produttore: una veste in cui lo ritroveremo anche nei dischi di Stereolab e Trans Am, oltre che nel suo progetto collaterale Sea And Cake, al debutto omonimo nel 1994, con cui esplorerà il lato più pop delle sonorità post rock. La commistione col jazz viene invece approfondita sia dagli Isotope 217, altro side-project del gruppo di Chicago a partire dal debutto del 1997 “The Unstable Molecole”, sia dagli stessi Tortoise che dopo la defezione di Pajo assoldano il chitarrista Jeff Parker, esponente della comunità free jazz di Chicago principale responsabile della svolta stilistica di “TNT” (1998).
I Tortoise non furono comunque l’unica formazione di Chicago a tentare commistioni col kraut rock e il jazz: da una parte troviamo un gruppo come i Cul De Sac che già in “Ecim”, esordio del 1992, tenta commistioni col prog tedesco di Neu e Faust coverizzando nel frattempo il folk psichedelico di Buckley e quello progredito di Fahey e rivelandosi fin da subito gruppo inclassificabile, per cui l’etichetta post rock è applicabile soltanto nella sua accezione più generica, quella che vede nel movimento la risposta degli anni ’90 al progressive. Un discorso analogo vale per i Flying Luttenbachers di “Constructive Destruction” (1994), eredi di quel suono tra free jazz e punk pionierizzato da gruppi no wave come Lounge Lizards e Contortions.
Influenzati dalla no wave di Contortions e Liquid Liquid anche la rilettura delle architetture sonore Slintiane e del suono dub dei Tortoise fatta dagli Ui, due bassi e una batteria, di “Sidelong” (1996) e “Lifelike” (1998): gruppo che ci riporta a New York. Da lì provengono anche due gruppi come Trans Am e Six Finger Satellite che anticipano di parecchi anni il revival di quelle sonorità anni ottanta che nel decennio successivo proprio a New York riesploderanno prepotentemente: i primi, con “Surrender to the Night” (1997), nell’ambito del generale recupero del rock tedesco propendono più per i Kraftwerk che per i Can, arrivando anche a lambire il synth pop dei New Order, mentre i Six Finger Satellite su “The Pigeon Is the Most Popular Bird” (1993) celano dietro una fitta coltre di rumore l’electro-rock dei Devo ed il p-funk dei Gang of Four.
Mentre attraverso Louisville, Chicago e poi New York il suono del post rock si infiltra attraverso le maglie dell’indie rock americano un processo analogo si verifica in contemporanea in Inghilterra, sulle uggiose coste di Bristol e Londra, in gran parte grazie all’opera seminale di un’etichetta come la Too Pure: è un suono onirico e ambientale, dove il dub e l’elettronica circolare dei Can e dei Faust convivono amabilmente, un suono che in parte è la prosecuzione ideale del dream pop di fine anni’80 e in parte è imparentato coi suoni e atmosfere del trip hop, che proprio in quegli anni sta nascendo a Bristol.
Tra i primi ad esordire vi sono i Seefeel di “Quique” (1993), sorta di fusione tra il dream pop e la techno ambient di Aphex Twin, e i Moonshake di “Eva Luna” (1992) che proseguono idealmente nel progetto Laika, a loro volta autori di quel “Silver Apples of the Moon“ (1995), il cui suono è sempre intriso di dub e animato da un massiccio uso di campionamenti, ma la cui vena pop si fa più marcata e l’effetto ambientale un po’ meno cupo. Radicalmente differenti i suoni di Pram e Stereolab, due gruppi che anticipano di parecchi anni quel suono elettropop retrofuturista, fatto di ritmi esotici e suoni di moog, che nella seconda metà del decennio attraverserà trasversalmente gran parte delle produzioni indipendenti: fin dall’esordio del 1993 “The Stars Are So Big, the Earth Is So Small… Stay as You Are” i Pram si rivelano al mondo esterno con un suono indecifrabile, sorta di giostra impazzita in cui Nico dei Velvet Underground si fa accompagnare da orchestrine lounge ubriache, un suono che diventa più lineare con i dischi successivi fino ad arrivare ad un trionfo dell’easy-listening come “North Pole Radio Station” (1998).
Un percorso simile a quello seguito dagli Stereolab che, almeno inizialmente, coi Pram condividono etichetta e sonorità: l’esordio è del 1992 e sono presenti tutti gli elementi della sintesi originalissima che sarà sviluppata negli anni dal gruppo: armonie vocali degne dei Beach Boys e melodie easy listening filtrate attraverso un suono, analogico ed ossessivo, che riecheggia i Silver Apples ed i Neu! , una contraddizione in termini solo apparente che rende quel suono unico e che viene ancora più accentuata nel capolavoro del 1996 “Emperor Tomato Ketchup” e nel successivo “Dots and Loops” (1997), dove, a fronte di una maggiore immediatezza delle melodie, cresce la complessità e la densità degli arrangiamenti.
Accanto al post rock dub di Seefeel e Laika e a quello retrofuturista di Pram e Stereolab sulle affollate coste inglesi c’è anche posto per quello, ambientale e sognante, di Flying Saucer  Attack, Quickspace e Piano Magic. I primi, un duo composto da David Pearce e Rachel Brook, su “Further” (1995) prendono per mano lo shoegaze di My Bloody Valentine e Jesus & Mary Chain e lo conducono a passeggio tra i bucolici paesaggi del folk, le stanze aliene del kraut rock e gli eterei scenari new age; più classicamente post rock i Quickspace di “Precious Falling” (1997) e “The Death of Quickspace” (2000), gruppo in grado di creare una sintesi perfetta tra dream pop, slint e can. Il vero erede di Kevin Shields dei My Bloody Valentine è, però probabilmente Glenn Johnson, mente dei Piano Magic, gruppo che trova in “Low Birth Weight” (1999), la perfetta sintesi tra Can e dream pop dando contemporaneamente l’ennesima conferma di come la componente  onirica e ambientale siano elementi centrali del post rock anglosassone.
Atmosfere che occupano un posto centrale anche nei dischi della Kranky, come risulta evidente ascoltando “Prazision” (1994) dei Labradford, esordio non solo per il gruppo, ma anche la seminale etichetta di Seattle che di lì a poco lancerà altri gruppi affini come Stars of the Lid, Jessamine e Pan American. Per quanto riguarda l’esordio dei Labradford, esso è un derivato diretto dei mantra degli Spacemen 3, suono ipnotico scaldato dall’uso di tastiere che accompagnano il tradizionale ronzio delle chitarre, atmosfere molto simili a quelle che si respirano sul debutto omonimo del 1995 dei Jessamine, dove però alle fasi astratte ed ambientali si alternano spunti melodici che spiazzano l’ascoltatore e lo conducono a sorpresa attraverso il noise pop dei My Bloody Valentine; va nella direzione opposta l’esordio omonimo del 1998 di Pan American, progetto solista di Mark  Nelson dei Labradford, che esaspera ulteriormente il senso di astrattezza e ripetitività creando, attraverso la produzione dub e la ritmica indolente, crea una sensazione di quieta calma circolare.
E parlando di astrattezza, nel 1995 esce un disco, “94 Diskont”, firmato dagli Oval, che segna grossomodo il primo barlume di vita del cosiddetto movimento glitch, fenomeno elettronico che si rivelerà vitale per le sorti future del post rock (e non solo): analogamente all’electro di vent’anni prima il glitch è figlio della tecnologia del suo tempo, in questo caso il laptop. Se il suono della prima techno gioca con le possibilità offerte dai primi, rudimentali sintetizzatori e con le sonorità di drum machine e bassi sintetici, così il glitch lavora di fino su un suono frammentato composto di tessuti sonori minimali e di suoni alieni che divengono possibili proprio grazie all’impiego delle tecnologie informatiche.
Se i primi spunti musicali in tal senso sono offerti dalle intricate architetture sonore create dalla techno intelligente e avveniristica di artisti come Aphex Twin e Autechre, il primo riconoscimento ideologico del glitch avviene grazie al produttore tedesco Achim Szepanski, proprietario della label Mille Plateaux, con cui, nel 2000, pubblica la seminale raccolta “Clicks+Cuts”, la prima a presentare in forma organica quel tipo di sonorità. Nel mezzo, almeno cronologicamente ci sono produttori come Vladislav Delay, Pole e, appunto, Oval: “94 Diskont” è il terzo disco del gruppo e, come si diceva, può essere per molti versi considerato il primo Lp glitch della storia. Il disco fonde la musica minimalista di Riley e Reich con la techno ambientale e che utilizza i glitch sonori, quelle sbavature che si accompagnano normalmente all’ascolto di cd difettosi o di pezzi mal mixati, come elementi ritmici; il disco esce per la Thrill Jockey, etichetta simbolo del post rock dietro ad artisti come Tortoise, Sea and Cake e Trans Am, a simboleggiare il legame tra questi due mondi apparentemente distanti, legame che sarà ampiamente evidenziato dall’ala più sperimentale dell’indie dei primi anni del 2000.
Gli Oval non sono gli unici a sperimentare con queste sonorità alla fine dei ’90: da una parte ci sono i Pole, esordio discografico nel 1998 con “1”, che rende il giochetto sonoro a base di sfrigolii e microdistorsioni ancora più esplicito, incrociando nel contempo l’algido minimalismo dei primi con caldi suoni dub, gli stessi che divengono presenza spettrale in “Entain”, debutto  del 2000 di Vladislav Delay, ambient inquietante abitata da voci lontane e da suoni ovattati, paesaggio glaciale che aiuta a definire un’altra sfaccettatura del glitch. Un suono che se affonda, come si diceva, le sue radici nell’avanguardia e nella techno sperimentale comincia già ad incrociare le sue strade con quelle degli artisti più illuminati dell’area post rock, in particolare quelli tedeschi maturati sotto le ali protettive della Kitty yo: è di rigore, come sempre, un piccolo passo indietro.
Un concetto importante di cui tenere conto è il forte legame con l’elettronica che, da sempre, caratterizza il patrimonio musicale tedesco: non solo buona parte degli artisti di riferimento dell’ala del post rock più contaminata con l‘elettronica è di nazionalità tedesca, ma anche nei primi anni ’90 la Germania contribuisce abbondantemente all’evoluzione dell’elettronica, specie della techno, dalla trance a quella più minimale ed ambientale. Non stupisce allora il ruolo di primo piano rivestito sulla scena elettronica internazionale, dal 1994, da un artista come Mouse On Mars, autore nel 1995 dello splendido “Iaora Tahiti” e autore di una forma mutante di techno che fonde dub, jungle, ambient ed hip hop senza dimenticare la lezione del kraut rock ed elaborando un suono indefinibile che non è poi così distante dagli esperimenti più arditi del post rock, tanto che i primi due dischi del gruppo usciranno per la seminale etichetta inglese Too Pure.
Ma è con la comparsa sulla scena tedesca di gruppi come To Rococo Rot, Kreidler e Couch che si comincia a parlare di post rock tedesco: i primi, le cui influenze principali sono, come al solito, da ricercarsi nel progressive tedesco, possono per molti versi essere accostato a gruppi come Tortoise ed Ui per la commistione tra rock, dub ed elettronica, a gruppi inglesi come Stereolab e Pram per la strumentazione sonora vintage: completamente originale è però l’uso di ritmiche molto marcate, che risentono degli influssi della techno tedesca, sia in “Cd”, esordio del 1996 del gruppo che in “The Amateur View” (1999). Progetti collaterali ai To Rococo Rot sono Kreidler e Tarwater.
Se i primi, fondati dal bassista del gruppo Stefan  Schneider ricalcano da vicino le sonorità del gruppo madre, ben più originali i secondi, progetto collaterale del batterista (nonchè addetto agli effetti sonori del gruppo) Ronald Lippok: nel disco d’esordio del 1996 “11-6 12-10” l’influenza dei Tortoise è ancora marcata nel mix sonoro del gruppo, che si segnala per la presenza massiccia di samples ed atmosfere ‘60s, ma già in “Silur” (1998) i Tarwater si svelano come una versione più pop del gruppo originario di Lippo e all’uso frequente dei campionamenti si comincia ad accompagnare una propensione sempre più accentuata per il cantato. Un’altra alchimia sonora che vive del magico equilibrio tra un’elettronica frammentata e cerebrale ed un’irresistibile attrazione per il pop si ritrova anche negli esperimenti sonori di Notwist e Schneider Tm: i primi, di Monaco, partono da un suono che col post rock, specie quello elettronico tedesco, ha ben poco da spartire: metal-hardcore, puro e semplice, almeno nei primi due dischi; poi con l’Ep “12” del 1997, il gruppo si placa e comincia a fondere l’indie rock con la techno ambient degli Autechre ed il glitch degli Oval.
Il piano sembra folle, ma funziona: “Shrink” (1998) ed il successivo “Neon Golden” (2003) sono due gemme di elettronica indie: specie quest’ultimo, improbabile miscela di New Order e pop barocco, il tutto sposato con ritmiche digitali dal suono volutamente “sporco”. Se le influenze sonore del glitch nei dischi dei Notwist sono accennate solo timidamente ben più vistosa risulta la presenza di quei suoni nell’esordio del 1998 di Schneider TM “Moist”, techno intelligente sulle tracce dei Mouse On Mars che matura nel sorprendente pop avveniristico di “Zoomer “(2002), fusione folle di Beck, Beach Boys e New Order.
Non sono tutti tedeschi comunque gli artisti che si contendono il primato di quella fusione tra post rock, glitch e pop che prende il nome di glitch pop: gli anni a cavallo tra la fine dei ’90 e l’inizio del duemila sono un florilegio di dischi che uniscono melodia e sperimentazione: Four Tet, Mùm, Dntel, Savath And Savalas, Telefon Tel Aviv, Lali Puna e The Books sono solo alcuni degli artisti che brillano in materia, con alle spalle come sempre una rete di etichette lungimiranti come Morr, Hefty e Tomlab. Nel 2003 arriva anche una compilation ad immortalare la non-scena, “Indietronica”, che raduna i principali protagonisti di quel suono, pionieri tedeschi inclusi, ma dimentica di includere i Four Tet, progetto collaterale del chitarrista dei Fridge Kieran Hebden che nell’esordio del 1999 “Dialogue” crea un’elettronica organica che fonde il post rock dei Fridge con Dj Shadow, concetto ribadito ed espanso nel capolavoro “Pause” (2001) e nel successivo “Rounds” (2003), dove tutte le spinte più sperimentali del decennio appena trascorso (hip hop astratto, glitch e post rock elettronico) sembrano divenire un tutt’uno. Altrettanto seminale il Dntel di “Life Is Full of Possibilities” (2001), disco pieno di ospiti di lusso tra cui, a chiudere il cerchio, l’ex-Slint Brian McMahan, shoegaze del nuovo millennio con le barriere delle chitarre sostituite da una schiera sonora di micro-distorsioni e scoppiettii.
