Ci vuole davvero coraggio per fare uscire, dopo il successo di “Into the Music”, un disco tanto anti-commerciale. Siamo di nuovo fuori dal rock, per approdare ad un improbabile tipo di sperimentazione, prossima alla musica leggera in quanto a strumentazione ed arrangiamenti, eppure opposta nello spirito. Al posto dell’unico violino del disco precedente, qui c’è una orchestra intera, condotta dal vecchio compare Jeff Labes. La registrazione fu eseguita in pochi giorni, con largo spazio per l’improvvisazione. Il pezzo forte, “Summertime in England”, durava mezz’ora, ma la Polygram pensò bene di rieditarlo in metà tempo. Le liriche sembrano l’indice di un testo di letteratura inglese, in quanto citano a raffica nomi di poeti e di luoghi. E’ un lungo momento di meditazione filosofica, come tutto il disco, d’altronde. Il verso finale “Can you feel the Silence?” sarà ripreso, undici anni dopo, nel momento culminante di “Hymns to the Silence”. Qui non sarebbe fuori luogo la parafrasi: “Riesci ad ascoltare questo disco fino al termine?”. La musica, infatti, per quanto impeccabile, sembra stiracchiata oltre i giusti limiti. “When Heart is Open”, altri quindici minuti di meditazione senza sviluppo e senza melodia, è posta opportunamente in fondo. Se non riuscite a spegnere il giradischi vuol dire che vi siete addormentati. Se ascoltato un pezzo per volta, e con la giusta predisposizione d’animo, Common One diventa un disco a dir poco stupendo. Buona parte del merito và a Pee Wee Ellis, arrangiatore ed artefice di ispirati assoli.

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