Se il gioco non si facesse un po’ forzato si sarebbe tentati di assegnare alla musica degli islandesi Sigur Ròs e Mùm un ruolo analogo per quanta riguarda il dream pop: più ariosa e progressiva la musica dei primi, arrivati al capolavoro dopo due splendidi dischi con “( )” (2002), disco che suona come se Thom Yorke cantasse nei Cocteau Twins, più pop i secondi, specie con quel “Finally We Are No One” del 2002 che li fa emergere. Sono gruppi che ben simboleggiano il lungo percorso fatto nel giro di dieci anni dal post rock e più in generale dell’indie rock, eredi ideali dei primi sperimentatori del più sognante post rock inglese: quello degli ultimi Talk Talk, delle uscite Too Pure e dei Flying Saucer Attack, ma distanti anni luce dai suoni del post rock Americano.
A cui possono essere invece accostati, seppur con riferimento principalmente alle sperimentazioni con la classica dei Rachel’s e al dilatato suono Kranky, i gruppi che ruotano intorno alla città di Montreal e alla label canadese Constellation: gruppi come Godspeed You Black Emperor, A Silver Mt. Zion, Do Make Say Think, Polmo Polpo e Fly Pan Am. I primi, formazione a dieci elementi, fin dall’esordio “F# A# (Infinity)” (1998) si ritagliano uno spazio a parte nell’affollato panorama del post rock  (prevalentemente) strumentale con lunghe suite che fanno più di un cenno alla musica classica e che raggiungono apici di intensità emotiva raramente toccati dai cerebrali arzigogoli del post rock.
Militano buona parte dei musicisti dei Godspeed negli A Silver Mt Zion di “He Has Left Us Alone But Shafts of Light Sometimes Grace the Corners of Our Rooms” (2000), disco commovente che ricorda da vicino, oltre al gruppo-madre, anche una formazione australiana all’opera su dischi splendidi e malinconici come “Horse Stories”(1996) e “Ocean Songs” (1998): si tratta dei Dirty Three, trio di violino, chitarra e batteria che, seppur ovviamente con sonorità più spoglie, contribuisce con i gruppi canadesi menzionati a fornire un contraltare ad alto tasso emotivo del post rock alle sperimentazioni più cerebrali di gruppi come Don Caballero e Storm and Stress. Esattamente a metà strada si collocano i Mogwai di Young Team (1997), esordio su LP e capolavoro assoluto del gruppo scozzese (e del genere) che meglio di ogni altro saprà con quel suono oscillante tra commozione e distacco, tra rabbia e quiete, tra caos e ordine, che era stato forgiato per la prima volta, quasi dieci prima, da un certo gruppo di Louisville…

56 – Big Beat e nu-school breaks

Nei primi anni ’90 il boom dell’acid house pare già lontanissimo ed il melting pot sonoro che ha unito per qualche anno il mondo del rock e quello della dance si è ormai frammentato in una miriade di stili che tendono a passare però attraverso un inesorabile spartiacque: da una parte c’è l’ala intellettualistica dei post-ravers che sta portando le sonorità della techno hardcore nelle scure acque della drum’n’bass, trovandosi ben presto a lavorare idealmente sulle stesse frequenze di artisti come Aphex Twin e Squarepusher, nella sperimentazione di sonorità che oscillano tra gli irti spigoli della IDM e le fusioni a tutto campo con la tradizione musicale soul e jazz.
Dall’altra prendono piede nuovi suoni, orientati esclusivamente al dancefloor, come la trance e l’happy hardcore, che si vanno ad affiancare cronologicamente (e a contrapporre stilisticamente) alle raffinatezze sonore cui approda la house tradizionale, di matrice prevalentemente americana, con l’evoluzione sonora della deep house e della house garage che in quegli anni ne esaltano la vena soul e la discendenza della disco (se ne parlerà più avanti).
In questo contesto il mondo del rock alternativo inglese, se da una parte mostra un cauto interesse nei confronti delle evoluzioni più cerebrali e sofisticate dell’elettronica, dall’altra è distante anni luce dalle sonorità di house, trance ed hardcore: in parole povere, con la scomparsa dell’acid house, si ritrova orfano di una sua musica da ballo. La soluzione al problema la fornisce un duo che  dal 1991 comincia ad animare il club alternativo di Manchester “Naked Under Leather” fondendo la dance balearica con oscuri campioni hip hop e rock: i due, Tom Rowlands e Ed Simons, agiscono sotto il nome di Dust Brothers in ossequio agli omonimi produttori del seminale “Paul’s Boutique” e rilasciano in edizione limitata un singolo di nome “Song to the Siren” che campiona  brillantemente This Mortal Coil e Meat Beat Manifesto.
Quel pezzo lo ritroviamo anche nel seminale disco d’esordio del gruppo, che nel frattempo ha cambiato il suo nome in Chemical Brothers a seguito delle attenzioni indesiderate dei legali dei produttori americani, fatto su cui si ironizza nel titolo del disco: “Exit Planet Dust” (1995). Album che sancisce ufficialmente la nascita del big beat, fusione di breakbeats old school lanciati su bpm vicini alla techno e associati ad un’irrefrenabile attitudine per il sampling più sfrenato: la poetessa di strada Camille Yarbrough, il gruppo soul funky dei Just brothers, il produttore techno Blake Baxter e la cantante soul jazz Marlena Shaw sono solo alcuni degli oscuri artisti campionati dal gruppo; più in generale i campioni prediletti restano quelli rock e funky, in un suono che molto deve alle esperienze passate dell’hip hop cosiddetto “alternativo”: dalle sperimentazioni dei Beastie Boys a certe produzioni del collettivo Native Tongues (non a caso con i Propellerheads, future stelle del big beat, collaboreranno sia Jungle Brothers che i De La Soul).
Se “Exit Planet Dust” è la prima testimonianza su disco del big beat, quel suono nasce in realtà nelle serate londinesi dell’Heavenly Social, dove i Dj resident sono proprio i Chemical Brothers, e Monkey Mafia, altro protagonista di spicco di quel suono, autore di “Shoot The Boss” nel 1998, quando il genere è all’apice del  successo. Un anno dopo l’esordio dei Chemical Brothers esce “Better Living Through Chemistry”, debutto di Fatboy Slim,  alias Norman Cook, già veterano dell’acid house con lo pseudonimo  di Pizzaman (e prima ancora bassista degli Smithsiani Housemartins); il disco è caldeggiato proprio dai fratelli chimici ed esce per la Skint Records, insieme alla Wall Of Sound principale attrice nella diffusione di quelle sonorità: in quello che ben presto diventa il centro dell’universo big beat, vale a dire la Big Beat Boutique di Brighton la scuderia Skint è presente al gran completo: Lo-fidelity Allstars, Bentley Rhythm Ace, Cut La Roc ed il proprietario della label, Damien Harris, sotto lo pseudonimo  di Midfield General.
Come si diceva, l’unica etichetta a poter competere per importanza con la Skint nel pieno del boom del genere è la Wall Of Sound, per la quale escono, tra gli altri, Wiseguys e Propellerheads, i primi con “The Antidote”(1998), i secondi con   “Decks and rums and rock and roll”, probabilmente, nella sua improbabile miscela di Chemical brothers e atmosfere ’60s, John Barry e swing, uno dei migliori dischi del genere. Una categoria in cui rientra di diritto anche “You’ve Come a Long Way, Baby” di Fatboy Slim, incredibile giostra musicale che incarna comunque tutti i pregi e difetti del genere: l’immediatezza e l’effetto trascinante da una parte, la tendenza a ripetersi e stufare con un continuo riciclaggio di trucchetti sonori che alla lunga si fanno ripetitivi. Entrambi i dischi escono nel 1998 anno che se da una parte segna l’apice del genere, perlomeno sotto il profilo commerciale, con una quantità spaventosa di uscite (tra gli altri: Lo-fidelity  Allstars,  Wiseguys, Freestylers e Monkey Mafia), dall’altra già prelude alla sua fine secondo una dinamica cronica della storia della musica e particolarmente di quella della dance,per cui ad una fase di improvvisa isteria collettiva, ne segue quasi matematicamente una, successiva, di rigetto .
Così “Darkdancer” (1999), secondo disco di Les Rhythmes Digitales, pur uscendo per la Wall of Sound ha già poco a che vedere col big beat ed è invece profetico nella sua citazione di sonorità anni ’80, anticipando un fenomeno che di lì a poco attraverserà trasversalmente rock ed elettronica. Ancor più significativa è l’uscita nel 1999 di “Surrender”, terzo disco dei Chemical Brothers che taglia in parte i legami col big beat e si sposta verso un suono che si colloca tra l’house acida dei Klf e quella contaminata e spruzzata di vocoder in odor di anni’80 di marca Daft Punk: un cambiamento che non può stupire se si considera come i fratelli chimici, pur avendo creato il suono del big beat, son sempre rimasti al di fuori del giro più trendy e allo stesso tempo se si tiene conto di quello che sta avvenendo in quegli anni: artisti come Daft Punk, Stardust e  Basement Jaxx cominciano a mettere in circolo un suono di house nuovo, più contaminato e vicino alla forma canzone e alla sensibilità dell’intransigente pubblico indie, un suono che verrà definito col generico termine di leftfield house e di cui si parlerà più avanti.
Quello che conta è il fenomeno migratorio di massa che coinvolge prima i Dj e poi il pubblico e che comporta la scomparsa dalle scene per alcuni importanti protagonisti del big beat, una brillante conversione verso sonorità più contaminate per altri, primi fra tutti, appunto Chemical Brothers e Fatboy Slim, come risulta evidente dall’ascolto di “Halfway Between the Gutter and the Stars” (2000). Un discorso a parte meritano i Prodigy: veterani della scena hardcore più contaminata col ragga (la stessa da cui si genera la jungle), inglobati nel fenomeno big beat con l’uscita di “The Fat Of The Land”, disco del 1997 che con la musica dei Chemical Brothers condivide i breakbeats, l’acidità dei suoni e la brillante fusione di techno e rock, è vero, ma più per la comune radice hardcore che per legami con la scena big beat.
Un anno dopo l’uscita di “The Fat Of The Land”, nel 1998,  a Londra ha luogo un piccolo evento quando, per definire il suono che anima il club di Soho Friction viene coniato il termine nu-breaks: un suono “inventato” da produttori come Adam Freeland, Renne  Pilgrem e Tayo e portato avanti da Beber e Freq Nasty cui è affidato il compito, spento il fuoco di paglia del big beat, portare avanti nel decennio successivo il suono del breakbeat. È possibile ascoltarlo per la prima volta su disco in “Coastal Breaks vol. 2” (1998), firmato da Adam Freeland: il suono è una fusione di ritmiche breakbeat, scure linee di basso drum’n’bass, sonorità e tempi della techno, una miscela sonora che si contrappone stilisticamente al sound grasso del big beat e si riallaccia idealmente a quello dell’hardcore techno più contaminata e della prima drum’n’bass. Vitale per la sua diffusione si rivela la Marine Parade, etichetta personale dello stesso Freeland, per cui escono alcuni dei dischi migliori della scena: dal suo ”Now & Them”(2003) a “Soul  Trader” di Ils (2003) passando per “You Can Be Special Too” (2004) degli Evil Nine, disco che, a sorpresa, introduce qua e là, suoni hip hop e chitarre rock a dimostrazione di come anche il nu-breaks, nato per purificare il suono dopo la sbornia di Fatboy slim e compagnia, non sia del tutto immune dall’irresistibile gioia della contaminazione, fatto confermato anche dall’ascolto dei dischi che portano la firma di Freq Nasty, uno fra tutti il brillante esordio del 1999 ,”Geeks & Mutilations”.

57 – Dalla deep alla microhouse

Se per molti versi, trovandosi alle prese con l’evoluzione subita dalla house dai primi ’90 in poi ci si trova alle prese con dinamiche e problemi simili a quelli incontrati con la techno (una miriade di stili e sottostili, città ed etichette chiave) è anche vero che, se possibile, in questo caso la soluzione del puzzle si rivela ancora più problematica: un gioco di sponde e di reciproche influenze fittissimo tra i due lati dell’Atlantico (complicato dal subentrare sulla scena di nuovi poli musicali come Germania, Italia e Francia), controversie e confusioni sulle definizioni dei vari generi, contaminazioni infinite e continue, complicano la faccenda.
Per un trovare un primo bandolo nell’intricata matassa bisogna tornare agli ultimi anni ‘80: la deep house, suono definito fin dal 1987 da seminali pezzi come “Let The Music (Use You)” dei Nightwriters e “You Used To Hold Me” di Ralphie Rosario, caratterizzato da lussuriosi layer di archi sintetici e da un bpm relativamente rilassato, diventa uno dei suoni caratteristici di Chicago, fruttando allo stesso tempo al genere i suoi primi due LP, “Another Side” di Fingers Inc. e “Can’t Get Enough” di Liz Torres e divenendo poi nei ’90 un sinonimo per la house più raffinata e meno “pompata”, con produttori chiave come Deep Dish, Kevin Yost e Faze Action ed etichette come Nuphonic e Classic a portare avanti quei suoni e rivelarne allo stesso tempo anche il lato più sperimentale e meticcio.
Gli ultimi anni ’80 vedono anche l’ascesa di New York, e in particolare del New Jersey, come polo fondamentale di crescita della house: è qui che si sviluppa il cosiddetto New Jersey Sound, appunto, stile definito, in contrapposizione con quello di Chicago, da un suono che eredita le raffinatezze vocali e strumentali del philly soul passando ovviamente attraverso la lezione della disco di cui è il più diretto discendente: un suono che si sviluppa grazie al talento di produttori come Todd  Terry,  Blaze e Little Louie Vega che di lì a poco farà società con Kenny Dope  Gonzales fondando i Masters At Work vocalist come Jocelyn  Brown, Barbara Tucker e una veterana della disco come Loleatta Holloway. Fondamentale si rivela anche Tony Humpries, resident allo Zanzibar (locale situato, appunto, in New Jersey), che più di ogni altro si rivela centrale per la nascita di quel suono, definito da singoli come “Take Some Time” di Arnold Jarvis e “If I should Need a Friend” di Blaze e che, una volta arrivato alle avide orecchie del pubblico inglese, comincia ad essere definito garage (cosa che creerà l’equivoco secondo cui l’origine di quel suono risalirebbe allo storico Paradise Garage di Larry Levan).
Un suono che fin da subito nel Regno Unito è fatto oggetto di un culto smodato: emblematica è la nascita, nel 1988,  della  Republic di Joey Negro, importante etichetta inglese che pubblica una compilation seminale come “The Garage Sound Of Deepest New York” oltre a svariati dischi di Blaze e del suo discepolo Phase II; non solo, la label inglese e le prime produzioni di Negro divengono anche il centro gravitazionale del fenomeno underground inglese definito neodisco che, come suggerisce il nome, ricongiunge definitivamente i suoni della house con quelli originari della disco anni ’70, specie quello della fase iniziale più underground, legato a etichette come la Salsoul Records e a figure seminali come Francois Kevornian e Walter Gibbons. Nella neodisco troviamo un primo esempio di quella disco house che si affermerà definitivamente nella seconda metà degli anni ’90 col boom della house  francese di Daft Punk e Dimitri From Paris.
Sempre nel 1988, dall’altra parte dell’oceano, Todd Terry, uno dei pionieri del suono garage, oltre che delle tecniche di  sampling applicate alla house, collabora con i Jungle Brothers del collettivo Native Tongues nel pezzo “I’ll House You”, prima fusione tra house e hip hop, che segna la nascita di un genere minore come la hip-house, suono ripreso da produttori come Tony Scott e Two In A Room e portato al successo dai Technotronics. Ancora  nel 1988 viene fondata a Bologna la Irma Records, etichetta italiana che si rivela centrale per la diffusione della house italiana, fenomeno musicale di rilievo internazionale, che porta un generale ammorbidimento nelle sonorità e comincia ad inserire raffinati campioni di piano, inaugurando una tradizione che proseguirà negli anni con produttori come Jestofunk e LTJ X-perience.
Gli anni che seguono, a cavallo tra ’80 e ’90, sono fondamentali per lo sviluppo e il consolidarsi dei diversi stili, con il suono che tende generalmente ad evolversi anche in relazione al progresso tecnologico (in particolare l’introduzione massiccia del sampling e del midi per la produzione dei pezzi si rivelano decisive) ed il crearsi di una dicotomia per cui, a fronte di uno sviluppo underground e a livello di club di quei suoni, a rappresentarne il versante più stimolante, la house da molti comincia ad essere associata ai fenomeni più commerciali: da gruppi euro pop come Ace Of Base, Cappella, Datura (gli ultimi due prodotti in Italia) ai remix house ad opera di produttori come Junior Vasquez, Masters At Work ed Armand Van Helden di artisti pop che cominciano a circolare massicciamente.
In tal senso si rivela fondamentale l’emergere nel 1993 della house progressiva, genere in cui si vanno fondere i suoni della house e quelli della trance: se la struttura ritmica è tendenzialmente house, tipici della trance sono il bpm accelerato, il susseguirsi di crescendo e crolli (i breakdown) ritmici ed i layer di synth che occupano il centro della scena e tracciano linee melodiche epiche e molto spesso vicine alla musica classica. Anche l’hard house, genere “inventato” da Bad Boy Bill e Tony De Vit a metà anni ’90, nasce da questa fusione, ottenendo però un suono radicalmente diverso, martellante ed aggressivo. Tornando al progressive, esso diviene ben presto uno dei suoni più popolari della house inglese, portato avanti negli anni da produttori come Spooky, Robert Miles, Bt, ATB, Way Out West, Sasha, Bedrock (alias John Degweed) e Paul Van Dyk.
A quel suono è associata inoltre tutta una serie di artisti come Leftfield, Faithless ed Underworld che si differenziano dai Dj di cui sopra per uno spirito di fusione più spiccato che li porta a muoversi incessantemente sul confine  tra techno, house e trance, sperimentando contemporaneamente con il dub e la world music: i Leftfield di “Leftism” (raccolta di singoli del gruppo datata 1995) sono tra i primi ad incrociare house e reggae con il singolo “Earl Sixteen”, prima traccia di un disco che si contamina spesso e volentieri con la techno ed il rock. Un percorso quasi inverso a quello compiuto dagli Underworld, partiti da un suono techno che contaminano con dub, house e rock, arrivando al capolavoro nel 1993 con “Beaucoup Fish”. Si tratta, in generale, di artisti dal suono mutante e meticcio che pongono le basi per il cosiddetto suono della cosiddetta leftfield house (house alternativa), terra di mezzo dove verranno collocati tutti quegli artisti, inclassificabili, che partono dai suoni tradizionali della house e della techno per creare un melting pot sonoro che si rivelerà fondamentale punto d’incontro tra pubblico rock e pubblico dance dopo la sbornia del big beat: se ne parlerà tra poco.
Tra i primi esperimenti di Spooky e l’esplosione della house alternativa di fine anni ’90 avvengono alcuni fenomeni degni di nota: prima di tutto la comparsa di un suono nuovo, fusione inedita di house e techno che comincia a comparire sul finire degli anni ’90 e prende il nome di tech house: un ibrido che comincia a prendere vita dal 1996 nei 12” di Killer Loop e Layo&Bushwacka griffati dalla londinese End Recordings, etichetta (semi) personale di Layo Paskin, metà degli L&B di cui sopra; altrettanto seminali si rivelano la Plastic City, che nel 1997 da alle stampe “Chocolate Chords” di Terry Lee Brown Jr e la scozzese Soma per cui escono Funk D’void e Slam: artisti che declinano in modo diverso un suono ancora in formazione, che va dalle tentazioni breakbeat  di Layo&Bushwacka alle strizzate d’occhio al suono di Detroit di Terry Lee Brown Jr.
Il 1996 è anche l’anno di nascita dello speed garage: un’invenzione attribuita in ugual misura al remix di Armand Van Helden di “Sugar is Sweeter” di CJ Bolland che innesta su una ritmica house in 4/4 elementi sonori provenienti dalla drum’n’bass (linee di basso cavernose, effetti dub e ritmi sincopati) e alle produzioni di Todd Edwards, che introduce un importante elemento distintivo del genere: l’utilizzo delle voci, campionate e sminuzzate attraverso il campionamento, come elemento ritmico strutturale del pezzo. Quel suono, che ha mosso i primi passi in America, giunge però a maturazione (e al successo) in Inghilterra, dove ben presto speed garage e garage u.k. divengono sinonimi: è un suono in cui la manipolazione e l’utilizzo dei campioni di voce discende direttamente dai pezzi di Edwards, i suoni sono una fusione travolgente di house e drum’n’bass con inserti vocali di ragga. A lanciare e definire il genere ci pensano singoli come “Ripgroove” dei Double 99, “Be Alone No More” degli Another Level, “Never  Gonna Let You Go” di Tina Moore, label come Locked  On e Naughty e un Dj come MJ Cole, che pare quasi la risposta inglese  a Todd Edwards, con un singolo come “Sincere” dal suono molto vicino all’urban: il singolo è del 1998 e già non si parla più di speed garage, bensì di 2 step.
Un cambiamento di nome che riflette una serie di ritocchi stilistici avvenuti nell’ultimo anno: voci e suoni urban si sostituiscono a quelli ragga, le strutture ritmiche divengono più libere, la cassa in 4/4, da sempre elemento distintivo della house, viene privata dei suoi beat pari (da qui il genere prende il suo nome). Il 2 step, portato nelle zone alte della classifica nel 1998 dagli Artful Dodger di “Movin’ Too Fast” subisce un ulteriore sfasamento quando comincia ad essere associato con la scena ed i suoni dell’urban e dell’hip hop inglese, come dimostrato dal successo dei So Solid Crew, collettivo di dimensioni paragonabili al Wu-Tang Clan che raggiunge la vetta delle classifiche nel 2001 con “21 Seconds”. Le conseguenze di questo passaggio si rivelano appieno quando dalle nebbie londinesi emergono due artisti come The Streets e Dizzee Rascal.
Il primo esordisce nel 2002 con “Original Pirate Material”, l’altro esce allo scoperto nel 2003 con “Boy in Da Corner” e per la prima volta l’Inghilterra, che aveva reagito al boom dell’hip hop rifugiandosi nelle narcolettiche atmosfere del trip hop ha i suoi cronisti, anche se scenari e storie non hanno nulla da spartire con quelle narrate dai colleghi americani, e la base sonora è quella sconnessa del 2 step: un ulteriore, importante sviluppo dell’hip hop inglese che fino a quel momento ha visto la sua produzione limitata alle uscite Big Dada. Mentre si celebra il matrimonio tra urban e 2 step il mondo della house non resta a guardare, come dimostrato dai dischi di gente come Basement Jaxx e Audio Bullys, fenomeni di punta della house alternativa e meticcia di fine ’90: ma manca ancora un tassello per poter parlare di ciò.
Nel 1996 la Yellow Productions dà alle stampe “Sacre Blue”, esordio discografico del veterano della dance francese Dimitri From Paris: il disco, un curioso incrocio tra house e lounge, viene nominato disco dell’anno dalla rivista inglese Mixmag. Sono le prime avvisaglie di un’invasione di produttori francesi, house e non, che di lì a poco travolge la scena internazionale: ad accendere la miccia è “Homework”, esordio dei Daft Punk che inaugura il 1997 con una house meticcia e contaminatissima, tra vocoder e funk anni ’80, che è solo un primo esempio di un suono che diventa da subito marchio distintivo della scena francese: house filtrata, funky e  pompata, grasso basso funky ed una matrice disco molto marcata che si riallaccia idealmente alla disco house inglese di inizio decennio.
I Daft Punk non sono in realtà che un tassello (anche se vitale) dell’intricatissima scena d’oltralpe: Thomas Bangalter, vale a dire metà Daft Punk, l’anno successivo oltre a co-produrre con Bob Sinclar l’hit “Gym Tonic”, in coppia con Alan Braxe realizza sotto la sigla Stardust un singolo, “Music Sounds Better With You”, che lancia definitivamente la moda della house filtrata; Braxe dal canto suo, in coppia con Fred Falke, nel 2000, rilascia il superbo singolo “Intro”; Philippe Zdar, che nel 1996 con Etienne De Crècy aveva pubblicato a nome Motorbass il disco “Pansoul”, si riunisce ad Hubert Blanc-Francart, con cui già aveva collaborato in precedenza sotto il nome di La Funk Mob, per formare i Cassius, all’esordio nel 1999 con “Cassius 1999”; dal canto suo De Crècy lo stesso anno dell’uscita di Pansoul pubblica la celebre compilation “Super Discount” in cui, tra gli altri, compaiono Alex Gopher ed Air. Il primo incide nel 1998 il disco “You, My Baby & I” per poi collaborare nel 2002 con Demon (autore nel 2001 del singolo “You  Are My High”) dando vita al progetto e al disco omonimo Wuz: album dal suono più cupo rispetto alle produzioni precedenti sue e dei suoi connazionali, segno che quel suono, che per anni è stato il simbolo della house francese e del french touch ha ormai fatto il suo tempo.
Gli Air, dal canto loro nel 1998, con “Moon Safari”, innescano la seconda ondata della french invasion: nulla hanno però a che vedere  con la house, autori di un pop ambientale che cita Bucharach  e Wilson e si fonde con l’elettronica francese dei primi anni ’80 di Jean Michel Jarre, inserendosi in un più vasto fenomeno di riscoperta dell’easy listening di cui si parlerà più avanti.
Tornando invece alla house degli altri produttori francesi citati bisogna capire come, nonostante alcuni tratti comuni cui si è già accennato, tra di essi esistano enormi differenze: se le radici disco e funky sono una presenza quasi fissa, a variare sono le dosi del cocktail musicale francese: la gradazione disco è altissima nei mix album di Dimitri From Paris, in particolare nello splendido “A Night at the Playboy Mansion” (2000), tra i cui solchi si annidano, tra gli altri, un produttore storico della disco di fine anni ’70  come Cerrone ed il padre della disco house inglese Joey Negro (anche se  in qualità di remixer per conto della Sunburst Band); prevale un irresistibile tiro funk nei dischi dei Daft Punk, gruppo, come si diceva, caratterizzato da un approccio trasversale alla house che porta ad inquadrarlo nel nascente calderone della house alternativa, la leftfield house.
Si tratta, come già accennato, non tanto di un genere, quanto di un insieme di dischi che a fine ’90 cominciano a scardinare le convenzioni della house, proprio nel momento in cui, in parte grazie alla rinascita operata dai francesi, in parte in seguito all’implosione del big beat, gli occhi di tutti sono puntati su di essa. Un gruppo chiave sono senza dubbio gli inglesi Basement Jaxx: i due, in giro dai primi anni ’90, esordiscono su Lp nel 1999 con “Remedy”, disco che rappresenta esattamente quello di cui la scena inglese assediata dagli “invasori” francesi ha bisogno in quel momento, folle miscela di house di New York, hip hop e ragga, condita dagli aromi latini di “Bingo Bango” e dalla house grassa e funky di “Red Alert” che pare quasi un omaggio alla house francese; meno vario ma riuscito il successivo Rooty, del 2001, che aggiunge all’equazione le sonorità e la lezione musicale di Prince, lo stesso anno in cui il Felix Da Housecat di “Kittenz and Thee Glitz” sfonda con lo steso riferimento musicale in mente: segno dei tempi.
Se i Basement Jaxx si rivelano fondamentali per l’evoluzione del suono della house più obliqua in Inghilterra, oltreoceano una delle etichette di punta del fenomeno è la Classic , etichetta di Derrick Carter e Luke Solomon che pubblica, tra gli altri, artisti come Dj  Sneak, Tiefschwarz, Metro Area, Herbert e Greenkeepers, vale a dire la crema non solo della house più sperimentale, ma anche della house tout court. Se l’esordio omonimo del 2002 dei newyorchesi Metro Area è un incredibile esperimento che fonde la house delle origini con la disco pre-boom, un suono minimale ed intricatissimo che è agli antipodi della rilettura della disco fatta dai Dj francesi di cui si parlava poco fa, Herbert è semplicemente colui che meglio incarna il concetto stesso di leftfield house: dagli esperimenti fatti a nome Radio Boy, collage sonori in cui la struttura ritmica è data da “campioni che variano da utensili da cucina a funzioni biologiche” arrivando allo straordinario “Bodily Functions”, disco uscito a suo nome nel 2001 che per l’intricatezza e l’originalità ritmica viene annoverato tra i primi e migliori esempi di microhouse.
Passo indietro: il termine microhouse è stato coniato da Philip Sherburne, giornalista di The Wire per definire un suono che è una sorta di controparte house dei suoni della minimal techno e del glitch pop: con quest’ultimo la microhouse ha in comune la varietà, l’eccentricità e un nuovo modo di utilizzare i samples, a  creare un suono frammentato e sconnesso, con la techno minimale condivide il gusto per la sobrietà dei suoni.
Perlon, Accidental, Kompakt e Playhouse sono le etichette di riferimento del genere, Isolèe, Ricardo Villalobos, Soft Pink Truth, Akufen, Lucien-n-Luciano e Pantytec gli artisti di punta; anche in questo caso lo spettro sonoro è ampio e variegato: se produttori iperminimali come Isoleè e Villalobos viaggiano su un sentiero che costeggia sia la house sia la techno, rendendo difficile l’identificazione, per altri, come l’Akufen di “My Way” (2002) dubbi non ve ne sono, nonostante il suono fratturatissimo e l’eccentricità dei campioni usati. Affine in parte al suono asciutto della  microhouse, in parte alle atmosfere retro dei Metro Area, “You, Me and Us”, esordio del 2002 di Brooks, produttore inglese con una forte propensione per il revival di suoni dei primi anni ’80, tendenza diffusissima in tutte l’elettronica (e non solo) di inizio millennio, dal  boom dell’electroclash alle sonorità electro  house di Playgroup e Chicken Lips, passando per il revival della disco mutante newyorchese , tutti fenomeni che si vedranno meglio più avanti…

58 – La rivincita dell’easy listening

Il rock fin dalle sue origini si sviluppa all’insegna della contaminazione, essendo nato come fusione tra generi differenti ed essendosi evoluto nel corso dei decenni proprio grazie alla sua capacità di inglobare linguaggi musicali e generi anche lontani, con un tasso sempre più spinto dagli anni ’70 del progressive in poi. A lungo però tale contaminazione si era posta dei paletti, legati a tabù inespressi nei confronti di generi e stili che ideologicamente stridevano con la logica tendenzialmente antagonista del rock, in particolare tutto un insieme di suoni ed autori che erano considerati parte di quell’establishment tradizionalista cui il rock si contrapponeva per natura, oltre a una serie di generi, come la lounge, che erano considerati semplicemente kitsch, appartenenti alla “classe inferiore” della muzak, musicaccia buona al massimo per i supermercati ed i film di serie b.
Negli anni ’90, però, qualcosa cambia: c’è una caduta definitiva delle barriere tra generi, in parte grazie ai vari tipi di crossover e alle sperimentazioni del post rock, in parte per la penetrazione progressiva anche tra il pubblico cosiddetto alternativo di una vena onnivora e fagocitante nata con la diffusione dell’uso dei samples, anche grazie agli stili che da sempre su quelle tecnologie prosperano, hip hop e downtempo in primis. Ben presto molte di quelle sonorità, fino ad allora aborrite, cominciano a contaminare le produzioni rock ed elettroniche, creando un fenomeno trasversale di recupero che comincia a comparire timidamente nei primi anni ’90 ed esplode definitivamente nella seconda metà del decennio attraversando post rock, pop, indie più o meno elettronico e downbeat.
Lo swing, la tropicalia e la bossa (vale a dire pop anni ‘60 e jazz  brasiliano), i suoni latini di tango, flamenco, samba e cha cha cha,  l’easy listening (exotica, space age pop, lounge), il pop più classico americano (Bucharach, Spector, Hazelwood) e francese (Gainsbourg, Jane Birkin, Francoise Hardy), le scorribande sonore tra beat, bossa e classica delle colonne sonore di  Barry, Morricone, Umuliani, Trovaioli e Ortolani sono solo alcuni dei suoni toccati ed inglobati da questo fenomeno. Un fenomeno di cui è difficilissimo tenere il filo, poiché oltre che essere universale sotto il profilo musicale esso rivela ben presto caratteristiche inedite  di cosmopolitismo: non solo U.S.A. ed Inghilterra, ma anche Francia, Italia, Germania, Svezia e Spagna ne sono protagoniste con una ridda di gruppi ed etichette che rendono la ricostruzione un’impresa titanica ma appassionante.
Dovendo cercare un’origine del fenomeno, quantomeno sotto il profilo del primato cronologico, il luogo migliore sono gli Stati Uniti: a sorpresa, i primi sintomi di questo revival sui generis, affiorano per la prima volta nell’area musicale più seria e colta dell’indie rock degli anni ’90, vale a dire il post rock. Nel 1989 si formano, infatti, a Kansas City i Coctails, formazione che nel debutto del 1991 “Here Now Today” fonde l’exotica di Martin Denny e Les Baxter con schegge rock e jazz: lo stesso anno il gruppo si trasferisce nella futura vice-capitale del post rock Chicago e comincia a suonare al Lounge Ax, per poi dare un seguito all’esordio nel 1995 con “Long Sound”, affinando ed ampliando ulteriormente la propria miscela sonora con l’aggiunta di sax, clarinetto, tromba e vibrafono. Lo stesso anno la band si scioglie ed il cantante e polistrumentista Archer Prewitt si unisce al gruppo post rock The Sea And Cake e già appaiono sulla scena dei possibili eredi:  i Friends of Dean Martinez, all’esordio con “The Shadow of Your Smile”, supergruppo formato da membri di Giant Sand e Naked Pray che unisce mirabilmente exotica, surf, Morricone e rock desertico.
Il suono si farà più sobrio, avvicinandosi in parte al post rock, nei dischi dei Calexico, progetto successivo dei due Giant  Sand (e Friends of Dean Martinez) Joey Burns e John Convertino, che  esordisce nel 1997 con “Spoke” e trova il capolavoro un anno dopo con “The Black Light”: l’influenza di Morricone è sempre fortissima e il suono desertico del gruppo si arricchisce di trombe mariachi in un disco che rappresenta una delle riletture più serie e drammatiche di quei suoni del passato.
Agli antipodi dei Calexico si colloca un altro gruppo americano impegnato nella rilettura dell’easy listening come i Combustible Edison: fin dall’esordio del 1994 con “I, Swinger” il gruppo è quasi calligrafico nella riproposizione dei suoni dello space age pop di Esquivel e le atmosfere da giungla posticcia di Les Baxter, non facendo mancare, anche in questo caso, svariati cenni  al Morricone più pop, il tutto però giocato su uno spirito irriverente e  un gusto smisurato per il kitsch, che un paio d’anni dopo ritroveremo nelle uscite della tedesca Bungalow, etichetta chiave del revival lounge che esordisce nel 1996 proprio con un singolo del gruppo, “Short Double Latte”, per poi occuparsi della distribuzione europea di “Schizophonic”, secondo disco della formazione americana.
L’etichetta prosegue allineando uscite che rappresentano il lato più scanzonato del revival lounge, dalla seminale serie Sushi la cui prima uscita, “Sushi 3003”, del 1996, è un manifesto del fenomeno giapponese shibuya style ad una serie di uscite che rendono un’idea del carattere internazionale del fenomeno: Germania (Stereo  Total), Giappone (Fantastic Plastic Machine), Regno  Unito  (Momus), Francia (Bertrand Burgalat) sono ottimamente  rappresentate. Con la compilation del 2000 “Atomium 3003” sull’universalità del fenomeno si arriva a stilare un concept: il disco, infatti, si sforza di estendere ulteriormente gli orizzonti geografici includendo nella scaletta anche l’Italia con i Valvola,  la Spagna coi Le Mans e la Svezia coi Club 8: ad ognuno di questi tre gruppi fa  capo una seminale etichetta nazionale,  rispettivamente S.h.a.d.o., Elefant e Labrador, mentre alle spalle di Burgalat c’è l’etichetta francese Tricatel.
Tra il debutto dei Combustible Edison ed una compilation come “Atomium 3003”, nata appositamente per mettere in vetrina la complessità e ricchezza della scena lounge internazionale, ci sono una serie di eventi e di gruppi che rendono necessario un passo indietro, per capire l’esplosione di quei suoni e, più in generale, del fenomeno. Tempo e luogo: inizio anni ’90 in America. Lì, come si è già accennato in precedenza a proposito dell’indie rock, artisti come i Beastie Boys di “Paul’s Boutique” (1989) e “Check Your Head” (1992) ed il Beck di “Mellow Gold” (1994) e “Odelay” (1996) si divertono a creare frullati sonori che hanno, rispettivamente, hip hop e rock come vaga base di partenza, ma che si divertono ad inserire nella musica i campioni e gli elementi sonori più disparati (tra cui schegge di tropicalia e bossa nova).
Questi artisti creano un prototipo musicale di collage sonoro che diviene pratica diffusa presso un gran numero di artisti indie, primi fra tutti i gruppi della Grand Royal (etichetta fondata proprio dai Beastie Boys) come Money Mark, Sean Lennon e Buffalo Daughter: proprio queste ultime sintetizzano il perfetto punto d’equilibrio tra il collage di stili dei loro ispiratori Beastie Boys ed il frullato sonoro operato dai loro conterranei Pizzicato Five, gruppo pionieristico del cosiddetto Shibuya Style. È un suono che prende vita nei primi anni ’90 nel quartiere trendy di Tokyo Shibuya e che è per molti versi la controparte pop del frullato sonoro inventato dai Beastie Boys, portata avanti da gruppi come Buffalo  Daughter  e Pizzicato Five, appunto, ma anche Cibo Matto, Cornelius e Fantastic Plastic Machine, fautori di un suono che trae piacere e linfa dal suo lato kitsch e primi protagonisti dell’ingresso dell’easy listening nell’universo indie: non a caso dietro la distribuzione americana di Pizzicato Five e Cornelius c’è la Matador, label indie per eccellenza.
La miscela sonora praticata da questi gruppi è talmente spericolata da far apparire gruppi come Coctails e Combustible Edison seriosi conservatori: la musica dei Pizzicato Five, attivi dalla fine degli anni ottanta ma importati dalla Matador solo nel 1997 con “Happy End of the World”, è una sorta di remix folle ed irresistibile del pop e dell’easy listening degli anni ‘50/’60, con sonorità che spaziano tra bossa nova e beat, Burt Bucharach e Brian Wilson; Cornelius è una sorta di versione shibuya del primo Beck, il pop dei Beach Boys e lo shoegazing dei My Bloody Valentine a sostituire folk e blues come influenze principali, almeno nel debutto del 1997 per Matador “Fantasma”: il suo suono tenderà ad astrarsi ed arricchirsi di ulteriori influenze nel successivo “Point” (2002); è più vicino alla dance Fantastic Plastic Machine, all’esordio omonimo nel 1998, affine per certi versi al Dimitri From Paris lounge di “Sacre Bleu”.
Sonorità retrofuturiste da party che trovano una controparte ambientale nei seminali dischi di Stereolab e Pram, gruppi di punta del post rock inglese che costituiscono un altro tassello fondamentale per la creazione del suono neo-lounge di fine anni ’90 e della cui incredibile fusione tra exotica, pop anni ’60 e kraut rock si è già parlato in precedenza: lavori come “Emperor Tomato Ketchup” (1996) degli Stereolab e “North Pole Radio Station” (1998) dei Pram rappresentano il lato più cerebrale di un pop ambientale e retrò che ritroviamo in una lunga serie di dischi firmati, tra gli altri, da Air, Kid Loco, Plone,St. Etienne, Aluminium group ed High  Llamas.
Gli Air di “Moon Safari” (1998) ed il Kid Loco di “A Grand Love Story” (1997) rappresentano il suono morbido dell’invasione francese di fine anni’90 di cui si parla altrove: se il secondo coniuga sapientemente la psichedelia barocca dei Love con il pop francese anni ’60 (che poco dopo verrà rivisitato dalla già citata Tricatel nei dischi di artisti come Bertrand Burgalat e April March),  gli Air ricreano con strumenti vintage come moog e rhodes i paesaggi  sonori creati da Jean-Michel Jarre e dai Pink Floyd più atmosferici combinandoli con una vena pop ispirata, per loro espresso riconoscimento, da Bucharach, Wilson e Morricone .
A dimostrazione dell’ascendente rivestito da questa triade per il revival dell’easy listening di questo periodo gli stessi artisti sono citati con fierezza anche da Sean O’Hagan, cantante, chitarrista, nonchè suonatore di moog, organo e glockenspiel (anche per conto degli Stereolab) con gli High Llamas di “Gideon Gaye” (1994) e “Cold And Bouncy” (1998) e risultano un’influenza evidente anche sulla musica degli Aluminum Group di “Pedals” (1999), capolavoro dei fratelli Navin di Chicago, coprodotto da quel Jim O’Rourke che lo stesso anno firmerà “Eureka”, geniale contributo del post rocker di Chicago al revival del pop anni ’60.
Pop anni’60 che rivive anche nelle canzoni degli svedesi Cardigans, autori di una doppietta di dischi (“Life”, del 1995 e “First Band on the Moon”, del 1996) che rappresenta uno dei massimi successi commerciali dell’ondata retro di metà anni ’90: il che non stupisce, visto l’approccio del gruppo a questi suoni, molto più frivolo ed immediato rispetto alla colta rilettura fatta da gente come  O’Rourke ed Aluminium Group, un suono che ritroviamo anche nei  dischi di connazionali come Cloudberry Jam, Eggstone e Komeda, fondamentali nel riportare sulle mappe del pop la Svezia, assente dalle cronache pop internazionali grosso modo dai tempi degli Abba…
Post rock, shibuya style, elettronica indie: come stato anticipato la rivalutazione dell’easy listening e in particolare di alcuni suoi autori chiave è un fenomeno trasversale che tocca un gran numero di generi e nazioni, viene suonata da noti avanguardisti e da star dell’indie rock, si diffonde attraverso Francia, Germania e Svezia; non bisogna però dimenticare che gran parte dell’easy listening nasce prima di tutto come musica d’ambiente, sia che fornisca il contrappunto sonoro alle immagini di un film, sia che crei l’atmosfera in un locale chic, sia che diventi musica da ballo e da festa…
È naturale quindi che i Dj si approprino di questi suoni ed è ancor più naturale che a fare questo siano i produttori downtempo, che ereditano il passo lento e il riverbero dub dal trip hop e vi iniettano nuove sonorità, spezie ritmiche latine e schegge sonore di jazz brasiliano prima di tutto; ed è naturale pure che siano sempre i Dj a guidare una ricerca selvaggia di oscuri reperti discografici, cimeli sonori trovati rovistando negli archivi musicali di Cinecittà e nei magazzini della Verve records; non stupisce infine che un’etichetta come la italiana Irma, da sempre legata all’universo della dance si premuri di compilare mix lounge e di pubblicare l’esordio di un gruppo come i Montefiori Cocktail che è quasi la controparte Italiana di Dimitri From Paris.
Le prime avvisaglie di quel colpo di fulmine possono essere già ricercate nelle dichiarazioni delle stelle del trip hop Portishead che citavano tra le proprie principali fonti d’ispirazione gente come Bucharach, Morricone e Barry. Gli eventi negli anni successivi incalzano: nel 1994 esce “Glücklich”, seminale compilation  della Compost che è già un manifesto della downtempo contaminata di  bossa e jazz che renderà famosa l’etichetta ed il cosidetto nu-jazz, nel 1995 cominciano a circolare remix firmati dai  viennesi Kruder&Dorfmeister che coniugano atmosfere dub con  ritmiche brasiliane (remix raccolti nel 1998 nel seminale doppio, “K&D Sessions”, uscito per la !K7), nel 1997 appaiono sulla scena con “Sounds from the Thievery Hi-Fi” i Thievery Corporation duo di produttori che di K&D rappresenta quasi una controparte americana, seguono esperimenti come quelli di Gotan  Project e Federico Aubele che integrano i suoni ovattati del dub con le  ritmiche latine di tango e flamenco.
Le etichette menzionate, Compost e !K7, si rivelano fondamentali per la diffusione della downtempo più atmosferica e contaminata di jazz e bossa, insieme alla Stereo Deluxe di Mo’ Horizons, Boozoo Bajou e Bobby Hughes Combination, alla Yellow  Productions di Kyoto Jazz Massive, Tom & Joyce e Mighty Bob e all’Italiana  Schema Records, una delle migliori del lotto, per cui escono Nicola Conte (cofondatore della label), Dining Rooms e Gerardo Frisina; controparte stucchevole e commerciale di queste uscite le infinite raccolte, sulla scia della celebre collana “Buddha Bar”, che rappresentano l’aspetto meno interessante del fenomeno, colonna sonora per il chill out ad Ibiza o tappezzeria sonora per bar chic.
Uno dei tanti fenomeni che porta il revival lounge ad un declino radicale a cavallo tra i due decenni: tuttavia alcune ottime proposte in ambito downtempo (genere in cui la lounge ha trovato a quanto pare una nicchia inespugnabile) e il diffondersi della moda della rilettura in chiave lounge di pezzi celebri della storia del rock (quella fatta nell’esordio omonimo del 2004 dai Nouvelle Vague la migliore, ma vi è anche lo swing nei dischi di Richard Cheese, la salsa in quelli di Senor Coconut, la bossa in quelli dei Pastel Vespa) inducono a pensare che il genere forse ha ancora qualche cartuccia da giocare.
Tornando ad High Llamas ed Aluminium group, è bene precisare che la vena orchestrale che anima i loro dischi non è altro che l’espressione di un fenomeno più vasto, prevalentemente inglese, che vede un ritorno di fiamma per il pop barocco degli anni ’60: non solo Bucharach e Wilson, in questo caso, ma anche Scott Walker e Lee Hazelwood tra i principali modelli di riferimento, (vale a dire coloro che per primi avevano giocato per primi con l’idea di applicare arrangiamenti classici al pop), ma anche un artisti come Nick Drake che per i suoi pezzi intimisti si era affidato al suono discreto di un ensemble da camera.
Scott Walker è tra i riferimenti principali: si fonde con la decadenza del glam più melodrammatico in “This Is Hardcore” dei Pulp (1998) e in “A Short Album About Love” dei Divine Comedy (1997), viene sposato con Hazlewood e Cave dai Tindersticks dell’esordio omonimo del 1993 e dai Jack di “Pioneer Soundtracks” (1996), tutti gruppi dediti a sviluppare il suono più scuro del pop orchestrale. Agli antipodi si collocano i Belle & Sebastian di “If You’re Feeling Sinister” (1996), disco che fa scuola con una strana miscela  di Donovan, Nick Drake e Smiths: il gruppo diventa subito fenomeno di culto e rilancia il suono del twee pop e la scena pop scozzese in generale; il clima generale di rivalutazione del pop classico, tra un revival di Bucharach e uno dei Beach Boys, contribuisce  sicuramente, almeno in parte, al successo del gruppo: quando la cantante del gruppo Isobel Campbell, intrapresa la carriera solista, (dopo un breve periodo a nome Gentle Waves), nell’esordio del 2003 “Amorino” e nell’ EP del 2004 “Time Is Just the Same”omaggia il pop orchestrale di Lee Hazlewood e la bossa nova e coverizza “Argomenti” di Morricone, il cerchio si chiude.
Non c’è comunque solo il Regno Unito tra le nazioni toccate dal pop cameristico: l’America è lesta a carpirne i segreti e se dal 1996 gira un gruppo come i Lambchop che agisce tra le pieghe più vivaci del movimento alternative country suonando un incredibile country-rock orchestrale, molti gruppi del giro psichedelico Elephant 6, come Essex Green e Ladybug Transistor impregnano i propri dischi di citazioni Bucharachiane e arrangiamenti barocchi, un’evoluzione naturale per un movimento che fin dall’inizio si era rifatto alle più classiche e nobili tradizioni pop, dai Beatles a Brian Wilson.
L’incontro definitivo tra le due scuole pop (inglese ed americana) arriva, però, nel 2002 con l’esordio dei Decemberists “Castaways and Cutouts”, fusione perfetta tra il pop Smithsiano e folk  dei Belle&Sebastian e quello Wilsoniano psichedelico dei Neutral Milk Hotel, tra la voglia di raccontare storie ed il desiderio di adagiare queste storie su un soffice tappeto musicale generato dagli intrecci degli arrangiamenti cameristici, un disco che è l’ennesimo punto segnato da una rivincita del pop ancora in corso…

59 – Alternative country e neo-folk

Negli anni ’90 del crossover totale e delle sperimentazioni con l’elettronica c’è comunque spazio per la tradizione, termine che in America è spesso sinonimo di country, o meglio, siccome si sta parlando di rock, di country-rock: il genere che Gram Parsons aveva “inventato” nei tardi anni ’60 attraverso gruppi come The International Submarine Band, Byrds e Flying Burrito Brothers e che Neil Young aveva portato allo stato dell’arte e sposato col folk; lo stesso suono che durante gli anni’80 era stato rivisitato ripassato al vetriolo dai cosiddetti cowpunk come Jason & The Scorchers, gruppo cui si ricollega idealmente una formazione di matrice hardcore come gli Uncle Tupelo che recupera anche la lezione di musicale di band come Replacements e Meat Puppets (seminali per la loro capacità di rinverdire le tradizioni musicali), nell’esordio  del 1990 “No Depression”.
Il disco, molto semplicemente, segna l’atto di nascita dell’alternative country, un movimento con cui, per ironia della sorte, l’universo del rock alternativo è chiamato a preservare le tradizioni musicali che per primo, fin dagli anni ’50, si era impegnato a scardinare: e così, per assurdo, proprio quando Nashville comincia a flirtare col pop e le parti alti delle classifiche grazie al successo di cantanti  come Garth Brooks, Billy Ray Cyrus, Shania Twain e LeAnn Rimes, i  seguaci dell’alt. country tornano a frequentare i suoni di artisti roots e country (rock) del passato come Gram Parsons, Neil Young,  il Dylan di “Nashville Skyline” e la Band.
Sull’onda del fenomeno emergono gruppi attivi già dalla seconda metà degli anni’80 come Wakabouts, Freakwater e Jayhwaks: questi ultimi, in particolare, in giro dal 1986, sono anche tra i primi, con “Hollywood Town Hall” (1992) a battere, con una sintesi impeccabile di Byrds, Beatles e R.e.m., il sentiero che riconduce verso i territori del pop-rock. Di fronte al movimento alt. country di lì a poco si presenta, infatti, un bivio: perseguire fedelmente la strada della tradizione o battere nuove strade. È proprio quel bivio, nel 1994, a spaccare gli Uncle Tupelo in due e a separare le strade dei due leader Jay Farrar e Jeff Tweedy che vanno a formare, rispettivamente, Son Volt e Wilco.
I primi, all’esordio nel 1995 con “Trace” proseguono sulla falsariga del gruppo originario di Farrar, alternando ballate country desolate e malinconiche a sporadiche esplosioni sonore, strada che continueranno a battere anche nei dischi successivi trovandosi peraltro in ricca compagnia: Whiskeytown, Cash Brothers, Scud Mountain Boys, Lambchop, Willard Grant Conspiracy e 16 Horsepower sono solo alcuni dei gruppi che procedono, seppur in modi diversissimi, lungo quelle coordinate percorso musicali. Nei dischi dei Willard Grant Conspiracy, al debutto nel 1996 con “3 A.M. Sunday Fortune Otto’s”, il country si sposa col folk e con un’atmosfera fosca e drammatica, vicina ai toni chiaroscurali di gruppi d’oltreoceano come Tindersticks e Jack, maturando ulteriormente negli anni fino al capolavoro del gruppo, “Regard The End” (2003): il disco esce per la Glitterhouse, seminale  etichetta tedesca che per tutti gli anni ’90 (e oltre) si rivela fondamentale per l’importazione in Europa di quei suoni.
Tra i gruppi importati nel vecchio continente dalla label ci sono anche i 16 Horsepower, formazione che debutta col disco omonimo nel 1995 e che ruota attorno alla figura di David Eugene Edwards, autore di un country drammatico ed oscuro, impregnato di toni predicatori, che vaga tra gospel e folk rurale e che riprende la vena mistica del Nick Cave più visionario: un discorso sonoro che proseguirà nel 2001 col nuovo gruppo di Edwards, i Woven Hand.
Provengono da Nashville i Lambchop, che nel secondo disco, “How I Quit Smoking” (1996), suonano un country più o meno tradizionale, nella tradizione della loro città d’appartenenza, seppur già caratterizzato da un sontuoso suono orchestrale: già due anni dopo, con “What Another Man Spills” cominciano a dare i primi segnali di cambiamento, coverizzando a sorpresa la star della  blaxploitation Curtis Mayfield, primo segnale di quello che succederà nel disco successivo, il sorprendente “Nixon” (2000) dove il country si fonde miracolosamente col soul orchestrale di philadelphia: un accostamento bizzarro sulla carta ma che funziona meravigliosamente nella pratica, facendo del gruppo di Kurt Wagner (ma sarebbe più appropriato parlare di ensemble) uno dei gruppi più originali dell’intero movimento.
Un caso a parte anche la storia di Joe Pernice, artista eclettico e prolifico che nel 1995 esordisce con gli Scud Mountain Boys di “Dance the Night Away”, gruppo che viaggia sui solchi del country-rock più tradizionale, per poi ripartire da zero tre anni e due dischi dopo con un nuovo gruppo: i Pernice Brothers, gruppo che fin dall’esordio (“Overcome by Happiness” del 1998) si rivela con uno splendido pop da camera in cui il country è solo un lontano punto di partenza. I Pernice Brothers sono solo l’ultimo di una lunga serie di gruppi che, partiti dal country alternativo, si spostano gradualmente verso forme di pop-rock di stampo tradizionale divenendo in pratica gli eredi di quel suono che partendo dai Byrds (e dai Beatles), passando per i Big Star e poi per i R.e.m costituisce una delle colonne portanti del rock d’oltreoceano: i primi a fare la svolta sono proprio i Wilco di Jeff Tweedy.
Il gruppo parte relativamente in sordina nel 1995 con “A.M” e incomincia un percorso di evoluzione e contaminazione che lo porta a stupire tutti con “Yankee Hotel Foxtrot” (2002), disco in cui, con l’ausilio del concittadino Jim O’Rourke, i Wilco danno alla luce un ibrido mai sentito tra country, folk, pop-rock Beatlesiano ed elettronica sperimentale, chiamata qui allo stesso ruolo destabilizzante che svolgeva in “O.k. Computer” dei Radiohead.
Più convenzionale e legato alla tradizione country-rock e rock degli anni ’60 il suono dei Beachwood Sparks, affine  a Lambchop e Pernice Brothers nel conciliare country, pop e soul il Josh Rouse di “1972” (2003), fusione ammirevole di country, folk e R.e.m i dischi dei Grant Lee Buffalo all’esordio nel 1993 con “Fuzzy”, figli del Neil Young più desolato ed etereo e dei Grandaddy più country i My Morning Jacket di “Tennessee Fire” (1999).
Un caso a parte è Will Oldham: esordiente nel 1996 con “Arise, Therefore” dei Palace Music e poi protagonista di una lista impressionante di dischi a nome Palace Brothers e Bonnie Prince Billy (oltre a quelli usciti a suo nome), Oldham è l’anello mancante tra la bassa fedeltà del sadcore ed il country-rock alternativo, rivelandosi anche seminale per la sua riscoperta dei suoni delle origine, in particolare l’ancestrale folk appalachiano: dopo una lunga serie di uscite caratterizzate da un suono asciutto e minimale e da un tono scuro e depresso raggiunge il suo capolavoro  nel 1999 con “I See a Darkness”, dove il suo country-folk scordato si  apre maggiormente alle melodie, avvicinandosi idealmente al compagno d’etichetta Smog.
I due, infatti, oltre alla comun appartenenza alla scuderia Drag City, condividono lo stesso gusto per la rivisitazione in chiave lo-fi della tradizione country e folk filtrata attraverso una vena malinconica figlia di Neil Young e Nick Drake ed un gusto melodico che da slanci lirici improvvisi spesso sprofonda in momenti algidi ed apatici, un suono che si rivelerà un’influenza fondamentale per gran parte dei cantautori americani che porteranno avanti nel nuovo millennio la tradizione folk.
Tradizione particolarmente viva in un inizio di millennio particolarmente nostalgico, che tra un ritorno di fiamma per il rock americano degli anni’70 e un revival della new wave dei primi anni ’80 (fenomeni di cui si parlerà più avanti), vede anche sbocciare un filone folk particolarmente florido: se durante gli anni ’90 i riferimenti cardinali per il cosiddetto sadcore e per il pop  folk del Regno Unito erano stati Donovan e Nick Drake nel decennio successivo lo spettro delle influenze si allarga in America ad includere il folk rock inglese a cavallo tra anni ’60 e ’70, quello  di Shirley Collins, Fairport Convention, Incredibile String  band, Pentangle e dei T. Rex folk del primo periodo; nel frattempo, con  uno spiazzante gioco di specchi, il pop folk inglese (e più in generale europeo) si volge a guardare anche interpreti storici del folk americano come Harry Nilsson e Simon And Garfunkel. Proprio dal vecchio continente è necessario partire, se non altro per motivi cronologici: volendo fare una schematizzazione dolorosa si può dire che laddove il suono del folk americano risulta più sperimentale e in qualche misura ostico, in Inghilterra la tendenza generale è quella di un pop con forti ascendenze folk.
Le prime avvisagli le dà nei tardi anni ’90 il successo dei Belle & Sebastian, gruppo che oltre a rimettere in circolo i suoni del twee pop e a risultare tra i migliori interpreti di quel pop da camera di cui si è parlato poco fa, sono anche tra i primi, almeno nel Regno Unito, ad inglobare l’influenza di artisti come Donovan e Nick Drake: l’interpretazione dei suoni di quest’ultimo è quasi contrapposta a quella che se ne dava nello stesso periodo in America,  dove Drake riviveva soprattutto nella musica di artisti malinconici e  depressi come Smog ed Elliott Smith. Il suono dei Belle &  Sebastian è delicato ed introspettivo ma uno spirito scanzonato ed ironico fanno sì che il tono generale della loro musica sia sempre vivace e se non mancano momenti riflessivi nella loro musica essi vengono spesso alleviati da improvvisi cambi d’umore e di ritmo: per farla  breve, le melodie di Stuart Murdoch e compagni risultano assolutamente pop, confermando d’altra parte una tendenza verso quelle sonorità da parte della musica inglese consolidata e comprovata nei decenni.
Un altro artista fondamentale risulta Badly Drawn Boy, all’esordio nel 2000 con “The Hour of Bewilderbeast”, un disco che per molti versi segna il passaggio simbolico dell’indie rock dal lo-fi al folk: se gli arrangiamenti bizzarri, la vena melodica bislacca e gli sporadici campionamenti fanno parlare molti di una controparte inglese di Beck, la verità è che gran parte del disco viaggia dalle  parti di un folk spruzzato e qua e là di suoni orchestrali, (un corno francese, un violoncello, una tromba…) che cita Donovan e Harry Nilsson.
I dischi di Belle&Sebastian e Badly Drawn Boy spalancano idealmente la strada a “Quiet Is the New Loud”, esordio del 2001 dei norvegesi Kings Of Convenience che deve tanto a Nick Drake quanto a Simon&Garfunkel, disco dal titolo quasi profetico se consideriamo che di lì a poco il magazine musicale inglese N.m.e. conia la definizione di new acoustic movement per inquadrare una non-scena di gruppi dal suono tendenzialmente acustico e folk.
La maggior parte dei gruppi inseriti in quel calderone sono esordienti ed inglesi: Elbow, Lowgold, I Am Kloot, Turin Brakes, Alfie, Tom McRae, Mull Historical Society, ma c’è anche un australiano, Ed Harcourt. Se una delicata vena melodica, una certa raffinatezza negli arrangiamenti (che spesso ricorrono a strumentazione classica) ed una certa quiete di fondo possono in parte accomunare questi gruppi, risulta comunque evidente come in  gran parte quella scena sia una bolla di sapone, tante e tali sono le differenze stilistiche tra i gruppi citati: se formazioni  come Elbow e Lowgold non fanno altro che portare avanti il rock  britannico più o meno tradizionalista di gruppi  come Oasis, Coldplay e Doves, Alfie e I Am Kloot riprendono in parte la sonorità di Badly Drawn Boy (i primi sposandole con una psichedelia a metà tra Beach Boys e Shoegazing), mentre Ed Harcourt, all’esordio nel 2001 con “Here Be Monsters, che alterna i ringhi blues di Tom Waits ad un pop suadente vagamente reminiscente di Rufus Wainwright e Jeff Buckley.
L’isteria della stampa per il movimento neo-acustico dura comunque lo spazio di un’estate o poco più, per la precisione quella del 2001, anno di esordio della gran parte dei gruppi citati: al loro rientro dalle vacanze l’attenzione della stampa inglese è già catalizzata dal fenomeno Strokes e dall’isteria collettiva per il “nuovo rock’n’roll”.
D’altra parte la natura fittizia del “movimento” è ribadita dal fatto che la maggior parte di questi gruppi, arrivati al secondo disco, si avvia verso direzioni diverse da quelle intraprese in passato: alcuni, come i Turin Brakes di “Ether Song” (2003), virano verso sonorità più rock, altri, come gli Alfie di “Do You Imagine Things” (2003) approfondiscono la propria passione per il pastiche psichedelico anni ’60, mentre altri ancora, come l’Ed Harcourt di “From Every Spere” (2003), ribadiscono le proprie caratteristiche musicali e stilistiche. In quest’ultimo gruppo di band rientrano i Kings Of Convenience di “Riot on an Empty Street“ (2004) che tornano a suonare sulle orme di Drake e S&G come se nulla fosse stato: eppure in questi tre anni tante cose sono successe, soprattutto ad Erlend Oye, che nel periodo intercorso tra i due album ha trovato il tempo di firmare un disco solista ed un mix album per la prestigiosa serie Dj Kicks e di collaborare con i  connazionali Royksopp.
Diversissime sono le caratteristiche del revival folk americano: negli Stati Uniti, come si è detto, la tradizione folk era stata portata avanti durante gli anni ’90 da artisti dalla vena malinconica e dal passo trascinato del cosiddetto sadcore e lo spettro di Drake aleggiava nei dischi di Elliott Smith, dove si fondeva con la ricchezza melodica dei Beatles e in quelli di Smog dove riviveva, sporcato almeno inizialmente da un suono lo-fi nei solchi della tradizione (country e folk) americana. Tradizione che era stata rivisitata anche da Will Oldham, esploratore filologico del country e del folk appalachiano, vale a dire quel folk prebellico ed ancestrale che si era sviluppato negli anfratti più isolati della cultura americana: la ricerca sonora di Oldham, lungi dall’essere sterile, si era sposata nelle sue produzioni più recenti con una spiccata vena melodica, che l’aveva avvicinato, come si è detto, alle produzioni di Bill Callahan (vero nome del signor Smog).
Il motivo per cui si ripassa per l’ennesima volta questa fase della storia del rock americano è che questa triade di autori diviene presto fonte d’ispirazione per un gran numero di cantautori e gruppi che tramandano la tradizione folk nel nuovo millennio. Lungo i desolati sentieri del sadcore striscia il folk di Shearwater, all’esordio nel 2001 con “The Dissolving Room”, un suono che è l’ideale punto d’incontro tra quei tre autori, mentre i Little Wings di “Discover Worlds of Wonder” (2000) e “Magic Wand” (2004) aggiungono con parsimonia ritmo ed una ricchezza melodica fuori del comune a quella formula; in senso contrario viaggiano i Castanets di “Cathedral” (2004), che sposano il lo-fi di Oldham con un suono riverberato e cavernoso che ne avvolge e soffoca le composizioni scure e drammatiche.
Sorprendenti si rivelano poi artisti come M.Ward e Iron & Wine in cui la voglia di scavare nelle radici blues e folk della musica americana va di pari passo con una vena melodica ispiratissima: il primo esordisce nel 2001 con “End Of Amnesia”, disco che passeggia brillantemente per i sentieri del folk progressivo di Fahey, gioca con i suoni di Tin Pan Alley, folk appalachiano e blues; un gioco che gli riesce ancora meglio nel successivo “Transfiguration of Vincent” (2003) dove la vena pop esplode definitivamente tra ballate pianistiche degne di Tom Waits e spunti melodici quasi Beatlesiani, pur non rinunciando a quel gusto retro accentuato ancora di più dalla bassa fedeltà dei suoni e dalla voce spezzata di Ward. Affine per molti versi la musica di Sam Beam, meglio noto sotto lo pseudonimo di Iron&Wine, all’esordio nel 2002 con “The Creek Drank the Cradle”, altro disco intento a scavare nel blues e nel folk delle origini, benché in modo meno schizofrenico e più lineare di Ward: sorta di incrocio in chiave roots tra Simon & Garfunkel e Nick Drake fa seguire all’esordio l’ottimo “Our Endless Numbered Days” (2004), dove l’accentuarsi dell’influenza di Drake da a tratti l’illusione di trovarsi di fronte a una versione americana dei Kings of Convenience , le chitarre acustiche affiancate da banjo e pedal steel a trasmettere l’impressione di una musica fuori dal tempo.
Più o meno la stessa impressione che si ha ascoltando “Oh Me Oh My…“, esordio del 2002 di Devendra Banhart: anche qui una traccia di Drake, ma soprattutto la sensazione di trovarsi davanti al Marc Bolan folk dei tardi ’60, il vibrato, i vezzi della voce ed il timbro a rafforzare l’illusione. Ancora una volta ci si trova in realtà di fronte ad un cantautore contemporaneo che sposa suoni in bassa fedeltà (il disco è stato registrato originariamente su un registratore a quattro tracce), spiccato senso melodico e tradizione folk ancestrale: in questo caso però la vena melodica è più bislacca tanto da far venire a tratti alla mente Syd Barrett e il folk di riferimento non è solo quello tradizionale americano, ma anche quello inglese dei tardi ’60: dai primi T. Rex e quella Vasti Bunyan che Banhart usa citare quale fonte d’ispirazione e che rappresenta una delle autrici più oscure di quel movimento folk anglosassone pionierizzato da Judey Collins e portato avanti da gruppi come Pentangle, Incredibile String band e Fairport Convention.
Influenze che ritroviamo anche nei dischi di gruppi come Espers (al debutto omonimo nel 2004) e Faun Fables (autori di “Mother Twilight”, del 2001 e “Family Album”, del 2004) che sono quasi complementari a Banhart nel recupero di quei suoni: sono formazioni che riprendono gli aspetti più oscuri ed arcaici di quella corrente musicale, tra sonorità medievali e spiritualità celtica, più psichedelici i primi, più esoterici i secondi.
Affini nei suoni anche i Vetiver (sul cui debutto omonimo  del 2004 compare lo stesso Banhart in veste di coautore e seconda voce) con un suono che unisce la leggerezza di Bolan alla seriosità della stirpe più dotta del folk inglese, per essere poi dirottato di tanto in tanto verso territori psichedelici Barrettiani. I Vetiver non sono l’unico gruppo a ruotare intorno alla figura di Banhart, che si rivela centrale per questo recupero obliquo e per molti versi inedito di sonorità del passato; una di queste è Joanna Newsom, lanciata da Will Oldham e poi portata con sé in tour da Banhart, all’esordio nel 2004 con “The Milk-Eyed Mender”, è per molti versi un enigma musicale: canzoni tra pop e folk, tra filastrocca e sperimentazione, tra Cat Power e Bjork, disturbate ed accarezzate allo stesso tempo da una voce acutissima da bambina che è quasi una controparte al femminile di quella di Banhart.
Difficile anche da definire le Cocorosie, all’esordio nel 2004 con un disco come “La Maison de Mon Reve” dove prende forma un folk disturbato da campioni di musica concreta trovata (spesso suoni domestici e rurali come grilli, caffettiere, e galli), voci che paiono prese da vecchi dischi jazz ed un suono che ancora una volta ondeggia tra la filastrocca, il folk appalachiano ed il country, piccolo gioiello pop che caratterizzerà insieme a Banhart l’attenzione della critica musicale su questa scena ancora in fieri, fatta di suoni ancestrali e voci bislacche, aromi pop e suoni lo-fi che ha, tra le altre cose, anche il grande merito di recuperare, con ammirevole spirito archeologico, sonorità dimenticate da decenni, proseguendo in modo inaspettato l’operazione di riscoperta del folk iniziata più di dieci anni prima da Will Oldham.

60 – L’ondata del new rock 

L’inizio del nuovo millennio è salutato in tutto il mondo da una lunga serie di revival: mentre l’elettronica già comincia a guardare agli anni ’80 il popolo alternativo improvvisamente riscopre i suoni del garage, anche se in realtà parlare di garage è molto approssimativo e in parte pure inesatto: per essere precisi c’è una riscoperta di tutte quelle sonorità che tra la metà dei ’60 e la fine dei ’70 anticipano (o accompagnano) la nascita del punk: il garage rock americano dei Sonics e dei Wailers, il proto-punk  detroitiano di  Stooges ed Mc5 e quello australiano di Saints e Radio Bridman e  la New York di Velvet Underground e Television sono i punti principali di riferimento.
Bisogna considerare che il revival di questi suoni è un fenomeno che, anche se a sprazzi, prosegue da più di due decenni: negli anni ’80 la penisola scandinava e l’America erano stati attraversati, come noto, da un massiccio revival garage-rock portato avanti da gruppi come Nomads, Fleshtones e Hanoi Rocks. La tradizione di quei suoni negli anni ’90 era passata poi per la rilettura noise del blues da parte di gruppi di New York come Pussy Galore prima, Jon Spencer Blues Explosion e Royal Trux poi, per il lavoro instancabile di etichette underground come Estrus, Crypt, Bomp! e Sympathy for the Record e infine per fertili scene come quella di Detroit e di Memphis, dove la rilettura del garage veniva filtrata attraverso il blues, come nella musica dei Gories di Detroit, ed il rock’n’roll, come nei dischi degli Oblivians di Memphis.
Altrettanto seminale era stato quel filone che, partendo  dalla Seattle dei Mudhoney e arrivando alla fine degli anni’90  in Svezia combinava hard rock e garage: punto d’approdo ma anche di  partenza per l’esplosione rock se si considera che proprio con l’invasione dei gruppi Scandinavi si ricomincia a parlare ufficialmente di glam hard rock stradaiolo e di garage, mentre gruppi come Hellacopters, Gluecifer e Backyard Babies catalizzano l’attenzione del mondo indie: niente a che vedere col successo di massa che toccherà ai loro connazionali Hives di lì a poco ma comunque un primo, importante ritorno di fiamma per quei suoni e allo stesso tempo un cambio di rotta inaspettato per la penisola scandinavia, fino ad allora nota a livello internazionale principalmente come patria del death metal.
E proprio da una costola del gruppo death Entombed nascono gli Hellacopters, gruppo il cui esordio del 1998 “Super Shitty to the Max!” è una perfetta dichiarazione d’intenti musicale per l’intera scena: il gruppo ripropone quella miscela di proto-punk (Stooges, Saints ed Mc5) e proto-metal (Black Sabbath e Deep Purple) che aveva reso celebri i Motorhead, gruppo di cui gli Hellacopters sono gli eredi ideali, con suoni affini a quelli di un gruppo come i Gluecifer, e imparentati con l’incrocio tra garage ed hard rock stradaiolo (sulle orme di Motley Crue e Guns’n’roses) di Backyard Babies e Turbonegro, questi ultimi eredi della tradizione glam metal di Alice Cooper e Kiss.
Tutti fenomeni importantissimi per capire quello che succede dal 2001 in poi e per capire come gran parte dei gruppi emersi e divenuti popolari grazie al momento propizio siano in realtà spesso l’ultima catena di scene ultradecennali: una consapevolezza che diviene importante soprattutto per orientarsi in mezzo alla giungla di formazioni etichettate riunite sotto il termine (piuttosto risibile) di new rock.
Gruppi spesso affini nel nome più che nelle sonorità, con quell’uso dell’articolo “The” che è omaggio ad una tradizione, quella del garage-rock dei The Sonics e The Wailers, a sua volta mutuata dai gruppi inglesi della british invasion che erano spesso fatti esordire con un disco omonimo di presentazione (The Beatles, The Rolling Stones, The Kinks, ecc…); diventa, però difficile, nel momento in cui il fenomeno del new rock esplode commercialmente, distinguere tra l’omaggio sincero e l’abile mossa di marketing per saltare sul carro del movimento.
Movimento che esplode nel 2001, sotto la sapiente regia della macchina mediatica inglese: è il solito N.m.e che, folgorato da Is This It, esordio dei newyorchesi Strokes si accorge improvvisamente di una scena e di un suono che esiste da anni; accantonato e dimenticato nel giro di ventiquattr’ore l’effimero (e fittizio) New Acoustic Movement la stampa inglese si volge improvvisamente a guardare tra gli scantinati del garage e dell’hard rock internazionale. C’è anche da dire che, accanto all’hype mediatico c’è anche una sorprendente coincidenza di uscite discografiche eccezionali e gruppi esordienti sorprendenti: si ripete, insomma, quello che già era avvenuto col brit pop, dove accanto a gruppi insulsi e derivativi ve ne sono altri che sono in grado di fondere in modo nuovo le influenze del passato generando magicamente miscele e sonorità (parzialmente) inedite: gli Strokes per primi, e poi White stripes, Libertines, Kings Of Leon e Yeah Yeah Yeahs, giusto per citarne qualcuno a caso. Alcuni di essi sono attivi da anni, come i White Stripes, che per pura coincidenza arrivano proprio nel 2001 al capolavoro (“White Blood Cells”) , altri sono esordienti totali, come i Libertines.
Questi ultimi, in particolare, sono tra i pochissimi apporti di rilievo della scena inglese al new rock, il che non stupisce tenendo conto che il movimento in questione, come già detto, è fermamente radicato nelle tradizioni e nelle scene, nazionali e cittadine: naturale quindi che ad emergere siano paesi come l’Australia dell’aussie rock hard degli Ac/dc, la penisola scandinava del garage revival anni ‘80 e, soprattutto, l’America: quella di Detroit e New York, prima di tutto, ma più in generale tutte le sue province musicali (tra cui la California, l’Ohio ed il Sud).
Ma se c’è un punto giusto da cui partire, probabilmente è la New York degli Strokes, prima causa scatenante del fenomeno, con il già menzionato esordio del 2001 “Is This It”: onorando la tradizione musicale della loro città natale il gruppo esce con una miscela di Velvet Underground e Television, filtrata però  attraverso l’abrasività e la carica adrenalinica del garage e le dinamiche e le melodie della tradizione pop: sembra un ossimoro ma funziona incredibilmente bene, facendo da subito del gruppo e delle sue sonorità uno degli assi centrali intorno a cui si snoda il fenomeno.
Da subito si parla di revival garage, ma la verità è che il gruppo e con esso la città di New York, è da subito legato più che altro alle sonorità new wave. Sonorità che sono ancor più marcate nel successivo “Room on Fire” (2003) e attorno alle quali gravitano la maggior parte dei gruppi cittadini di rilievo,  come Liars ed Interpol: non è un caso quindi che da New York parta un ulteriore revival, teso questa volta a rielaborare le sonorità dei primi anni ’80, che segnerà la metà del decennio (e di cui si parlerà più tardi).
Con le dovute proporzioni, sembra ripetersi la storia di venti e passa anni prima, quando la città che aveva inventato il punk con New York Dolls e Ramones negli stessi anni volgeva le sue attenzioni altrove ponendo contemporaneamente le basi per la new wave con gruppi come Television e Suicide: non una coincidenza ma semplicemente un’altra testimonianza della ricchezza di questa città. Città che in ogni modo, anche in questi anni, non manca di sparare le sue cartucce rock’n’roll: dal garage punk vintage, tra New York Dolls, Sonics e Mc 5 dei Modey Lemon di “People Get Ready”(2003) al flirt con power pop e punk ’76 degli Star Spangles di “Bazooka !!!” (2003) passando per “Fever to Tell” (2003) delle Yeah Yeah Yeahs,oscura e travolgente miscela tra il rock riottoso di Bikini Kill e Sleater Kinney , la new wave di Blondie ed il garage-noise del decano Jon Spencer.
Se New York è la città che accende la miccia, fin da subito è Detroit  il vero epicentro per la rinascita del garage (specie di quello  virato blues): la città non solo è una delle patrie spirituali dell’intero movimento, avendo dato i natali a gruppi come Mc5 e Stooges, ma è anche quella che può vantare la scena più florida. Una scena sviluppatasi fin dalla metà degli anni’80 attorno alla figura carismatica di Mick Collins: Collins è il primo a dare, con  i Gories prima, con i Dirtbombs poi, una lettura minimale del garage, riducendone il suono all’osso ed eliminando il basso, incrociandolo contemporaneamente con altri generi, specie di matrice nera, blues, rhythm‘n‘blues, funk e soul su tutti.
La sua lezione si rivela fondamentale per i White Stripes che ne riprendono il suono minimale fin dalla line up essenziale: a comporre il gruppo sono solo in due, Jack White, chitarra e voce  e  Meg White, batteria; ne ereditano anche l’eclettismo: garage punk, l’hard rock, il country,il rock’n’roll, il blues, ma anche il pop di Beatles e Velvet Underground sono solo alcuni dei generi toccati dai due nell’arco di quattro dischi.
All’esordio nel 1999 per la seminale Simpathy For The Records quando ancora di rock’n’roll nessuno vuole sentir parlare il gruppo esplode nel pieno dell’isteria collettiva per gli Strokes con “White Blood Cells” (2001): disco che, insieme al  successivo Elephant (2003) testimonia la definitiva maturazione del gruppo, con la voce e la chitarra di Jack White a fare da collante tra i salti mortali tra i generi del gruppo e Meg che contribuisce con  un drumming scheletrico e meccanico, che porta alcuni pezzi del gruppo (prima fra tutti la celebre “Seven Nation Army”), a suonare come la risposta del rock alle ritmiche robotiche della musica elettronica.
L’exploit di “White Blood Cells” fa sì che il gruppo fin da subito assuma un posto centrale nella scena, unico in grado di rivaleggiare per influenza e carisma con gli Strokes e allo stesso tempo attiri l’attenzione pubblica sulla scena da cui proviene; ad esempio sui Von Bondies, il cui esordio del 2000, “Lack Of Communication”, è prodotto proprio da Jack White: un disco in cui il gruppo brilla con un suono che è l’esatta via di mezzo tra Mc5 e Sonics, un garage punk sporco in cui il cantato risente non poco dell’influenza dello stesso White. Veterani della scena sono invece formazioni come Detroit Cobras, Demolition Doll Rods e Sights, tre gruppi cui corrispondono altrettante declinazioni del paradigma  garage: R&B (attraverso cover deraglianti di oscuri pezzi di genere) per  le Detroit Cobras di “Mink Rat or Rabbit” (1998), in salsa  rock’n’roll per le Demolition Doll Rods di “Tasty “(1997), virato verso il suono della british invasion di Stones, Who e Beatles quello dei Sights di “Are You Green?” (1999).
La matrice blues è invece sviluppata da altri gruppi disseminati per gli sconfinati territori americani: Soledad Brothers, Immortal Lee County killers, Mr Airplane Man, Black Keys, Kills e i già citati Modey Lemon sono solo alcuni dei gruppi che rivisitano in chiave garage il suono della tradizione, tutti caratterizzati peraltro dalla minimale line up a due: dalle Mr Airplane Man di “Red Lite” (2001) agli Immortal Lee County Killers di “Love Is a Charm of Powerful Trouble” (2003), gruppi alle prese con una rilettura piuttosto fedele del genere passando per i Black Keys di “Thickfreakness” (2002) veri eredi della tradizione meticcia dei Gories, imbevuti di negritudine fino al midollo, dotati della stessa carica groovy e dediti allo stesso blues lancinante e abrasivo che avevano reso Mick Collins un personaggio di culto. Anche  i californiani Bellrays, con “Let It Blast” (1999), tentano l’ibridazione tra garage e musica nera, anche se su coordinate e presupposti radicalmente differenti: il gruppo, infatti, guidato dalla vocalist di colore Lisa Kekaula gioca a fondere il rhythm’n blues di Ike&Tina Turner con gli Mc5, con un suono che del soul riprende la vena più sanguigna ed incendiaria.
Un caso a parte sono i Kills di “Keep on Your Mean Side” (2003) gruppo in cui la matrice blues rivive sotto l’ascendente del noise-rock newyorchese di dieci anni prima, con sonorità che ricordano a tratti i Royal Trux e che li rendono cugini alla lontana del garage degli Yeah Yeah Yeahs, seppur in forma più minimale e controllata. A far rivivere i suoni della tradizione ci pensano anche i Kings Of Leon di “Youth & Young Manhood” (2003), gruppo che traghetta la tradizione southern rock, tra boogie, country e blues, nell’era del rock revival, riadattando il suono di Lynyrd Skynyrd e Creedence Clearwater Revival alle strutture e alle dinamiche del garage: l’ennesimo esperimento coronato dal successo.
Se l’America è il centro del musicale del movimento, la Scandinavia di Nomads, Hanoi Rocks ed Hellacopters resta uno straordinario serbatoio musicale di gruppi e a veterani come Hives ed   International Noise Conspiracy, si affiancano nei primi anni del decennio gruppi come Division Of Laura Lee, Raveonettes e Mando Diao. Gli Hives, in particolare, sono, con White Stripes e Strokes tra i principali protagonisti dell’esplosione del movimento all’inizio del nuovo millennio.
Il gruppo, all’esordio nel 1997 con “Barely Legal” fa il botto con “Veni Vidi Vicious” (2000): un suono che fonde il cantato e l’attacco hardcore e lo fonde con riff che uniscono il meglio del rock chitarristico degli anni’60 (dai Rolling stones al garage rock) con l’abrasività del garage di Detroit e il groove dei Nation Of Ulysses di Ian Svenonius. Un nome cui viene istintivo associare anche gli International Noise Conspiracy di “Survival Sickness” (2000) dove l’accento’60s è ancora più spiccato, tra organetti vintage e melodie che ammiccano (anche) ai primi Kinks, mentre dagli Mc5 il gruppo eredita più che altro la spiccata vena politica.
Radicalmente diverse sono le sonorità dei Raveonettes, all’esordio nel 2002 con “Whip It On”, gruppo che prosegue lungo la strada degli esperimenti bizzarri fondendo il garage rock con il dream pop dei My Bloody Valentine e il noise-pop degli Jesus & Mary Chain: muri di suono si frappongono tra l’ascoltatore e le melodie vocali, che paiono scappate da un album inglese di fine anni ’80, e si innestano su ritmiche e riff inconfondibilmente garage. Un esperimento sonoro che li avvicina idealmente agli americani Black Rebel Motorcycle Club, gruppo che fin dall’esordio omonimo del 2000 eredita da quelle band inglesi la cortina di rumore, la struttura mantrica ed una certa visione psichedelica, cui una vena eclettica alterna, più che unire, garage-punk, velvet Underground e blues-rock.
Lo stesso anno in cui in Danimarca esordiscono i raveonettes, in  Inghilterra esplode un gruppo che costituisce la risposta inglese agli Strokes: i Libertines. E’, infatti, del 2002 “Up the Bracket”, disco che nella migliore tradizione inglese ha il dono di fondere insieme quattro decadi di pop-rock: l’influenza degli Strokes c’è, certo, ma è inserita in un calderone sonoro che include il tono strascicato dei Clash (produce Mick Jones), il glam abrasivo dei Supergrass, il lirismo degli Smiths e la vena da dance hall dei Kinks, creando un disco che è pietra miliare del (nuovo) rock, nonché uno dei rarissimi apporti della scena inglese al movimento.
Un contributo importante al fenomeno viene dato anche dai The Music, all’esordio nel 2002 col disco omonimo, matrimonio di hard rock e psichedelia, di Led Zeppelin e Verve, che prosegue per molti versi sui solchi di quel rock tradizionale inglese che avanza incessantemente da metà anni ’90, arricchendo il tutto di sporadici inserti di elettronica: è un gruppo che incarna la componente hardpsichedelica del movimento, la stessa dei Black Rebel Motorcycle Club e degli Australiani Datsuns.
Se in Inghilterra la tradizione hard rock nasce con i Led Zeppelin, in Australia lo stesso termine non può che essere associato agli Ac/Dc, influenza principale per i Datsuns, all’esordio omonimo nel 2002 (ma attivo da anni) che sposando quell’influenza con i suoni del garage giunge a risultati non molto dissimili da quelli ascoltati nei dischi di Hellacopters e Gluecifer. Dove  i Datsuns citano gli Ac/dc, ai D4 al debutto nel 2003 con “6Twenty “ spetta tributare altri due gruppi storici del rock australiano come Radio Birdman e Saints, sposandone le sonorità con riff degni del miglior garage rock anni ’60 e con il tiro dell’hardcore, arrivando a tratti a ricordare gli Hives. Australiani sono anche i Jet, al debutto con “Get Born” (2003), che sposano i suoni della tradizione hard rock e garage nazionale con ballate pop Beatlesiane e attacchi degni degli Stones: un caleidoscopio sonoro con cui , per varietà delle influenze, rivaleggiano i Vines di “Highly Evolved” (2002), gruppo che conquista la stampa inglese citando Nirvana, Beach  Boys, Beatles, Oasis e Pink Floyd. Suoni interessanti ma un po’ derivativi, a causa della mancanza in Australia di una vera e propria scena garage, in un fenomeno come quello del “new rock” che si fonda proprio sulla tradizione musicale.
Fenomeno destinato ad essere affiancato, proprio quando il continuo recupero di Stooges e Sonics comincia ad essere inflazionato, da un altro revival, questa volta incentrato principalmente sulla new wave americana ed inglese , degli anni ’80: se ne parlerà tra poco…

61 – Revival 80’s dall’electroclash al p-funk

Nel Dicembre del 2001 esce una compilation dell’etichetta newyorchese Mogul, specializzata in neoelectro ed electro-pop di nome electroclash: tra gli artisti inclusi vi sono Rubber  Hand, Fischerspooner, A.r.e. Weapons, Morplay e Soviet, vale a dire la  crema di un movimento che attraversa trasversalmente musica,  moda ed arte e che fonde le perversioni glam del synth pop con  una rivisitazione trash dell’estetica punk. Gli A.r.e. Weapons, rielaborazione in chiave trash della lezione sonora dei Suicide, suonano alle gallerie d’arte rotolandosi per terra e provocando risse col pubblico, mentre i Fischerspooner, gruppo che fonde brillantemente il synth pop di New Order, Depeche Mode e Pet  Shop Boys, formato inizialmente da due elementi, Warren  Fisher  e Casey Spooner, è divenuto un collettivo di venti elementi, tra ballerini e vocalist, e allestisce spettacoli multimediali che includono performance teatrali e coreografie.
Per fotografare il movimento sempre la Mogul organizza nell’Ottobre di quell’anno un festival, chiamato Electroclash Festival, al quale partecipano gruppi come Adult., A.r.e. Weapons, Chicks on Speed, Fischerspooner, Ladytron e Peaches, in parte gli stessi che animano il Berliniamsburg, club cittadino dedicato al revival di electro e synth pop. Nel calderone del movimento confluiscono fenomeni musicali diversissimi: da una parte il movimento neo-electro di Detroit che, prendendo le mosse dalla techno minimale di inizio anni ’90 porta avanti il recupero dei suoni analogici dei primi esperimenti con i synth di Kraftwerk e Cybotron. Ne fanno parte produttori attivi dai primi anni ’90 come Drexciya e Dopplereffekt, ma anche gli Adult., duo dedito ad un electro che già vira verso il synth pop, chiamati nel 2001 a remixare “Emerge”, pezzo di Fischerspooner che diventa uno dei primi successi europei dell’electroclash, pubblicato  dalla International Deejay Gigolo Records.
L’etichetta, fondata a Monaco nel 1996 da Dj Hell, si rivela fondamentale per la diffusione e la definizione a livello europeo delle sonorità electro: il che non stupisce, se si considera che da anni la label faceva uscire col suo logo, singoli ed Ep caratterizzati da sonorità electro, (in un momento in cui di anni’80 ancora era vietato parlare), rivelandosi profetica con le uscite di produttori come David Carretta, Dj Naughty e, soprattutto Miss Kittin & The Hacker.
Proprio la Dj-essa/vocalist francese diviene, assieme allo stesso DJ Hell, Dj e vocalist-simbolo del movimento, prima con una serie di singoli ed un disco del 2001 (“The First Album”) in coppia col produttore The Hacker, poi, sempre nel 2001 in società col veterano della house Felix Da Housecat sul disco “Kittenz And Thee Glitz”, in pezzi come “Happy Hour” “How Does It Feel Like” e “Silver Screen (Shower Scene)”: alcuni dei momenti migliori del disco.
Disco che, anche se gioca a citare i suoni dell’electro di moda quell’anno, è in realtà un melting pot dance che poggia su anni di onorata carriera in campo house del suo autore, Felix Da Housecat; un discorso analogo vale anche per gli Swayzak di “Dirty Dancing” (2002), la cui house minimale e sognante a tratti si scurisce, inglobando suggestioni ed elementi sonori dell’electro, per poi allearsi con gli Adult. nell’inno electroclash “I Dance Alone”. Fenomeni trasversali che non ci devono distogliere dal centro europeo della scena che è e resta la Gigolo di Dj Hell, da cui partono tutti gli articoli centrali del genere: il già citato “Emerge”, il “Poney Ep” di Vitalic, l’esordio sul Lp di Fischerspooner “#1” e quella “Sunglasses At Night” di Tiga & Zyntherius che nel 2002 segna l’apice di popolarità del movimento e fa di Tiga uno dei Dj più in vista della dance alternativa internazionale. Più in generale, la centralità della Gigolo durante il boom passeggero dell’electro, è solo uno dei tanti fenomeni musicali legati ad un’area, quella tedesca, che fin dai primi ani ’90 ha cominciato a ritagliarsi un ruolo sempre più significativo a livello internazionale, con etichette come Tresor, Bungalow e Kitty-yo, giusto per citarne alcune e per dare un’idea della varietà di proposte musicali (rispettivamente techno, lounge ed elettronica indie vicina al post rock le proposte negli anni ’90 di queste etichette).
Un processo destinato a decollare definitivamente alle porte del nuovo millennio: se nel 2000 esordisce la berlinese Bpitch Control, etichetta fondata da Ellen Allien che dà il suo contributo al movimento electro dando una rilettura trasversale di quei suoni sia con i dischi usciti a suo nome sia con produttori come Kiki e Smash Tv, la Kitty-yo nel 2000 dà alle stampe l’esordio di Peaches: electro-trash virato rock che fa il paio con “Will Save Us All!”, esordio  del 2000 delle Chicks on Speed, eredi del trash-pop deviato e scalcinato inventato, qualche anno prima, dagli Stereo Total, anch’essi tedeschi ed anch’essi usciti per un’etichetta teutonica, la Bungalow; a completare idealmente una trilogia immaginaria arriva nel 1999 l’esordio omonimo delle Le Tigre, nuovo gruppo dell’ex riot grrrrls ed ex-bikini kill Kathleen Hanna. Tutte espressioni di uno spirito post-femminista che viaggia tra il serio (Le Tigre) ed il faceto (Peaches), con suoni che ondeggiano tra il punk ed il trash, tra l’electroclash ed il funk.
Chicks On Speed e Peaches non sono le uniche ad approcciare trasversalmente e con spirito indie il fenomeno electroclash:  l’Inghilterra, in particolare, contribuisce con gruppi  come ladytron e Zoot Woman allo sviluppo del synth pop  di Fischerspooner e Morplay; le prime, al debutto nel 2001 con “604”, conciliano l’approccio sognante all’elettronica di gruppi  come Stereolab e Broadcast e lo sposano con un synth pop che deve molto a gruppi come Soft Cell e New Order, influenze ostentate però in tempi non ancora sospetti, se si considera che “Commodore Rock”, l’ep di debutto, è del 2001. Lo stesso dicasi per gli Zoot Woman di Stuart Price, all’esordio nel 2001 con “Living in a Magazine”, che con le Ladytron condividono fascinazione per il synth pop ed influenze musicali: da notare che Price nel 1999 aveva sconvolto il pubblico big beat della Wall Of Sound con “Darkdancer”, un melting pot di suoni anni ’80 in un momento in cui synth pop era una parola impronunciabile, incorrendo ovviamente in reazioni sdegnate da parte del pubblico alternativo.
La stessa cosa successa ai Faint, gruppo-chiave della Saddle  Creek  di Omaha, etichetta resa celebre dall’emo dei Cursive e dall’alternative folk dei Bright Eyes, quando, dopo un esordio che segue le tracce tradizionali dell’alt country nel 1999 se ne escono con “Blank-Wave Arcade”: new wave della new wave con citazioni di Cure e Devo in bella vista.
Quasi a voler conferire al 1999 il ruolo di anno zero del futuro revival anni ‘80 dell’indie (qui inteso nella sua accezione più generale) lo stesso anno un gruppo newyorchese come i Les Savy  Fav se ne esce con un singolo, “Our Coastal Hymn/Bringing Us Down” che, nella vena dei Nation Of Ulysses più funky e della no wave più disco, inserisce in un contesto postcore ritmiche funk e tempi spezzati, chitarre taglienti ed un cantato stridulo che rappresentano il brodo primordiale del p-funk del 2000, dimostrando come quel suono debba la sua esistenza alle formazioni più sperimentali del postcore degli anni ’90.
Come ad esempio gli Speedking, misconosciuta  formazione  newyorchese che gira sulle coordinate musicali meticcie di Minutemen e Six Finger Satellite di cui è batterista James Murphy, vale a dire colui che, dopo aver lavorato gomito a gomito con Tim Goldsworthy per la realizzazione di “Bow Down to the Exit Sign” di David Holmes (uno come ingegnere del suono, l’altro in veste di produttore) decide di aprire con quest’ultimo la Dfa (Death From Above). Un’etichetta che crea da subito un vero e proprio caso musicale con l’uscita, nel 2002, di singoli come “The House Of Jealous Lovers” dei Rapture e “Losing My Edge” degli LCD Soundsystem (moniker dei i padroni di casa Dfa), ma anche con remix per le Tigre (“Deceptacon”) e Fischerspooner (“Emerge”) che segnano virtualmente un passaggio di testimone, a cavallo tra il 2002 e il 2003, dalla scena electro a quella punk funk: il suono dalle label, col suo connubio tra ritmi elettronici e suoni post-punk arriva come una manna dal cielo per chi è ormai assuefatto alle sonorità anni’80 ma è anche saturo delle sonorità retro-trash di Fischerspooner e compagnia. Allo stesso tempo, nella sua ambivalenza come fenomeno dance ed indie, quel suono riesce anche ad attrarre a sé un’attenzione di critica e pubblico che non si registrava dai tempi dell’invasione della house francese.
E così New York, dopo aver battezzato il revival del garage-rock con gli Strokes ed aver cullato il fenomeno electroclash nel 2001, innesca un anno dopo un fenomeno di massa di recupero delle sonorità del p-funk. Ovviamente bisogna stare attenti alle schematizzazioni: non tutti i pionieri del revival di quei suoni stanno a New York, essendo il Regno Unito di inizio millennio una fucina di produzioni elettroniche seminali: Chicken Lips, Spektrum e Trevor Jackson (alias Playgroup) sono solo alcuni dei produttori elettronici che sperimentano con la house e le ridanno nuova vita attraverso innesti di dub, electro, funk e disco anni ’80; non  solo: Jackson è anche proprietario della Output Records, straordinario collante tra nuovo e vecchio continente, attraverso edizioni per il mercato inglese dei dischi Dfa e nomi come Colder, Mu e Black Strobe.
Per quanto riguarda il fronte indie, il pubblico rock alternativo viene travolto definitivamente da quei suoni con l’uscita di “Echoes”(2003), secondo disco dei newyorchesi Rapture, rilettura house dei suoni della new wave, prosecuzione ideale della disco mutante di inizio anni ‘80: non solo gruppi p-funk come Gang of Four e A Certain Ratio nel calderone sonoro, ma anche la new wave di Cure e Television e la veemenza del postcore che, come si diceva, per primo aveva pionierizzato quei suoni.
È un flirt travolgente tra danzabilità e rock, tra post-punk e indie rock che ha già parecchi precedenti: dai già citati Les Savy Fav, ai loro eredi ideali, i Liars, che su “They Threw Us All in a Trench and Stuck a Monument On Top” emergono con un interpretazione aspra e senza compromessi delle sonorità p-funk, all’esordio omonimo nel 2000, che giocano con dub e funky, con Gang of Four e Pil, in lunghe suite semi-strumentali che tradiscono anche in questo caso, qua e là, l’origine hardcore.
Affini per sonorità ed influenze ma più classicamente rock, con forti reminiscenze dei Clash, i Radio 4 di “Gotham!” (2003) (disco prodotto proprio da Goldsworthy e Murphy), irresistibile anche se non originalissima l’interpretazione del genere fatta dai Moving Units di “Dangerous Dreams” (2003), perfetto punto d’incontro tra i due filoni creativi in voga (garage e punk funk) i The Fever di “The Red Bedroom” (2004).
Esiste però un copione non scritto che fa sì che ad ogni invenzione sonora degli Stati Uniti segua una risposta dall’altra sponda dell’Atlantico attraverso cui l’input sonoro proveniente dagli  States viene fuso con la tradizione musicale locale, le asperità smussate (solo in parte) da un inarrestabile istinto melodico, il suono masticato e risputato con tasso di gradazione pop decuplicato. Non stupisce allora che due esordi, rispettivamente del 2004 e del 2005, quali il disco omonimo dei Franz Ferdinand e “Silent Alarm” dei “Bloc Party”, compiano ancora una volta il miracolo: i primi macinano Gang Of Four e Blur, Talking Heads e Strokes come se niente fosse ed ottengono il disco dell’anno; simili le influenze dei Bloc Party che però girano su sonorità più malinconiche e drammatiche riuscendo nell’impresa di aggiungere Smiths e Cure all’equazione, in un disco che, pur essendo meno immediato di quello dei loro colleghi scozzesi per molti versi ha il merito di traghettare definitivamente la tradizione più classica del pop inglese nell’era del punk funk .
Per la verità la definizione “era del punk funk” è un po’ iperbolica, perché se il punk funk è la riscoperta di inizio decennio più appariscente, c’è, più in generale, una rilettura dell’intero canovaccio post punk inglese che sconfina ai due lati dell’oceano: alcuni gruppi rileggono gli Xtc (passando ovviamente anche attraverso i Blur), come gli Hot Hot Heat di “Make Up the Breakdown” (2002), i Futureheads dell’esordio omonimo del  2004 e i Dogs Die In Hot Cars, tutti gruppi che però, complice il  revival di Gang Of Four e compagnia nell’aria, ne approfittano per dare a quei suoni un tiro ed una spigolosità che non avevano mai avuto.
Non è finita qui: sulle tracce di Smiths, Jam e Specials si mettono gli Ordinary Boys di “Over the Counter Culture” (2004), su quelle di Joy Division e Cure gli Interpol di “Turn on the Bright Lights” (2004), tra i Joy Division e il David Bowie Berlinese si collocano idealmente gli Arcade Fire di “Funeral”: tutti riferimenti musicali da prendere con le pinze, perché, se è vero che i suoni della new wave e del post punk possono essere avvertiti distintamente in questi dischi, c’è un’energia ed una verve nell’interpretazione che ci ricorda che siamo negli anni del revival garage e degli Strokes.
Allo stesso tempo il modo in cui tali influenze sono combinate fa sì che il risultato non sia una semplice somma delle parti, bensì qualcosa di nuovo e distinto: in pratica la stessa cosa successa dieci anni prima col brit pop, fase d’oro del pop inglese in cui, lavorando su influenze note e classiche, si dava vita a suoni (parzialmente) inediti secondo quel vecchio motto che dice che nulla si crea, nulla si distrugge, motto che, per quanto riguarda la storia della musica, trova una costante, quotidiana conferma.

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